tag:blogger.com,1999:blog-7582301477183226302024-03-13T21:51:12.881+01:00JEFFERSON - blog di Alessandro TappariniAlessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.comBlogger339125tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-82525082389883915012021-01-07T12:22:00.001+01:002021-01-15T12:25:29.937+01:00IL CONGRESSO<p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgCtNLzNdXybVKltH5cJ4da1XUFoQuKC2_V7rsMwNlvmzglBUUVeHuSSX34BRvvxP8S2EnFq3Z_adHoIfZSRCVLRHB32_uDNiHi67SNIpQSn0-Ze-NnAjWZdPzrLBYrpxewZHhHFdcSvzU/s700/congress.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="467" data-original-width="700" height="266" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgCtNLzNdXybVKltH5cJ4da1XUFoQuKC2_V7rsMwNlvmzglBUUVeHuSSX34BRvvxP8S2EnFq3Z_adHoIfZSRCVLRHB32_uDNiHi67SNIpQSn0-Ze-NnAjWZdPzrLBYrpxewZHhHFdcSvzU/w400-h266/congress.jpg" width="400" /></a></div><br /> <br /><span style="background-color: white; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px;">È finita, ma è anche appena cominciata.</span><p></p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">È finita la via crucis per il riconoscimento definitivo del fatto che ora, dal 20 gennaio, l’inquilino della Casa Bianca sarà Joe Biden. Ma è anche appena iniziata la resa dei conti all’interno dello sconfitto Partito Repubblicano, una delle più accese e cruente della sua storia.</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">Era pressochè scontato che la votazione dell’Epifania, al Congresso in sessione congiunta, si sarebbe conclusa con la ratifica della vittoria di Biden.</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">Non era, ovviamente, previsto che la votazione sarebbe stata funestata dagli <a href="https://www.heraldo.it/2021/01/07/assalto-alle-istituzioni/" rel="noreferrer noopener" style="background-color: transparent; box-shadow: inset 0 -1px 0 var(--content-link); box-sizing: inherit; text-decoration-line: none; transition: box-shadow 0.15s ease-in-out 0s;" target="_blank">osceni disordini</a> ai quali abbiamo assistito. Ma era prevedibile che alla fine l’esito sarebbe stato quello che aveva da essere, la consacrazione di Biden come presidente “entrante”.</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">La vera “conta”, quindi – quella più politicamente rilevante per l’avvenire – riguardava semmai il posizionamento di ogni senatore e di ogni deputato repubblicano rispetto alla linea dettata dal presidente “uscente”.</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">In questo senso, si è trattato quasi – mi si passi la metafora, e la forzatura – di un congresso di partito: di quelli un tempo usuali da questa parte dell’Atlantico.</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">Da un lato c’era una “Mozione McConnell”, presentata da quello che sino a ieri era il leader della maggioranza, e da oggi è il leader della minoranza al Senato, ma anche di fatto il leader del partito: la mozione consisteva, semplicemente, nell’invito a votare in modo “normale”, prendendo atto dell’avvenuta sconfitta di Trump e accettando la transizione verso la Presidenza Biden.</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">Dall’altro lato si contrapponeva la mozione presentata dal Senatore del Texas Ted Cruz, dal giovane senatore del Missouri Josh Hawley e da altri 10 (ai quali aveva aderito in extremis anche il senatore della Florida Rick Scott, e con lui facevano 13), che sfidava invece a votare, in modo “scandaloso”, per un improbabile rinvio del riconoscimento della sconfitta di Trump, istituendo invece, prima, una commissione di inchiesta sugli asseriti brogli elettorali che quest’ultimo non ha mai smesso di denunciare e lamentare (pur avendo perduto dozzine di cause in tribunale sul tema).</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">Probabilmente è anche per questo che i repubblicani avevano perso, il giorno prima, il ballottaggio in Georgia (e con esso la maggioranza al Senato): essendo troppo divisi per vincere. Spaccati, per l’appunto, fra la fazione degli ex/post trumpiani, decisi a voltare pagina liquidando l’influenza che il presidente sconfitto ancora esercita sul partito oltre che sulla sua base elettorale, e gli irredentisti trumpiani a oltranza, disposti invece a inscenare una (almeno apparente…) fedeltà alla narrazione della elezione usurpata/rubata, pur di mettersi nella scia di un Trump nonostante tutto ancora popolarissimo (ha pur sempre appena preso più di 74 milioni di voti, divenendo il secondo candidato più votato della storia dopo Biden nonché lo sconfitto più votato della storia).</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">Il voto al Congresso sulla certificazione della vittoria di Biden aveva questo senso: tiriamo una riga, e vediamo chi (e quanti) stanno di qua o di là.</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">Non è una cosa normale: di solito lo sconfitto alle presidenziali americane scivola nell’ombra, e cessa di esercitare una leadership.</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">Ma Trump, si sa, è una anomalia vivente, campa proprio del fatto di contravvenire a tutte le consuetudini; e inoltre nessuno è disposto a credere che nel 2024 Biden, a 84 anni suonati, si potrà candidare per quel secondo mandato che normalmente sarebbe fisiologico – ragion per cui la leadership repubblicana nel futuro prossimo fa più gola di quel che accadrebbe usualmente –.</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">Il drappello dei “boia chi molla” trumpiani, come detto, era costituito da 13 senatori: Ted Cruz del Texas, Josh Hawley del Missouri, Marsha Blackburn del Tennessee, Mike Braun dell’Indiana, Steve Daines del Montana, Ron Johnson del Wisconsin, John Kennedy della Lousiana, James Lankford dell’Oklahoma, Bill Hagerty del Tennessee, Cynthia Lummis del Wyoming, Roger Marshall del Kansas, Tommy Tuberville dell’Alabama e Rick Scott della Florida. Ci sarebbero stati anche i due della Georgia, Perdue e Loeffler, ma per l’appunto non sono stati eletti, nonostante l’appoggio di Trump e la loro adesione alla “corrente” dei trumpiani a oltranza.</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">La scommessa era evidente: 13 senatori non erano molti, solo un quarto del gruppo parlamentare repubblicano al senato; ma se altri senatori, pur non avendolo preannunciato, avessero aderito, portando il marchio della “fazione trumpiana” almeno verso la ventina (su 49), Trump avrebbe dimostrato di avere ancora in pugno se non il partito, almeno una importante porzione di esso.