giovedì 24 dicembre 2009
MERRY XMAS
mercoledì 16 dicembre 2009
UOMO DELL'ANNUS HORRIBILIS
martedì 8 dicembre 2009
THE QUIET PRESIDENT
La cover story dell’Economist del 26 novembre scorso è un editoriale non firmato, quindi attribuibile al direttore John Micklethwait, grande esperto di politica d’oltreoceano (cinque anni fa firmò, a quattro mani con Adrian Wooldridge, l’imprescindibile saggio sulla destra americana “The Right Nation”).
Questo presidente – si domanda il direttore – ce l’ha o no una strategia?
Ce l’ha un vero piano su come rimettere in ordine il mondo, oppure sta solo navigando a vista? Ce lo si comincia a domandare con impazienza, perché “un pragmatismo calmo e conciliante è benvenuto dopo l’impetuosa certezza morale di George Bush, ma implica anche dei rischi”.
Va bene ristabilire un po’ di umiltà e di cordialità nei confronti del resto del mondo, ma “il problema è che il presidente spesso sembra più gentile con gli antagonisti dell’America che con i suoi alleati”. Anzi, a proposito di alleati: quelli dell’Europa dell’Est “mentre i loro soldati muoiono in Afghanistan, trovano irritante essere chiamati soltanto “partner”, termine che Obama usa nei confronti di quasi chiunque”.
In definitiva, l’Economist si domanda se questo “multilateralismo tranquillo” di Obama, questa visione “in cui ogni nazione fa la sua piccola parte per il bene di tutti”, sottenda un piano concreto, o se invece non si tratti solo di un colossale bluff. Il presidente “ha ragione sul fatto che il potere americano è circoscritto. Ma l’Unione Europea non è in grado di contribuire alla mansione di gendarme del mondo. E Cina, India e Russia non ne hanno intenzione”.
Quindi l’America di Obama deve cavarsela da sola. E di fronte al nulla di fatto registrato su molti, troppi fronti nel primo anno di questa amministrazione, c’è di che cominciare a temere che non sia capace di farlo; e che il quarantaquattresimo inquilino della Casa Bianca “sia solo una versione presidenziale di Alden Pyle, l’idealista “Americano Tranquillo” di Graham Greene, che vuole cambiare il mondo ma sottovaluta quanto cattivo il mondo sia, e finisce per fargli del male”.
Fra gli addetti ai lavori, qualcuno avrà provato la sensazione di un déjà-vu.
Nel febbraio del 2003, alla vigilia dell’attacco americano in Iraq, Newsweek pubblicò un pezzo di Christopher Dickey, cronista esperto di spionaggio ed antiterrorismo, nel quale la stessa identica citazione veniva impiegata per argomentare una analisi molto critica della politica estera di George W. Bush. Anche in quel caso, infatti, il presidente veniva paragonato all’Alden Pyle di Greene, l’americano solo apparentemente tranquillo, in realtà pericolosamente incosciente perché “determinato a fare del bene non a dei singoli individui, ma ad una nazione, ad un continente al mondo”, e che quindi “rappresenta tutto ciò che gli europei temono degli Stati Uniti”. Newsweek paragonava Bush al personaggio di Greene per dire che era in buona fede ma pericoloso, perché segnato, come il protagonista del romanzo, da una “letale tensione tra grandi ideali ed ignoranza del pericolo”.
Quel libro, che Greene scrisse nel 1954 ambientandolo nella Saigon dell’epoca - in cui aveva vissuto come corrispondente di LIFE, del Sunday Times e del Figaro - è spesso considerato una sorta di profezia del fallimento americano in Vietnam.
I protagonisti sono in realtà due, profondamente antagonisti (anche perché si contendono la stessa donna): da un lato Tom Fowler, voce narrante ed alter ego dell’autore, anziano ed indolente reporter inglese che ad assiste con cinico distacco alla decolonizzazione dell’Indocina; dall’altro il giovane idealista Pyle, zelante diplomatico americano, borghese bostoniano, fresco di laurea ad Harvard (come Bush e come Obama), ufficialmente in forza alla Missione Americana di Aiuto Economico.
La tranquillità di quest’ultimo si rivelerà solo apparente, non quanto agli ideali che lo animano, bensì quanto ai mezzi che è deciso ad impiegare: lo si scoprirà essere un agente della CIA, inviato ad armare segretamente una fazione vietnamita ritenuta ben controllabile, nel tentativo di portare all’instaurazione di un regime filooccidentale prima che la disfatta francese lasci il campo libero ai comunisti (oggi lo scenario pare quasi banale, ma all’epoca gli americani avevano ufficialmente a che fare con la Corea, non con il Vietnam. E la CIA, che era stata creata da appena otto anni, aveva intrapreso, con successo, solo due operazioni clandestine: il colpo di stato che aveva installato al potere lo Scià in Iran, e quello che aveva portato il colonnello Armas al potere in Guatemala). Alla fine, l’inesperienza di Pyle e la sua tendenza a sopravvalutare le proprie capacità di gestire gli eventi si rivelano fatali: l’operazione sfugge di mano, e l’esplosivo al plastico da lui fornito massacra degli innocenti.