</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">A futura memoria, quindi, scorriamoli i verbali di questo “congresso di partito”: il futuro dell’America, e quindi in qualche modo di tutto l’Occidente, si giocherà anche su questi dettagli.</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">Il voto divisivo è stato duplice: una prima volta sul risultato elettorale dell’Arizona, e una seconda su quello della Pennsylvania. Non sapremo mai come sarebbe andata se la votazione si fosse svolta in circostanze ordinarie, anziché nel bel mezzo del dramma dello sconcertante ”assalto al Congresso” da parte di centinaia di fan di Trump inferociti; fatto sta che è andata come è andata, e il Senato ha respinto 93 a 6 la “Mozione Cruz” sull’Arizona, e 92 a 7 quella sulla Pennsylvania.</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">Decisamente un flop per la fazione dei trumpiani ad oltranza: hanno finito per defezionare persino 8 dei 13 senatori proponenti (Marsha Blackburn e Bill Hagerty – quindi entrambi i senatori del Tennessee – Mike Braun, Steve Daines, Ron Johnson, James Lankford, Cinthya Lummis e Tim Scott).</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">Se sulla Pennsylvania i voti per la “mozione Cruz” sono stati 6 e non 5 è solo perchè s’è aggiunta “a sorpresa” la senatrice Cindy Hyde-Smith del Mississippi.</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">Il Congresso era però in sessione congiunta: dopo il Senato votava la Camera, e lì si è visto tutto un altro film. I deputati sono un’altra razza, diciamo pure truppe meno scelte, meno aristocratici dei senatori; e soprattutto, alla Camera i Repubblicani sono in minoranza più netta (anche se non particolarmente esigua), e votando dopo il Senato sapevano benissimo di votare una mozione tecnicamente già bocciata, senza quindi alcuna concreta responsabilità. Com’è come non è, i repubblicani alla Camera sono apparsi essere un partito completamente diverso da quello del Senato: la “Mozione Cruz” è stata sì respinta anche lì, ma 303 a 121 sull’Arizona, e a 138 sulla Pennsylvania.</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">Poiché i repubblicani alla Camera sono 204, significa che in questo caso hanno prevalso i “trumpiani a oltranza”: 121 contro 83 nel voto sull’Arizona, e Quindi 138 contro 66 in quello sulla Pennsylvania.</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">La fazione ex/post/anti trumpiana, capitanata da Mitch McConnell, appare quindi avere in pugno il partito al Senato (che è la cosa più importante), ma risulta in netta minoranza alla Camera.</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">Al Senato con McConnell si sono schierati, oltre ovviamente a quei pochi senatori che non avevano mai accettato la leadership di Trump (Mitt Romney, Pat Toomey, Lisa Murkowski, Susan Collins), anche moltissimi che invece l’avevano lungamente assecondata: da Tom Cotton dell’Arkansas (l’autore di quel corsivo che chiedeva l’intervento dell’esercito contro i disordini dei movimenti “antifa” e “Black Lives Matter”, la cui <a href="https://www.ilpost.it/2020/06/05/new-york-times-cotton/" rel="noreferrer noopener" style="background-color: transparent; box-shadow: inset 0 -1px 0 var(--content-link); box-sizing: inherit; text-decoration-line: none; transition: box-shadow 0.15s ease-in-out 0s;" target="_blank">pubblicazione sul New York Times a giugno</a> era stata fonte di incredibili psicodrammi), a Tim Scott della South Carolina, importante punto di riferimento per gli afroamericani nel Grand Old Party, a quel Lindsey Graham che da presidente della Commissione Giustizia aveva lungamente collaborato con la Casa Bianca trumpiana anche per la conferma delle nomine alla Corte Suprema; e ancora Thom Tillis della North Carolina, John Cornyne, l’altro texano al Senato oltre a Cruz, Ben Sasse del Nebraska (che come Cruz era emerso cavalcando i “Tea Party”), Todd Young dell’Indiana, Rob Portman dell’Ohio, Roger Wicker del Mississippi…</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">Alla Camera si è invece schierato con la fazione trumpiana lo stesso capogruppo, Kevin McCarthy, e con lui oltre il 60% dei deputati repubblicani, tra i quali Paul Gosar dell’Arizona il quale ha provocato, associandosi a Cruz, il voto sulla certificazione dei voti elettorali del suo Stato.</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">Nella minoranza anti/post/ex trumpiana rientra invece Liz Cheney, figlia del Dick che fu vicepresidente accanto a George W. di Bush e che è la “House Conference Chair” del partito. Nella delegazione più grande, quella texana, solo 6 deputati contro 16 si sono schierati con lei: tra questi il neorieletto Dan Crenshaw, unico texano ad aver preso la parola alla convention nazionale del partito tenutasi a Charlotte, in North Carolina, ad Agosto.<br /><br /></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe allowfullscreen="" class="BLOG_video_class" height="266" src="https://www.youtube.com/embed/YRKF_DRfkUA" width="320" youtube-src-id="YRKF_DRfkUA"></iframe></div><br /><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">Una considerazione a parte merita, infine, la posizione del vicepresidente uscente degli Stati Uniti, Mike Pence, che era chiamato a presiedere i lavori del Congresso in sessione congiunta.</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">In questi quattro anni Pence è stato al fianco di Trump silenziosamente ma lealmente, e fino a poche settimane fa non si sarebbe faticato a immaginarlo fra coloro disposti a “mettersi nella sua scia” anche dopo la sconfitta elettorale.</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">E invece, alla fine qualcosa si è rotto: Trump gli ha chiesto un gesto di fedeltà a dir poco estremo, addirittura rifiutarsi di mettere ai voti la vittoria di Biden in alcuni Stati contestati, e lo ha fatto anche pubblicamente (su Twitter) per ben tre volte nelle ultime 24 ore prima del voto; lui si è negato, fin lì non si poteva spingere. Ed è stato ripagato da Trump con una pubblica accusa di codardia (e in buona sostanza di tradimento).</p><p style="background-color: white; box-sizing: inherit; font-family: "Work Sans"; font-size: 20px; margin-bottom: 1.875rem; margin-top: 1.875rem; overflow-wrap: break-word;">Questo “congresso di partito”, insomma, la fazione ex/post/anti trumpiana, capitanata da McConnell, lo ha chiaramente vinto; ma la fazione “trumpiana a oltranza”, seppure sconfitta, non è certo annientata. Il percorso per la “de-trumpizzazione” della destra americana è appena iniziato, e non sarà né breve né semplice.<br /><br /><i>Uscito su <a href="https://www.heraldo.it/2021/01/07/il-percorso-per-la-de-trumpizzazione/">Heraldo</a></i></p>Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-24594732134437601022020-12-31T12:39:00.009+01:002023-08-30T14:19:53.539+02:00TAKE ME HOME<p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjEBSHx7bUsuiFiA2BqgWd8_Pg5VkjXtdfZlDaxdMs9HHrgwqshrPp--8D5vZN0D-dWMpSUJYSc4JMsR95Fhj71vfqVA3xf3mCRPIsbnaIMZ1JyzyvfyZCSWwRKchV4xdJAFk0n_3CvuhXfgRrgddY75WswsbtJnq__10I--GJTG1AMHXaAOzRnFOElZu4/s1200/83f26190-0711-5b52-804d-b3ebd549011d.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="695" data-original-width="1200" height="370" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjEBSHx7bUsuiFiA2BqgWd8_Pg5VkjXtdfZlDaxdMs9HHrgwqshrPp--8D5vZN0D-dWMpSUJYSc4JMsR95Fhj71vfqVA3xf3mCRPIsbnaIMZ1JyzyvfyZCSWwRKchV4xdJAFk0n_3CvuhXfgRrgddY75WswsbtJnq__10I--GJTG1AMHXaAOzRnFOElZu4/w640-h370/83f26190-0711-5b52-804d-b3ebd549011d.jpg" width="640" /></a></div><br /></div> <br /><span style="background-color: white; color: #333333; font-family: Georgia, Times, "Times New Roman", serif; font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;">Era il 30 dicembre 1970: mezzo secolo fa. John Denver aveva appena 27 anni e non era certo una superstar. L’anno prima una sua canzone,</span><span style="background-color: white; color: #333333; font-family: Georgia, Times, "Times New Roman", serif; font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;"> </span><em style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box; color: #333333; font-family: Georgia, Times, "Times New Roman", serif; font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;">Leaving on a Jet Plane</em><span style="background-color: white; color: #333333; font-family: Georgia, Times, "Times New Roman", serif; font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;">, aveva avuto un buon riscontro nella interpretazione del trio folk Perer, Paul & Mary, e lui sulla scia di quel primo successo come compositore aveva tentato la fortuna anche come interprete, riuscendo a pubblicare con la RCA ben tre album in un anno, nessuno dei quali però aveva ottenuto grandi attenzioni. Nel dicembre del 1970 stentava ancora a riempire i 200 posti del Cellar Door, il club di Washington DC nel quale, in quella settimana fra Natale e Capodanno, era in cartellone tutte le sere come headliner.</span><p></p><div id="adv-Bottom" style="-webkit-font-smoothing: antialiased; background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-family: "Public Sans", sans-serif; font-size: 19.2px;"><div data-google-query-id="CLy8ssrqne4CFZfUEQgdMgcJXA" id="div-gpt-ad-Bottom" style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box; line-height: 0px;"><div id="google_ads_iframe_/35012960/rollingstone.it/interna/Bottom_0__container__" style="-webkit-font-smoothing: antialiased; border: 0pt none; box-sizing: border-box; margin: auto; text-align: center;"><iframe data-google-container-id="5" data-load-complete="true" frameborder="0" height="1" id="google_ads_iframe_/35012960/rollingstone.it/interna/Bottom_0" marginheight="0" marginwidth="0" name="google_ads_iframe_/35012960/rollingstone.it/interna/Bottom_0" scrolling="no" style="-webkit-font-smoothing: antialiased; border-style: initial; border-width: 0px; box-sizing: border-box; display: block !important; margin: 0px auto !important; max-width: 100%; vertical-align: bottom;" title="3rd party ad content" width="1"></iframe></div></div></div><p style="-webkit-font-smoothing: antialiased; background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-family: Georgia, Times, "Times New Roman", serif; font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em; line-height: 1.75rem; margin: 0px; padding: 0.9375rem 0px;">Ancor più alle prime armi era il duo locale “Fat City” che in quelle serate post-natalizie si esibiva al Cellar Door come sua spalla: formato da Billy Danoff and Taffy Niver, marito e moglie poco più che ventenni, due sconosciuti di belle speranze per i quali era già molto aprire per un artista di serie B come John Denver. Il giorno prima, il 29 dicembre, i due gli avevano fatto ascoltare una canzone ancora incompleta che avevano abbozzato quasi per gioco mentre guidavano attraverso la campagna del Maryland per andare a far visita a dei parenti.<span class="Apple-converted-space" style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box;"> </span></p><p style="-webkit-font-smoothing: antialiased; background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-family: Georgia, Times, "Times New Roman", serif; font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em; line-height: 1.75rem; margin: 0px; padding: 0.9375rem 0px;">Nonostante il genere non fosse affatto quello con il quale Danoff e Niver si misuravano abitualmente, per una volta avevano partorito una canzone country, sia per struttura musicale che per il testo pieno di riferimenti al mondo rurale dei monti Appalachi. I due erano talmente soddisfatti della loro composizione che sognavano di proporla a Johnny Cash.<span class="Apple-converted-space" style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box;"> </span></p><p style="-webkit-font-smoothing: antialiased; background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-family: Georgia, Times, "Times New Roman", serif; font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em; line-height: 1.75rem; margin: 0px; padding: 0.9375rem 0px;">Nemmeno John Denver era un cantautore country. Veniva dalla gavetta nei club folk fricchettoni di Los Angeles, e registrava negli studi RCA di New York: in pratica i “meno country” fra tutti i circuiti musicali degli Stati Uniti. Il suo stile era più riconducibile al nuovo folk metropolitano alla Simon & Garfunkel che andava tanto di moda in quel passaggio fra gli anni Sessanta e i Settanta, con ammiccamenti pop-rock vagamente beatlesiani (il suo primo album conteneva una cover di <em style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box;">When I’m Sixty-Four</em>, il terzo una di <em style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box;">Eleanor Rigby</em>).