Quando il libro uscì– in piena Guerra Fredda – l’antiamericanismo di cui è intriso lo rese poco gradito negli USA. Recuperò popolarità quando, tre anni dopo, tenendo conto del contesto “maccartista”, Hollywood ne sfornò una trasposizione cinematografica edulcorata, con la regia di Joe Mankiewiez (reduce dal successo di “Bulli e pupe”, con Marlon Brando e Frank Sinatra), nella quale il finale era totalmente stravolto e l’americano Pyle era scagionato da quasi tutte le colpe attribuitegli dalla trama originale. Nel 2002 è uscito un remake molto più fedele al romanzo, diretto dall’australiano Philip Noyce, con Brendan Fraser nel ruolo di Pyle ed un perfetto Michael Caine nei panni di Fowler.
Anche stavolta raccontare di un attentato finanziato dagli USA non era granché in sintonia con il comune sentire del momento, sicché l’uscita del film venne ritardata per quasi un anno, e persino il liberal New Yorker, nel recensirlo, avvertì l’esigenza di mettere in guardia il lettore dall’errore di “fare paragoni affrettati tra un’America guidata dalla paura di instabilità in terre lontane e un’America che sta reagendo ad atrocità commesse sul suo suolo“.
Il fatto è che “The Quiet American” è un testo la cui energia pulsante è costituita non da un generico antiamericanismo, ma dalla specifica versione tipicamente inglese, pura supponenza da nobile decaduto nei confronti dei parvenu yankee: una recensione di TIME negli anni Cinquanta diagnosticò un “complesso di inferiorità britannico, quel misto di rabbia ed autocompatimento con il quale il vecchio gallo osserva quello giovane aggirarsi nel pollaio”.
Ciò portò Greene – che fu egli stesso uomo dei servizi segreti britannici, pur senza rinunciare al suo atteggiamento anti-militante (pare chiamasse l’MI6 «la migliore agenzia di viaggi del mondo») – ad utilizzare nel modo più caustico, addirittura contribuendo in qualche misura a definirlo, lo stereotipo dell’americano “naif”, convinto di aver capito tutto, di saper organizzare e cambiare tutto, e soprattutto di rappresentare il Bene (“Dio ci salvi dall’innocente e dal buono”).
Anche per questo riuscì facile il parallelo con Bush, che, seppure non particolarmente colto, appariva segnato in modo determinante dal rapporto con i “suoi” York Harding: Bob Kagan, Bill Kristol, David Frum e via neoconservando.
Obama sotto questo profilo corrisponde molto meno al personaggio, è troppo pragmatico, troppo poco ideologizzato: certo, ha i suoi intellettuali di riferimento (da Fareed Zakaria a Thomas Frideman, e mettiamoci pure Joseph Nye), ma nessuno di questi sembra averlo stregato più di tanto.
Si potrebbe semmai strologare sul ruolo del suo esercito di consulenti e consiglieri, ma a questo l’Economist non si spinge.
Ma è un fatto che ad oggi il bilancio è disastroso.
La decisione sul surge in Afghanistan arriva con tragico ritardo e senza adeguate spiegazioni. La posizione della Casa Bianca alla conferenza di Copenhagen sul clima sembra disperata senza un appoggio netto del Congresso. Il vertice in Cina si è concluso senza uno straccio di risultato, nonostante le riverenze al regime di Pechino e il rifiuto di incontrare il Dalai Lama; Leslie Gelb, ex presidente del Council on Foreign Relations, ha scritto sul sito “The Daily Beast” che nella sua missione in Asia il presidente ha dato “una sgradevole sensazione di dilettantismo nel gestire la potenza americana”, e che dovrebbe assumersene la responsabilità “come John Kennedy fece con la Baia dei Porci”. L’appoggio della Russia sulle sanzioni all’Iran non si vede all’orizzonte nonostante sia stato immolato il piano di scudo stellare a difesa dell’Europa orientale. Il Pakistan sta incassando i finanziamenti di Washington senza dare granché in cambio.
Venerdì scorso Peggy Noonan ha scritto sul Washington Post che il primo anno di un nuovo presidente è quello nel corso del quale si formano le impressioni indelebili su di lui, e vengono scattate le fotografie destinate a rappresentarne l’icona. Eletto oltre un anno fa con aspettative smisurate, al governo da dieci mesi, troppe volte Barack Obama è stato fotografato nell’atto di inchinarsi di fronte a monarchi e tiranni. Sarà forse in grado, nelle prossime settimane, di dimostrare di non aver nulla in comune con l’Americano Tranquillo di Greene; per ora, sta facendo dormire sonni sempre meno tranquilli agli americani, e non solo.
mercoledì 25 novembre 2009
UN TACCHINO CHIAMATO CORAGGIO
martedì 24 novembre 2009
MR. NOBEL GOES TO CHINA
Si dice che il primo viaggio di Barack Obama in Cina ha gettato le basi del cosiddetto “G2”, la nuova spartizione bipolare del mondo. I cinesi pare non siano d’accordo, ma tant’è.