</p><p style="-webkit-font-smoothing: antialiased; background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-family: Georgia, Times, "Times New Roman", serif; font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em; line-height: 1.75rem; margin: 0px; padding: 0.9375rem 0px;">Eppure per quella canzone country ancora allo stato embrionale Denver aveva avuto un colpo di fulmine. I tre avevano fatto l’alba per completarla e arrangiarla, e l’indomani, in quella fatidica serata del 30 dicembre, fu lui a cantarla per la prima in pubblico.<br /><br /><span style="letter-spacing: -0.3978px;"></span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe allowfullscreen="" class="BLOG_video_class" height="266" src="https://www.youtube.com/embed/6eM9-BQuyEM" width="320" youtube-src-id="6eM9-BQuyEM"></iframe></div>Il pubblico andò in visibilio: non solo orecchiarono subito il ritornello e si misero a cantarlo, ma alla fine seguirono cinque minuti di standing ovation. Quella canzone aveva prodotto sin dal suo primissimo debutto quella magia per la quale ciascuno di noi la conosce, per esperienza personale: il trascinamento della folla in un rito liberatorio. Recentemente Dan McLaughlin, commentatore della <em style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box; letter-spacing: -0.3978px;">National Review</em><span style="letter-spacing: -0.3978px;">, ha così sintetizzato <a href="https://twitter.com/baseballcrank/status/1273455176238628872">in un tweet</a>:<br /></span><i style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box; letter-spacing: -0.3978px;"></i><blockquote><i style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box; letter-spacing: -0.3978px;">Non capisci veramente che razza di inno è </i><span style="letter-spacing: -0.3978px;">Take Me Home, Country Roads</span><i style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box; letter-spacing: -0.3978px;"> di John Denver finché non a ascolti dal vivo – cantata da chiunque, in qualunque contesto. Qualsiasi band da bar appena decente è in grado di suonarla. È vertiginosa ed evocativa, tutti conoscono le parole e una volta che il pubblico parte con il coro, le persone dimenticano l’imbarazzo.</i></blockquote><p></p><p style="-webkit-font-smoothing: antialiased; background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-family: Georgia, Times, "Times New Roman", serif; font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em; line-height: 1.75rem; margin: 0px; padding: 0.9375rem 0px;">Subito dopo le feste, John Denver tornò a New York e si affrettò a registrare il brano. Danoff e Nivert cantarono i cori, come quella sera al Cellar Door. L’arpeggio di banjo venne affidato a Eric Weissberg, lo stesso musicista che l’anno seguente avrebbe registrato un altro brano destinato a rappresentare musicalmente il mondo selvaggio degli Appalachi nell’immaginario collettivo: il<span class="Apple-converted-space" style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box;"> </span>“duello di banjo” del film <i style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box;">Deliverance</i> (in italiano <em style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box;">Un tranquillo weekend di paura</em>).</p><p style="-webkit-font-smoothing: antialiased; background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-family: Georgia, Times, "Times New Roman", serif; font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em; line-height: 1.75rem; margin: 0px; padding: 0.9375rem 0px;"><em style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box;">Take Me Home, Country Roads</em> uscì come singolo il 12 aprile del 1971. Ad agosto giunse al numero 2 della classifica generale di Billboard Hot 100 (seconda solo a <em style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box;">How Can You Mend a Broken Heart</em> dei Bee Gees), avendo già venduto un milione di copie. Negli stessi giorni Loretta Lynn, una delle più grandi dive del country, ne stava già registrando la sua versione (pressoché identica all’originale, solo senza percussioni: quasi come se fosse un pezzo <i style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box;">bluegrass</i>) per il suo diciottesimo album <em style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box;">You’re Lookin’ at Country</em>.</p><p style="-webkit-font-smoothing: antialiased; background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-family: Georgia, Times, "Times New Roman", serif; font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em; line-height: 1.75rem; margin: 0px; padding: 0.9375rem 0px;"></p><div style="text-align: left;"><span style="font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;">Era la prima di oltre duecento cover di quella che divenne immediatamente, e non ha mai smesso di essere, una delle canzoni country più popolari della storia, e una delle pochissime ad essere conosciute e amate da tutti anche fuori dagli Stati Uniti. È un cavallo di battaglia</span><span style="font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;"> </span><a href="https://newsroom.spotify.com/2018-10-23/from-mountain-mamas-to-munich-john-denvers-country-roads-winds-through-oktoberfest/" style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box; color: #d32531; font-family: "Public Sans", sans-serif; font-size: 1.125rem; font-weight: 700; letter-spacing: -0.0221em; position: relative; text-decoration-line: none; transition: color 0.24s cubic-bezier(0.215, 0.61, 0.355, 1) 0s;">per i cori tra ubriachi all’Oktoberfest di Monaco di Baviera</a><span style="font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;"> e </span><a href="https://www.latimes.com/archives/la-xpm-1985-07-03-ca-10388-story.html" style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box; color: #d32531; font-family: "Public Sans", sans-serif; font-size: 1.125rem; font-weight: 700; letter-spacing: -0.0221em; position: relative; text-decoration-line: none; transition: color 0.24s cubic-bezier(0.215, 0.61, 0.355, 1) 0s;">persino in Cina è conosciutissima</a><span style="font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;"> </span><span style="font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;">sin dagli anni Ottanta; nel 2018 una versione eseguita da una sconosciuta band newyorkese di nome Spank è stata utilizzata come colonna sonora del videogame distopico Fallout 76, che è ambientato in West Virginia: il video su Youtube attualmente ha 36 milioni di visualizzazioni.<br /></span></div><p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe allowfullscreen="" class="BLOG_video_class" height="266" src="https://www.youtube.com/embed/FRPeYP6gS-s" width="320" youtube-src-id="FRPeYP6gS-s"></iframe></div><span style="font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;"><p><span style="font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;"><br /></span></p>È un bel paradosso quello che vede primeggiare in modo tanto eclatante una canzone country scritta e interpretata da dei perfetti outsider: il circuito dell’industria musicale di Nashville è infatti da sempre ossessionato dal legame con le proprie radici e le proprie tradizioni, e soprattutto è molto geloso del proprio controllo sui processi creativi e distributivi di tutto ciò che viene venduto come “country”.</span><span class="Apple-converted-space" style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box; font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;"> </span><p></p><div style="box-sizing: border-box; font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em; line-height: 1.75rem; margin: 0px; padding: 0.9375rem 0px; text-align: left;"><span style="font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;">John Denver dal canto suo, pur dovendo il proprio successo a quella canzone country, non abbandonò mai il proprio stile pop-folk, e registrò ben poche altre canzoni del genere; l’unica altra ad aver avuto un buon successo fu</span><span style="font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;"> </span><em style="-webkit-font-smoothing: antialiased; background-color: transparent; box-sizing: border-box; font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;">Thank God I’m a Country Boy</em><span style="font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;">, al n.1 in classifica nel 1975. In quello stesso anno la Country Music Association (istituzione che sta alla musica country come l’Academy sta al cinema) gli assegnò il premio più prestigioso cui un artista country possa ambire, quello di</span><i style="-webkit-font-smoothing: antialiased; background-color: transparent; box-sizing: border-box; font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;"> entertainer of the year</i><span style="font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;">; ma la sera della premiazione Charlie Rich, il cantante cui venne affidato il compito di annunciare “the winner is”, dopo aver letto il nome di John Denver diede polemicamente fuoco al biglietto in segno di disprezzo.</span><span style="background-color: transparent;"> <br /></span></div><p style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box; font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em; line-height: 1.75rem; margin: 0px; padding: 0.9375rem 0px;"></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe allowfullscreen="" class="BLOG_video_class" height="266" src="https://www.youtube.com/embed/Qf3t3unp-Gg" width="320" youtube-src-id="Qf3t3unp-Gg"></iframe></div><span style="font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;"><p style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box; font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em; line-height: 1.75rem; margin: 0px; padding: 0.9375rem 0px;"><span style="font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;"><br /></span></p>Razionalmente, non dovrebbe essere tanto difficile accettare il fatto che quella canzone è uno splendido, riuscitissimo esempio di canzone country anche se l’interprete non è un cantante country. Ma emotivamente i due piani vengono spesso confusi, per una ragione piuttosto evidente: in questo caso l’interprete </span><i style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box; font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;">è</i><span style="font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;"> </span><span style="font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;">la canzone. Senza di essa, John Denver così come lo conosciamo non sarebbe mai esistito. Non a caso l’autobiografia che pubblicherà nel 1994, tre anni prima di morire in un incidente aereo, si intitolerà proprio</span><span style="font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;"> </span><i style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box; font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;">Take Me Home</i><span style="font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;">.</span><p></p><p></p><p style="-webkit-font-smoothing: antialiased; background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-family: Georgia, Times, "Times New Roman", serif; font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em; line-height: 1.75rem; margin: 0px; padding: 0.9375rem 0px;">Quanto alla Country Music Association: nel 2016 ha si è fatta perdonare quell’episodio increscioso scegliendo proprio <em style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box;">Take Me Home, Country Roads</em>, assieme a <em style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box;">On the Road Again</em> di Willie Nelson e a <em style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box;">I Will Always Love You</em> di Dolly Parton, per un mashup interpretato da trenta star di Nashville, per celebrare il proprio cinquantennale.<br /></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe allowfullscreen="" class="BLOG_video_class" height="266" src="https://www.youtube.com/embed/E2pAslx5az8" width="320" youtube-src-id="E2pAslx5az8"></iframe></div><br /><div style="background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-family: Georgia, Times, "Times New Roman", serif; font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em; line-height: 1.75rem; margin: 0px; padding: 0.9375rem 0px; text-align: left;"><span style="font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;">C’è poi un paradosso nel paradosso: </span><em style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box; font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;">Take Me Home, Country Roads</em><span style="font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em;"> è di gran lunga la più celebre canzone a parlare dello Stato del West Virginia (ammesso che ne esistano altre), ma in realtà i suoi autori, pur avendo scritto quella che sembra essere una dichiarazione d’amore per quei luoghi, non vi avevano mai messo piede.