Chiedetelo a Federico Rampini:
“I giudizi sono impietosi. ‘La Cina è stata irremovibile – osserva il New York Times – Obama ha scoperto una superpotenza in ascesa che è ben decisa a dire no agli Stati Uniti’. Ancora più duro il Washington Post: ‘Obama torna dalla Cina senza risultati sui dossier importanti, dal nucleare iraniano alla rivalutazione del renminbi. E’ poco per un presidente che fece campagna elettorale promettendo grandi cambiamenti nella diplomazia. L’unica cosa che è cambiata è il tono conciliante degli Stati Uniti. Obama ha concesso molto ai suoi interlocutori. […] Pechino, a differenza dei suoi predecessori, per non irritare i padroni di casa Obama non ha cercato di incontrare qualche dissidente perseguitato. Non ha fatto il gesto di andare a messa, che George Bush fece per sollevare il tema della libertà religiosa. La Casa Bianca stavolta non ha ottenuto neppure la diretta televisiva per il dialogo tra Obama e gli studenti di Shanghai. Ha dato fin troppo e in cambio di cosa? si chiedono in America”…
“Il problema dei diritti umani, la difesa di Taiwan, la stessa spinosa questione del Tibet dopo decenni di convivenza difficoltosa con il realismo politico sono tutte state spazzate sotto il tappeto […] I giornalisti americani fingono di scandalizzarsi, quelli cinesi sono compiaciuti. In realtà è tutto un teatrino. L’accordo tra le parti c’era da tempo ed era che le questioni dei diritti e dei valori, che hanno rallentato e reso difficile per anni il rapporto tra Usa e Cina, sarebbero state messe in disparte […] Oggi quindi l’apertura di Obama alla Cina lascia gli apostoli nostrani dei diritti umani con il cerino in mano, isolati sui principi e sulla politica sostanziale, mentre questo nuovo G2, o comunque lo si voglia chiamare, comincia a veleggiare”.
In realtà, l’impressione è che ci si avvii verso qualcosa di peggio dell’ “equilibrio del terrore” che vigeva durante la Guerra Fredda, perché, se è vero che a quell’epoca l’obiettivo era la sopravvivenza e non la vittoria, è pur sempre vero che quell’obiettivo lo si perseguiva cercando almeno di “contenere” la controparte. Oggi invece, sia con le parole che con i fatti, l’America di Obama appare intenzionata a non “contenere” alcunché.
È vero che la linea “troppo aggressiva” e “troppo poco realista” di George W. Bush (il quale quando si recò in Cina l’ultima volta, nel 2005, fece precedere il viaggio da un ennesimo incontro con il Dalai Lama alla Casa Bianca, e per di più fece prima tappa in Giappone dove tenne uno dei suoi discorsi tutti “freedom” e “democracy” invitando addirittura – somma provocazione – a prendere esempio da Taiwan) non ha prodotto, a quel che sembra, grandi risultati, nemmeno in termini di mero contenimento.
Peccato che ora il realismo del pragmatico Obama - che con tutto il garbo, l’umiltà e la prudenza di questo mondo, e con il conforto del consueto super-staff di consulenti, è andato ad ostentare concordia con questo signore qui inaugurando una nuova linea di appeasement, peraltro ampiamente anticipata lo scorso febbraio dal viaggio in Cina del neo-Segretario di Stato Hillary Clinton, che ha deluso amaramente le aspettative di chi si era lasciato sedurre dalle suggestioni della campagna elettorale - non sembri affatto dare migliori risultati.
Non è stato raggiunto nessun risultato apprezzabile né sui dossier prioritari come l’economia, il clima, il nucleare iraniano e quello nordcoreano, né su altri fronti molto importanti come il sostegno americano a Taiwan, o la situazione in Birmania, o quella in Sudan (qualcuno per caso ancora ricorda quel problemino?…).
Non parliamo, poi, della questione tibetana, sulla quale Obama si è limitato ad un laconico e malinconico “invito a dialogare con il Dalai Lama” (che lui non ha osato incontrare prima di questo viaggio, per non dispiacere lorsignori), e questo dopo aver incassato il pernacchione del governo di Pechino, che alla vigilia del suo arrivo lo ha sfrontatamente sfottuto davanti al mondo gettandogli in faccia un grottesco parallelo tra l’autonomismo tibetano di oggi e il secessionismo dei confederati nella Guerra Civile americana, invitando sardonicamente il presidente afroamericano a mandare a spasso il Dalai Lama in ossequio alla sua ammirazione per Abraham Lincoln…
Presumiamo pure che questa linea ultraremissiva sia da leggere in ottica tattica: un temporeggiare con basso profilo in attesa di recuperare energie e rialzare la testa quando ce lo si potrà permettere.Resta però da capire se potrà funzionare, e se i danni collaterali che essa sta già producendo saranno o no reversibili.
domenica 8 novembre 2009
REAGAN E LA CONQUISTA DI BERLINO
Mio pezzo su Libero di oggi.
Quella che segue è una versione leggermente più ampia (quella originale, non sacrificata dalle dimensioni del cartaceo che pure la redazione ha generosamente forzato). La regalo ai lettori di JEFFERSON:
«I testicoli dell’Occidente»: così Nikita Krushev definì Berlino nel 1956. Nel senso che, si vantò, «ogni volta che voglio far urlare l’Occidente, gli do una strizzatina». Era vero, e lo fu fino al 12 giugno del 1987, quando Ronald Reagan tenne un comizio davanti alla Porta di Brandeburgo.
L’autore di quello storico discorso fu uno speechwriter appena trentenne: Peter Robinson, un neolaureato e neoassunto alla Casa Bianca, che si era fatto le ossa alla National Review, la prestigiosa rivista conservatrice diretta da William E. Buckley. Nell’aprile 1987, Robinson si aggregò alla missione dei Servizi Segreti addetta a preparare l’imminente viaggio del presidente in Europa.