<br /></span>Come detto, l’ispirazione era venuta a Danoff e Niver durante un viaggio in Maryland; ma le tre sillabe di Ma-ry-Land non calzavano perché la metrica della canzone ne richiedeva quattro. Danoff in un primo momento aveva pensato di scrivere “Massachusetts”, lo Stato dove era cresciuto, ma alla fine la scelta era caduta sul West Virginia solo perché suonava meglio (“per quanto ne sapevo poteva anche essere in Europa”, ammetterà molti anni dopo). Lo stesso John Denver all’epoca non aveva alcuna esperienza del West Virginia: il suo luogo del cuore elettivo era invece duemila chilometri più a ovest, in Colorado (in omaggio alla cui capitale si era scelto “Denver” come cognome d’arte, essendo pressoché impronunciabile quello vero, Deutschendorf).<br />La canzone quindi non nacque da un’esperienza autentica del luogo che menziona; e in fin dei conti, a dispetto dell’incipit che contiene due riferimenti geografici virginiani ben precisi (il fiume Shenendoah e i Monti Blue Ridge), essa parla in realtà di un luogo immaginario. Forse anche da qui deriva il suo successo planetario: ben pochi sanno dov’è e com’è fatto il West Virginia, ma ognuno di noi si porta dentro la nostalgia di un qualche “altrove” lontano dalla città, un po’ sperduto, che ama come fosse “quasi un paradiso” e dove anela tornare per potersi “sentire a casa”.<span class="Apple-converted-space" style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box;"> <br /><br /><i>Uscito su <a href="https://www.rollingstone.it/musica/50-anni-di-take-me-home-country-roads/545649/">Rolling Stone</a></i></span></div><p style="-webkit-font-smoothing: antialiased; background-color: white; box-sizing: border-box; color: #333333; font-family: Georgia, Times, "Times New Roman", serif; font-size: 1.125rem; letter-spacing: -0.0221em; line-height: 1.75rem; margin: 0px; padding: 0.9375rem 0px;"><span class="Apple-converted-space" style="-webkit-font-smoothing: antialiased; box-sizing: border-box;"><i></i></span></p>Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-31149148224833910972020-12-14T18:45:00.001+01:002021-01-04T18:50:25.084+01:00L'ERA BIDEN E IL FATTORE T<div style="text-align: left;"><span style="font-family: inherit; font-size: large;"> <div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiBORsN7_65boCwRvaIwe8_j5icMKj_jO0u9q0PBbN8puUdm6HRhsGgP74n1h8wU8jDwxVxvrSGBjvKFn73fD8F-Ig6dA_VQCsZi6OIlFVktSS-9wdDoPOqXTuRGFgTIySoWVJ3stNB9Cg/s760/biden-cognitive-mn-1536_f71bba8588212656e4d7bb3f6dc5af5c.fit-760w.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="507" data-original-width="760" height="266" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiBORsN7_65boCwRvaIwe8_j5icMKj_jO0u9q0PBbN8puUdm6HRhsGgP74n1h8wU8jDwxVxvrSGBjvKFn73fD8F-Ig6dA_VQCsZi6OIlFVktSS-9wdDoPOqXTuRGFgTIySoWVJ3stNB9Cg/w400-h266/biden-cognitive-mn-1536_f71bba8588212656e4d7bb3f6dc5af5c.fit-760w.jpg" width="400" /></a></div><br /><span style="box-sizing: border-box;">E così, nel bel mezzo della più grave pandemia dell’ultimo secolo, è accaduto ciò che a gennaio sembrava <a href="https://www.wired.it/attualita/politica/2020/01/08/rielezione-donald-trump-probabile/" rel="noopener" style="box-shadow: rgb(255, 255, 255) 0px 0px 0px 0px inset, rgb(247, 255, 0) 0px -2px 0px 0px inset; box-sizing: border-box; color: black; font-weight: 700; outline: 0px !important; text-decoration-line: none; text-shadow: rgb(255, 255, 255) 1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) -1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) 2px 0px 0px, rgb(255, 255, 255) -2px 0px 0px;" target="_blank">a dir poco improbabile</a>, </span><span style="box-sizing: border-box;">e che non accadeva dai tempi di Jimmy Carter (cioè da 40 anni): <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">la Casa Bianca ha cambiato colore politico dopo soli quattro anni</span>. </span><span style="box-sizing: border-box;">Il voto di del Collegio elettorale verrà ratificato dal Congresso solo il 6 gennaio, ma da oggi </span><span style="box-sizing: border-box;">Joe Biden è ufficialmente il vincitore di questa elezione. Finiti gli scrutini, terminati i riconteggi, concluse le dozzine di cause nei <a href="https://www.wired.it/attualita/politica/2020/12/12/corte-suprema-respinto-ricorso-texas-trump/" rel="noopener" style="box-shadow: rgb(255, 255, 255) 0px 0px 0px 0px inset, rgb(247, 255, 0) 0px -2px 0px 0px inset; box-sizing: border-box; color: black; font-weight: 700; outline: 0px !important; text-decoration-line: none; text-shadow: rgb(255, 255, 255) 1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) -1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) 2px 0px 0px, rgb(255, 255, 255) -2px 0px 0px;" target="_blank">tribunali di ogni rango</a>, possiamo finalmente osservare in controluce questa elezione, sulla base di numeri definitivi e di dati certi.</span></span></div><div style="text-align: left;"><span style="font-family: inherit; font-size: large;"><span style="box-sizing: border-box;"><br /></span><span style="box-sizing: border-box;">Nelle urne Biden ha ricevuto ben 81.284.716 voti popolari, divenendo <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">il presidente più votato della storia</span>; anche Trump ne ha ricevuti moltissimi, 74.223.367, divenendo il secondo candidato più votato della storia dopo Biden (nonché lo sconfitto più votato della storia). </span><span style="box-sizing: border-box;">Il voto popolare, però, rileva esclusivamente in funzione del passaggio successivo, cioè quello nel Collegio elettorale, e lì l’elezione di Biden è avvenuta esattamente con gli stessi voti rispetto a quella di Trump quattro anni fa (306 contro 232). </span></span></div><div style="text-align: left;"><span style="font-family: inherit; font-size: large;"><span style="box-sizing: border-box;"><br /></span></span></div><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: "Droid Serif", serif !important; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="font-size: large;"><span style="box-sizing: border-box;">È vero che Trump nel 2016 ottenne quella vittoria pur avendo perso di quasi tre milioni nel voto popolare, mentre Biden ora ha ottenuto gli stessi 306 voti elettorali avendo battuto Trump di oltre sette milioni di voti. Se ci fermassimo a questo, potremmo dire che a parità di voti nel Collegio elettorale la vittoria di Biden è stata molto più ampia. </span><span style="box-sizing: border-box;">Ma il sistema del Collegio fa sì che i voti siano rilevanti soprattutto in base a <em style="box-sizing: border-box;">dove</em> (in quale dei 50 stati) li si riceve: ha poca importanza il voto negli stati che si considerano già vinti (o persi) a priori, ed è invece cruciale il voto negli stati più in bilico, che fanno da ago della bilancia.