Ne approfittò per parlare con la gente, per carpire il sentire comune. Incontrò anche John Kornblum, il più alto funzionario americano a Berlino; il quale gli consigliò di tenersi alla larga dall’argomento del Muro. Robinson era determinato a fare l’esatto contrario.
Tornato a Washington, buttò giù la prima bozza del discorso, che conteneva questo passaggio: «Segretario Generale Gorbaciov, se davvero vuole la pace, venga a Berlino. Se davvero vuole il benessere dell’Unione Sovietica e dell’Europa orientale, venga a Berlino. Venga qui davanti a questo muro. Herr Gorbaciov, machen Sie dieses Tor auf». La frase finale in tedesco sarebbe stata poi sostituita con la traduzione, «apra questo cancello»; quella più celebre sull’abbattimento del Muro sarebbe stata aggiunta in una versione di poco successiva. In quel passaggio il giovane Robinson aveva colto l’essenza della politica estera reaganiana, basata sulla ottimistica ed ostinata convinzione che la Guerra Fredda non fosse destinata a durare in eterno, e che spettasse agli Usa chiudere quel capitolo a modo loro.
Nel preparare la sua candidatura alle primarie presidenziali repubblicane del 1979, l’allora ex governatore della California aveva spiegato ai suoi consulenti che la sua visione della gestione del rapporto con i sovietici era "semplice, qualcuno direbbe semplicistica: noi vinciamo e loro perdono".
Bisognava però vincere senza guerreggiare. Negli anni Cinquanta si era passati dalla bomba a fissione a quella a fusione, la cui potenza (sperimentata dagli americani con l’annientamento dell’atollo di Bikini nel marzo del ’54) era settecentocinquanta volte superiore a quella dell’ordigno sganciato su Hiroshima. E questo aveva sgombrato il campo da qualsiasi ipotesi di guerra “calda” che potesse concludersi con qualcosa che non fosse la “fine di mondo” del Dottor Stranamore.
Reagan durante il suo primo mandato agì da falco. Raddoppiò il budget del Pentagono costringendo il Cremlino ad una rincorsa economicamente e tecnologicamente insostenibile. Soprattutto, si mostrò intenzionato a por fine all’“equilibrio del terrore”, la garanzia reciproca di non belligeranza fondata sul deterrente dell’olocausto nucleare. Un paradosso che Reagan aveva sbeffeggiato con la metafora di due pistoleri «uno di fronte all’altro in un saloon, che si puntano reciprocamente la pistola alla testa... per sempre». La sua risposta fu lo “scudo stellare”. Una volta chiarito chi fra i due contendenti stava giocando in attacco, Reagan iniziò a negoziare. Nel vertice di Reykjavik, nell’ottobre 1986, Gorbaciov aveva chiesto che gli Usa abbandonassero qualunque sviluppo dello “scudo stellare” non limitato alla ricerca di laboratorio. Reagan aveva invece proposto di negoziare un taglio dei missili a gittata intermedia. Nessuno dei due si era schiodato dalle rispettive posizioni e il summit si era concluso con un nulla di fatto. Ma ci erano andati vicini. Si sarebbero dovuti incontrare per la terza volta a Washington a dicembre.
Nel giugno 1987 il presidente avrebbe fatto il suo ultimo viaggio ufficiale in Europa. L’ultima tappa era Berlino. Gorbaciov, che quell’anno aveva pubblicato il libro Perestroika e stava rubando all’anziano presidente americano la parte in commedia di “uomo del cambiamento”, non era tipo da dare “strizzate” in stile krushioviano; ma nemmeno da Reagan si attendevano gesti particolarmente aggressivi. Reagan comprese, invece, che in quel momento l’esigenza principale era quella di mostrare che il Mondo Libero aveva ancora un leader ben intenzionato a vincere, capace all’occorrenza di tirare fuori la sua grinta da cowboy.
E infatti, appena lesse la bozza del discorso di Robinson, gli piacque. Non piacque invece nemmeno un po’ al Dipartimento di Stato, il quale condusse una campagna intensiva per boicottarlo; poi, quando fu chiaro che Reagan voleva “quel” discorso, i funzionari del National Security Council tentarono una “revisione” finale che cancellava l’intero paragrafo sull’abbattimento del muro. Ma l’ultima parola spettava al presidente, che decise di ripristinare quel passaggio: «C’è un solo gesto che i sovietici possono fare che sarebbe inequivocabile, che farebbe avanzare drammaticamente la causa della libertà e della pace. Segretario Generale Gorbaciov, se davvero vuole la pace… apra questo cancello! Mr. Gorbaciov... Mr Gorbaciov…Tiri giù questo muro».
«La reazione di Mosca fu inaspettatamente blanda», ha scritto John Lewis Gaddis, autorevole storico della Guerra Fredda. “Malgrado la sfida al simbolo più vistoso dell'autorità sovietica in Europa, la programmazione per il vertice di Washington proseguì regolarmente”. A dicembre, Reagan e Gorbaciov firmarono un trattato che prevedeva lo smantellamento dei missili nucleari a gittata intermedia in Europa. Il discorso di Berlino parve essere stato più che altro inoffensivo. Ma quando di lì a due anni il Muro crollò, le immagini di quel proclama di Reagan vennero mandate in onda a ripetizione.