</span></span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: "Droid Serif", serif !important; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="font-size: large;"><span style="box-sizing: border-box;">Ecco perché tre settimane fa il Washington Post <a href="https://www.washingtonpost.com/politics/biden-changed-the-electoral-map-but-can-democrats-capitalize-in-the-future/2020/11/14/09664a24-260a-11eb-8672-c281c7a2c96e_story.html" rel="noopener" style="background-color: transparent; box-shadow: rgb(255, 255, 255) 0px 0px 0px 0px inset, rgb(247, 255, 0) 0px -2px 0px 0px inset; box-sizing: border-box; color: black; font-weight: 700; outline: 0px !important; text-decoration-line: none; text-shadow: rgb(255, 255, 255) 1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) -1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) 2px 0px 0px, rgb(255, 255, 255) -2px 0px 0px;" target="_blank">titolava</a> “</span><i style="box-sizing: border-box;">Gli elettori che hanno consegnato la vittoria a Biden negli stati chiave non basterebbero per riempire il Rose Bowl, e questo influenzerà il suo modo di governare” </i><span style="box-sizing: border-box;">(il Rose Bowl è lo stadio di Pasadena, che ha poco più di 90mila posti). </span><span style="box-sizing: border-box;">La ragione di questa lettura è la medesima che quattro anni fa portava a <a href="https://www.washingtonpost.com/news/the-fix/wp/2016/12/01/donald-trump-will-be-president-thanks-to-80000-people-in-three-states/" rel="noopener" style="background-color: transparent; box-shadow: rgb(255, 255, 255) 0px 0px 0px 0px inset, rgb(247, 255, 0) 0px -2px 0px 0px inset; box-sizing: border-box; color: black; font-weight: 700; outline: 0px !important; text-decoration-line: none; text-shadow: rgb(255, 255, 255) 1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) -1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) 2px 0px 0px, rgb(255, 255, 255) -2px 0px 0px;" target="_blank">evidenziare</a> che Trump andava alla Casa Bianca “<em style="box-sizing: border-box;">grazie a 80mila voti in tre stati</em>”.</span></span></p><div class="inRead" data-google-query-id="CI6wgLjqgu4CFQWGewod22kI0Q" id="outstream-1" style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: MuseoSans, sans-serif; margin: 0px; padding: 0px;"><div id="google_ads_iframe_/5574/wired.it/attualita_politica_17_7__container__" style="border: 0pt none; box-sizing: border-box; margin: auto; padding: 0px; text-align: center;"><span style="font-size: large;"><iframe data-google-container-id="8" data-load-complete="true" frameborder="0" height="333" id="google_ads_iframe_/5574/wired.it/attualita_politica_17_7" marginheight="0" marginwidth="0" name="google_ads_iframe_/5574/wired.it/attualita_politica_17_7" scrolling="no" style="border-style: initial; border-width: 0px; box-sizing: border-box; max-height: 0px; max-width: 0px; vertical-align: bottom;" title="3rd party ad content" width="565"></iframe></span></div></div><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: "Droid Serif", serif !important; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="box-sizing: border-box;"><span style="font-size: large;">Le tre vittorie con margine più esiguo (meno di un punto percentuale di vantaggio) Trump le aveva conseguite in Michigan per 10.704 voti (con un margine dello 0,22%), in Pennsylvania per 44.284 voti (+0,72%), e in Wisconsin per 22.748 (+0,76%). Analogamente, Biden non avrebbe vinto senza i voti elettorali di Arizona, Georgia e Wisconsin, nei quali l’ha spuntata, rispettivamente, per 10.457, 11.779 e 20.682 voti popolari (con margine, rispettivamente, dello 0,31%, dello 0,24% del 0,63%). Politicamente la vittoria di un candidato democratico è eclatante in stati come la Georgia e l’Arizona, nei quali la vittoria dei repubblicani era la imperturbabile normalità ormai da decenni; ma sul piano quantitativo si tratta di vittorie fragilissime: nel complesso in quei tre stati 42.918 voti in tutto, poco più della metà di quelli grazie ai quali Trump vinse nel 2016. Sedendovi solo quegli elettori, lo stadio di Pasadena sarebbe mezzo vuoto: li si potrebbe accomodare anche ora, in tempo di distanziamento sociale.</span></span></p><figure class="wp-caption alignnone" id="attachment_294473" style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: MuseoSans, sans-serif; margin: 0px auto 40px !important; max-width: 880px; padding: 0px;"><img alt="" class="fullscreen wp-image-294473 size-full" height="592" src="https://images.wired.it/wp-content/uploads/2020/12/13161009/elezione1.jpg" style="backface-visibility: hidden; border: 0px; box-sizing: border-box; cursor: zoom-in; display: block; height: auto !important; margin: 0px auto; max-height: 564px; max-width: 100%; position: relative; transition: all 0.3s ease 0s; vertical-align: middle; width: auto; z-index: 1;" width="880" /><figcaption class="wp-caption-text" style="border-bottom: 1px solid rgb(193, 193, 193); box-sizing: border-box; color: #888888; font-size: 14px; line-height: 16px; padding: 35px 0px 18px;">(via The Washington Post)</figcaption></figure><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: "Droid Serif", serif !important; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="font-size: large;"><span style="box-sizing: border-box;">Vi sono poi altri risultati che potrebbero <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">influenzare</span> ancor di più <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">il modo in cui Biden governerà</span>. Quello più importante non è ancora deciso: si tratta della maggioranza al Senato, che i democratici potrebbero non aver espugnato. Dipende tutto da come andrà il ballottaggio che si concluderà il 5 gennaio per entrambi i seggi senatoriali in Georgia: se i candidati del suo partito non la spuntassero Biden si troverebbe sotto scacco da parte di Mitch McConnell, attuale leader repubblicano al Senato, abile e spregiudicato stratega. </span><span style="box-sizing: border-box;">Alla Camera invece il partito di Biden la maggioranza l’aveva e l’ha mantenuta, ma perdendo molto terreno: alle ultime elezioni (quelle del 2018) i democratici avevano ottenuto 235 seggi su 435, ora invece ne avranno non più di 224: cioè una maggioranza di appena 6, perdendone una dozzina rispetto a 2 anni fa (qui i sondaggi hanno fallito miseramente: pronosticavano che ne avrebbero guadagnati una buona quindicina).