Due saggi appena usciti , “The Rebellion of Ronald Reagan – a History of the End of the Cold War”, del corrispondente del Los Angeles Times James Mann (lo stesso che cinque anni fa si fece notare con “The rise of the Vulcans”, una monografia sull’entourage di George W. Bush), e “Tear Down This Wall: A City, a President, and the Speech that Ended the Cold War”, del redattore di TIME Romesh Ratnesar (intervistato nel video qui sopra), ricostruiscono accuratamente quell'evento. In particolare il primo, quello di James Mann, racconta di come Reagan si ribellò alla realpolitik del Dipartimento di Stato, del National Security Council e di certi ambienti conservatori.
Ma in realtà la sua ribellione si rivolgeva all’intero establishment occidentale. A settembre, il Times ha pescato tra i documenti sovietici desecretati dopo la fine della Guerra Fredda la trascrizione di un incontro riservato tra Margaret Thatcher e Michail Gorbaciov il 23 settembre del 1989 .
Stando alla carta, la Lady di ferro disse a Gorbaciov che l’Occidente non voleva che il Muro crollasse: «La riunificazione della Germania non è nell’interesse della Gran Bretagna, né dell’Europa Occidentale. Potrebbe sembrare il contrario dalle dichiarazioni pubbliche, o dai comunicati che vengono diramati nei vertici della Nato; ma non è il caso di prendere sul serio quelle affermazioni. In realtà noi non vogliamo un Germania unita. Ci porterebbe a modificare i confini del dopoguerra, e noi non ce lo possiamo permettere, perché minerebbe la stabilità dell’intero scenario internazionale mettendo a repentaglio la nostra sicurezza».
Ventidue anni dopo Barack Obama, benché invitato, non sarà a Berlino per prendere parte alle celebrazioni per il ventennale della caduta del Muro. Pare sia troppo impegnato nei preparativi del suo viaggio in Cina, il nuovo antagonista da “contenere”.
PS - Day-After Update: Sul Wall Street Journal di oggi, Tony Dolan, l'allora capo di Robinson, ricorda alcuni succulenti dettagli di quella "lotta all'ultimo sangue per mantenere nel testo del discorso quelle quattro semplici parole: tiri-giù-quel-muro".
martedì 27 ottobre 2009
LA GUERRA DEI DRONI
“Top Gun”: chi è stato giovane negli anni Ottanta ricorda inevitabilmente con un certo affetto quel puerile ma irresistibile cult-movie, in cui Tony Scott romanzava come in un fumetto le spericolate gesta dei piloti militari della californiana United States Navy Fighter Weapons School (meglio nota come Top Gun, per l’appunto). Quella scuola è realmente esistita: era il più importante dei Replacement Air Group, i centri di perfezionamento creati dal Pentagono nei primi anni Settanta, alla luce delle disavventure del Vietnam, in cui i piloti più esperti addestravano i novellini.
Oggi quel film, che nel 1986 fece la fortuna di Tom Cruise, si avvia a divenire una sorta di documento di un’era passata. La base “Top Gun”, che negli anni Novanta è stata trasferita dalla California nel vicino Nevada, si sta trasformando in qualcosa di molto diverso da quello che Hollywood mostrò al mondo un quarto di secolo fa. L’aviazione e la marina stanno investendo sempre più nell’impiego dei cosiddetti droni, gli aerei da guerra senza esseri umani a bordo, pilotati via satellite da terra.
Ovvio: se si vuole mettere il meno possibile a repentaglio la incolumità di un pilota, farlo addestrare da veterani sopravvissuti all’esperienza del combattimento reale è utile, ma tenerlo al sicuro a terra, davanti ad un computer con in mano un joystick, magari dall’altra parte del mondo rispetto alla zona bombardata, è infinitamente meglio.
Ma la sicurezza del pilota non è tutto. Secondo i fautori di questo nuovo sistema, l’impiego dei droni porta anche a ridurre il numero di vittime civili, poiché, a differenza del tradizionale caccia che doveva bombardare con “toccata e fuga” per sottrarre il prima possibile il pilota ai colpi dell’artiglieria contraerea, il drone può permettersi di volare sopra il bersaglio per prendere bene la mira con tutta calma, per ore e ore, anche per un’intera giornata. Questo argomento non convince i sostenitori della cosiddetta counterinsurgency, ossia la tecnica adottata dal generale David Petraeus con il surge che nel 2007 ha recuperato l’Iraq dall’orlo dell’abisso, e che attualmente il generale Stanley McChristal vorrebbe tentare anche in Afghanistan. Costoro sostengono che nel combattere guerre asimmetriche, cioè nell’usare un esercito regolare contro terroristi e guerriglieri, è decisivo porre la popolazione civile sotto la protezione delle proprie truppe, anziché renderla vittima accidentale delle proprie bombe, poiché nel primo caso è incoraggiata a divenire preziosa alleata, e nel secondo caso è di fatto spinta ad appoggiare il nemico. Ovviamente secondo questa visione è bene puntare il più possibile sulle truppe di terra, e il meno possibile sui bombardamenti aerei, droni o non droni.
Il punto più delicato di questa storia è che il programma di guerra aerea con i droni ha un suo “lato oscuro”, una sua spregiudicata diramazione non ufficiale: così come negli anni Sessanta il Pentagono conduceva ufficialmente la guerra in Vietnam, e la CIA guerreggiava “ufficiosamente” nei cieli del Laos con l’operazione segreta “Air America”, così oggi, all’operazione ufficiale gestita dal Pentagono nei cieli dell’Afghanistan e dell’Iraq, si affianca, da un paio d’anni, una operazione “coperta”, anche stavolta gestita dalla CIA, in Pakistan, quindi anche in questo caso in un paese con il quale gli USA non sono ufficialmente in guerra (nonostante sia lì che si annida l’epicentro dei guai della regione).
A dire il vero parlare di operazione coperta è quasi ridicolo: Henry Crumpton, un ex dirigente dell’Agenzia, l’ha recentemente definita “uno dei segreti meno segreti della CIA”. Notizie abbastanza precise trapelano infatti da molti mesi sui grandi media; anche se solo nelle ultime settimane la stampa sta adeguatamente approfondendo l’argomento.
La settimana scorsa, la giornalista del New Yorker Jane Mayer, una che negli ultimi anni si è fatta notare con inchieste molto critiche sui metodi usati dalla CIA nell’antiterrorismo, ha pubblicato la più approfondita ed accurata analisi sino ad oggi condotta su questa questione. L’articolo del New Yorker sta facendo molto discutere (in Italia nel ha parlato Christian Rocca sul Foglio, giovedì scorso), perché riferisce fatti non banali. In sintesi: in dieci mesi di amministrazione Obama, gli Stati Uniti hanno bombardato il Pakistan più volte di quanto lo avevano fatto negli ultimi tre anni dell’amministrazione Bush.
Dati sorprendenti per molti (anche per la stessa Mayer) solo perché in questi mesi i giornalisti hanno preferito continuare a fissare il “santino” elettorale del 44esimo presidente piuttosto che la realtà dei fatti. Ma in realtà c’è poco da stupirsi.
Il primo agosto del 2007, quando il bombardamento del Pakistan con i droni era ancora solo uno studio segretamente commissionato alla CIA dall’amministrazione Bush, l’aspirante candidato democratico Barack Obama, con lo stesso discorso programmatico con il quale puntò maldestramente tutto sulla inopportunità del surge e sul ritiro immediato dall’Iraq, precisò che lo sforzo militare andava invece intensificato sull’Afghanistan e sul Pakistan.
Quest’ultima precisazione fece sobbalzare tutti sulle sedie: il Pakistan è un paese alleato, non nemico. Eppure, in pratica, Obama dichiarava pubblicamente la propria intenzione, qualora eletto presidente, di colpire anche lì pur di uccidere i terroristi di Al-Qaeda.
Quella sortita venne immediatamente esecrata, non senza una certa dose di ipocrisia, da tutti gli altri contendenti alla nomination democratica, Hillary Clinton in testa; ma Obama non rinnegò mai nulla, ed anzi, una volta ottenuta la candidatura, nei testa a testa televisivi con il candidato repubblicano John McCain nell’autunno del 2008 rivendicò quella sua posizione come prova della sua intenzione di dare una svolta rispetto all’era Bush: fino ad ora, spiegò, i terroristi hanno avuto dei rifugi sicuri in Pakistan, “ma questa storia cambierà quando sarò io il presidente”. Una geniale bugia, poiché in realtà a quell’epoca l’amministrazione Bush stava già bombardando i “rifugi sicuri” dei terroristi in Pakistan… ma i repubblicani erano impossibilitati a rivendicarlo, trattandosi di operazione “segreta” e di dubbia legalità. Obama non ha fatto altro che intensificare l’operazione.
Ad ogni modo, bushiani od obamiani che siano, questi bombardamenti di nuova generazione sono una tattica, non una strategia.
Il che non può essere una critica nei confronti della CIA, alla quale adiopiacendo non compete elaborare strategie. Quello, semmai, è il mestiere del presidente.
I droni sono uno strumento come un altro per fare la guerra: consentono di farla in circostanze in cui in passato sarebbe stato impossibile o troppo rischioso, ma non risolvono né consentono di eludere nessuno dei quesiti di fondo che ancora attendono risposta per poter definire quale sia, in sostanza, la “Dottrina Obama”. In quali casi si interviene con la forza, e in quali no? E con quali alleati? E soprattutto, con quali fini? Antiterrorismo o promozione della democrazia? Interesse nazionale o diritti umani universali? Egemonia o sopravvivenza?
E questo è, forse, il punto cruciale: ancora una volta, l’attuale presidenza appare incentrata sulla tattica, ma priva di una vera strategia. Naviga a vista. A lungo andare, può costarle molto caro.
lunedì 19 ottobre 2009
“OBAMA E’ COME BUSH”. CHI L’HA DETTO?
Ma il Corrispondente del Foglio, si sa, è un bushiano mai pentito.
martedì 13 ottobre 2009
BUM! NON ATTACCA
"Abbiamo deciso che abbiamo bisogno di un "reset" in questo ambito, e di scrollarci di dosso il nostro approccio precedente" ha detto, aggiungendo che gli USA hanno deciso di non impartire più lezioni sulla democrazia alla Russia, in modo da non irritare Mosca".
venerdì 9 ottobre 2009
MIRACOLO: PREMIO NOBEL SULLA FIDUCIA. OBAMA SANTO SUBITO!
Non saprei come collocarlo, se non come l'ennesimo miracolo di Sant’Obama.
martedì 29 settembre 2009
"SARKO HA IL COMPLESSO DI OBAMA"
Secondo il settimanale americano (testata da sempre schieratissima con il 44esimo inquilino della Casa Bianca), il presidente francese sarebbe affetto da un vero e proprio “Complesso di Obama”. Primadonna com'è, non digerirebbe il fatto di essere destinato a vedersi costantemente rubare la scena dal collega amerikano, altrettanto egocentrico ma sempre avanti di una spanna, non solo in termini di importanza del paese che governa ma anche in fatto di popolarità:
“un recente sondaggio della Transatlantic Trends mostra che Obama gode di un fenomenale 88% come tasso di popolarità in Francia, mentre Sarkozy solitamente si ferma sotto al 50%”.
Inoltre, l'Eliseo si vedrebbe frequentemente scippare dalla Casa Bianca il merito di importanti iniziative. Il G20 in cui Obama ha giocato da protagonista ben oltre l'ovvio status di padrone di casa “è un consesso che proprio Sarkozy ha insistentemente voluto istituire, l'anno scorso”; e anchela linea dura contro le ambizioni nucleari dell'Iran Sarko l'adottò molto prima di Obama.
Un po' come il Nando Moriconi di Alberto Sordi, il presidente francese dalle sue parti è ormai accreditato come “l'Americano”, ma quando si viene al dunque si vede un po' troppo poco considerato dall'americano “quello vero”.
Due galli in un pollaio – con inevitabile contorno di servizi fotografici rifiutati, dispettucci, ripicche. “Pare che in primavera Sarkozy abbia detto a un gruppo di parlamentari con i quali stava pranzando che Obama “non ha mai gestito un ministero in vita sua””.
In tutta questa facezia (di un certo pregio anche perché evita di scadere in facili ironie sulla statura fisica dei due personaggi), il quadretto che da solo vale la lettura dell'intero pezzo è questo:
“Le personalità dei due presidenti possono entrare in collisione: Obama, sorridente ma distaccato, tratta Sarkozy come uno dei tanti suoi non-esattamente-pari in Europa, mentre Sarkozy, tutto pacche sulle spalle, ama chiamare il presidente USA “amico”, ma non si vede ricambiare il favore. Guardarli insieme sul palco, come quando sono apparsi alle commemorazioni per l'anniversario del D-Day in Normandia a giugno, è come guardare Joe Pesci recitare faccia a faccia con Denzel Washington”.
venerdì 25 settembre 2009
PERCHE' PROPRIO A PITTSBURGH
La “fascia” che corre tra Illinois, Indiana, Michigan, Ohio e Pennsylvania occidentale, è da molti anni soprannominata “Rust Belt”, la Cintura della Ruggine: desolazione e degrado, piccoli paesi e grandi città “fantasma”, costellati da stabilimenti industriali da tempo abbandonati.
Pittsburgh era fino a qualche tempo fa nelle stesse miserevoli condizioni, ma recentemente sta venendo “rilanciata” puntando sui settori più “innovativi”.
Spiega Gideon Rachman del Financial Times:
“Pittsburgh è considerata una vetrina della ripresa post-industriale. La popolazione cittadina era stata decimate dal naufragio dell’industria siderurgica. Metà della popolazione era andata a vivere altrove, man mano che i posti di lavoro evaporavano […] Ma oggi nuove industrie sono spuntate nel campo dei servizi sanitari, della robotica e dell’informatica. Il tasso di disoccupazione è “solo” il 7,7%, più basso del resto degli USA. Dovrebbero fare delle magliette per il G20, con su lo slogan “si può sopravvivere alla globalizzazione”.
Soprattutto, l’amministrazione vuole sbandierare il “nuovo potenziale” di posti come Pittsburgh generato dal matrimonio tra i business delle nuove tecnologie e quello legato all’ecologia, che si spera possa generare nuovi posti di lavoro che vadano a rimpiazzare quelli persi con la crisi della siderurgia, cioè “emigrati” con la delocalizzazione, che tanto ormai è chiaro non torneranno più.
Qui un video preparato dal Dipartimento di Stato per propagandare agli occhi del mondo questo rilancio “dalla ruggine al verde”.
(Per inciso: identiche politiche erano nel programma dello sconfitto candidato repubblicano John McCain, il quale nell’aprile dello scorso anno tenne uno dei suoi primi comizi nella cittadina di Youngstown, in Ohio, uno dei luoghi più disperati della Rust Belt, in cui propose di detassare “le nuove società ed industrie del settore tecnologico, in particolare di quello delle tecnologie ecologiche come quelle di trasformazione dell’energia solare ed eolica, che stanno cercando a fatica di crescere proprio qui, cercando nuovi mercati ed assumendo nuovi lavoratori”).
In perfetto stile obamiano (soprattutto michelleobamiano) il tutto viene confezionato nel modo più “trendy”, senza timore di sconfinare nel radical-chic. E così l’allevamento bio va a braccetto con i quadri pop. Racconta Maurizio Molinari su La Stampa di oggi:
“il gran finale studiato a tavolino nella West Wing della Casa Bianca avviene nel segno del cittadino di Pittsburgh forse più noto al mondo: il pittore Andy Warhol al quale è intitolato un museo che raccoglie numerosi dipinti che raccontando la carriera dell’artista che ritrasse Marylin Monroe in una memorabile posa. Sarà in questa cornice che le First Lady concluderanno il pranzo e il summit prima del rituale arrivederci.”
giovedì 24 settembre 2009
"NON SI IMPONE DALL'ESTERNO". E DALL'INTERNO?
“Democracy cannot be imposed on any nation from the outside. Each society must search for its own path, and no path is perfect. Each country will pursue a path rooted in the culture of its people and in its past traditions. And I admit that America has too often been selective in its promotion of democracy”.
…e quest’altra:“I pledge that America will always stand with those who stand up for their dignity and their rights -- for the student who seeks to learn; the voter who demands to be heard; the innocent who longs to be free; the oppressed who yearns to be equal”
“There are basic principles that are universal; there are certain truths which are self-evident -- and the United States of America will never waver in our efforts to stand up for the right of people everywhere to determine their own destiny”.Altrettanto trascurato, sui nostri giornali, il fatto che il tutto era stato introdotto da questa premessa:
E da questo ammonimento:“we must champion those principles which ensure that governments reflect the will of the people. These principles cannot be afterthoughts -- democracy and human rights are essential to achieving each of the goals that I've discussed today, because governments of the people and by the people are more likely to act in the broader interests of their own people, rather than narrow interests of those in power”
“The people of the world want change. They will not long tolerate those who
are on the wrong side of history”.
Sul piano della retorica, il 44esimo presidente si conferma (come già nel famoso -? – discorso del Cairo) ambivalente, generico, molto attento a strappare applausi senza mai sbilanciarsi e senza mai vincolarsi ad un contenuto concreto.
Continua a non esistere una “dottrina Obama” (benché i conservatori incazzati del Washington Times la riassumano polemicamente : “resa, indorata con una glassa di belle parole”).
Continuiamo a non sapere che farà questa amministrazione del National Endowment for Democracies, del USAID, e di altre cosucce del genere che tanto ingrifano i dietrologi.
lunedì 21 settembre 2009
SI STA COME D'AUTUNNO
venerdì 11 settembre 2009
WORLD TRADE CENTER
lunedì 7 settembre 2009
AFGHANISTAN, 2 MESI DOPO
Vittorio Zucconi, La Repubblica, 3 luglio 2009
Federico Rampini – sulle pagine degli esteri de La Repubblica il primo settembre 2009 (e non “solo sul suo blog” come erroneamente segnalato sabato scorso da Camillo)
L’"esperto" John Burns sul “blog di guerra” del NYT – 4 settembre 2009
Michael Laskoff, Huffington Post, 5 settembre 2009
Nicholas Kristof, NYT, 5 settembre 2009
"Ho trovato significativo il fatto che durante lo scorso weekend, entrambi i due principali commentatori di politica estera del New York Times’s - Tom Friedman e Nicholas Kristoff - si siano prodotti in editoriali scettici sulla guerra in Afghanistan . [...] Non sono solo gli editorialisti ad avere molteplici ripensamenti. Lo stesso sta accadendo ai vertici dei principali think tank americani di politica estera. [...] Si tratta non solo di persone che incidono sulla formazione dell'opinione delle elite, ma anche di naturali simpatizzanti di Obama. Se persino loro cominciano ad opporsi a questa guerra, avrà una bella gatta da pelare". Gideon Rachman, "solo sul suo blog", oggi 7 settembre 2009
"Fra un anno, staremo ancora disquisendo se l’Afghanistan si stia trasformando nel Vietnam di Obama oppure no. Se il presidente sarà fortunato, la questione sarà ancora aperta". Doyle McManus, Los Angeles Times, 6 settembre 2009
mercoledì 2 settembre 2009
OBAMARKETING: "YES WE CAN" NON VENDE PIU'?
2) "Yes, we can. Il nuovo sogno americano", di B. Obama (Donzelli, 2008)
3) "L'audacia della speranza. Il sogno americano per un mondo nuovo" di B. Obama (prefazione di Uòlter "Si può fare" Veltroni - Rizzoli, 2007)
4) "Barack Obama. La rockstar della politica americana", di G. Moltedo e M. Palumbo (UTET, 2007 - ora ripubblicato come "Barack Obama. 44° presidente USA")
5) "I sogni di mio padre. Un racconto sulla razza e l'eredità", di B. Obama (Nutrimenti, 2007)
7) la monografia di Giuliano da Empoli uscita per la Marsilio, a mio avviso ancora oggi il più interessante prodotto editoriale italiano su Obama (anche se di fatto si tratta di un assemblaggio di articoli usciti su Il Riformista);
8) la traduzione di un’agiografia made in Chicago per i tipi della Cairo Editore (la stessa che pubblicò il mitico "No Sex in the City" dell'altrettanto mitico Mauro Suttora);
9) una raccolta di "discorsi per la presidenza" di Obama, edita dalla Donzelli dopo aver già pubblicato mesi fa una analoga raccolta di discorsi meno recenti (a quando l’istituzione di un’apposita collana?);
10) infine la Rizzoli, dopo aver ripubblicato in versione economica l’autobiografia di Obama con prefazione di Veltroni, uscì prima delle elezioni con un’edizione del discorso di Obama “Sulla razza” addirittura con testo a fronte!