</span></span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: "Droid Serif", serif !important; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="font-size: large;"><span style="box-sizing: border-box;">E <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">fra appena due anni si rivota</span>: per le elezioni di metà mandato, che tendono a premiare quasi sempre il partito di opposizione ma ultimamente lo hanno premiato di più quando si trattava del Partito repubblicano. Quando Obama si insediò nel 2009 i democratici avevano 59 senatori e 256 deputati, e i repubblicani venivano descritti come sull’orlo dell’estinzione (memorabile la </span><span style="box-sizing: border-box;"><a href="http://content.time.com/time/covers/0,16641,20090518,00.html" rel="noopener" style="background-color: transparent; box-shadow: rgb(255, 255, 255) 0px 0px 0px 0px inset, rgb(247, 255, 0) 0px -2px 0px 0px inset; box-sizing: border-box; color: black; font-weight: 700; outline: 0px !important; text-decoration-line: none; text-shadow: rgb(255, 255, 255) 1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) -1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) 2px 0px 0px, rgb(255, 255, 255) -2px 0px 0px;" target="_blank">cover story</a> di <em style="box-sizing: border-box;">Time</em></span><span style="box-sizing: border-box;"> </span><span style="box-sizing: border-box;">sul tema); ma appena due anni dopo, alle Midterm del 2010, i repubblicani realizzarono la loro più grande vittoria elettorale parlamentare dell’ultimo secolo, strappando ai democratici la bellezza di 66 seggi, perdendone tre quindi con un vantaggio <em style="box-sizing: border-box;">netto</em> di 63. I democratici in quell’occasione tennero al Senato; ma lo persero alle successive Midterm, quelle del 2014, nelle quali persero anche ulteriore terreno alla Camera (i repubblicani vinsero 247 seggi, un guadagno netto di 13). Con questi precedenti, può Biden aspettarsi qualcosa di buono dalle Midterm del 2022?</span></span></p><figure class="wp-caption alignnone" id="attachment_294474" style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: MuseoSans, sans-serif; font-size: 15px; margin: 0px auto 40px !important; max-width: 960px; padding: 0px;"><img alt="" class="fullscreen size-full wp-image-294474" height="923" src="https://images.wired.it/wp-content/uploads/2020/12/13161132/elezione2.jpg" style="backface-visibility: hidden; border: 0px; box-sizing: border-box; cursor: zoom-in; display: block; height: auto !important; margin: 0px auto; max-height: 564px; max-width: 100%; position: relative; transition: all 0.3s ease 0s; vertical-align: middle; width: auto; z-index: 1;" width="960" /><figcaption class="wp-caption-text" style="border-bottom: 1px solid rgb(193, 193, 193); box-sizing: border-box; color: #888888; font-size: 14px; line-height: 16px; padding: 35px 0px 18px;">(via Forbes)</figcaption></figure><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: "Droid Serif", serif !important; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="box-sizing: border-box;"><span style="font-size: large;">A questo si aggiunge un problema senza precedenti: <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">il fattore T</span>. </span></span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: "Droid Serif", serif !important; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="font-size: large;"><span style="box-sizing: border-box;">Trump non ne vuole sapere di seguire la consuetudine che vede uscire di scena lo sconfitto alle presidenziali. Sta facendo di tutto per non abbandonare la ribalta. Dopo il 20 gennaio, quando non potrà più farlo dalla Casa Bianca, potrà <a href="https://www.wired.it/attualita/politica/2020/11/14/trump-dopo-presidenza-scenari/" rel="noopener" style="background-color: transparent; box-shadow: rgb(255, 255, 255) 0px 0px 0px 0px inset, rgb(247, 255, 0) 0px -2px 0px 0px inset; box-sizing: border-box; color: black; font-weight: 700; outline: 0px !important; text-decoration-line: none; text-shadow: rgb(255, 255, 255) 1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) -1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) 2px 0px 0px, rgb(255, 255, 255) -2px 0px 0px;" target="_blank">inventarsi qualcos’altro</a>; magari rimettendo in cantiere il progetto, al quale si dice lavori da anni, di una media company tutta sua che faccia concorrenza da destra a Fox News. In ogni caso, sembra <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">puntare a una campagna elettorale permanente</span> per costruirsi un inedito ruolo di <em style="box-sizing: border-box;">leader dell’opposizione</em> che mai nessuno sconfitto aveva rivestito nella storia degli Stati Uniti. Difficile dire fino a che punto ci riuscirà; ma ancora più difficile è prevedere quanto questo potrà nuocere a Biden (posto che è stando all’opposizione, senza il peso di responsabilità di governo, che un personaggio come Trump riscuote più consensi), e quanto invece gli potrà giovare. Dopotutto ci siamo ripetuti mille volte che questa elezione è stata un referendum su Trump, e che il voto per Biden è stato soprattutto un voto contro Trump; </span><span style="box-sizing: border-box;">il fatto che Biden sia andato meglio rispetto a come il suo partito è andato nell’elezione al Congresso (e simmetricamente Trump sia andato peggio del Partito repubblicano) non sembra certo smentire questa lettura. Chissà, forse avere ancora lo spauracchio Trump in scena nei prossimi mesi e nei prossimi anni potrebbe paradossalmente servirgli da sponda.</span></span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: "Droid Serif", serif !important; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="font-size: large;"><span style="box-sizing: border-box;">Infine c’è un problema che è sotto gli occhi di tutti, ma del quale si parla poco e sottovoce, probabilmente perché non c’è un modo elegante per dirlo: Biden ha 78 anni suonati, sono tanti e li dimostra tutti. </span><span style="box-sizing: border-box;">Quando nel 2008 John McCain veniva accusato dall’entourage Barack Obama di essere troppo anziano per diventare presidente, ne aveva 72. </span><span style="box-sizing: border-box;">Nessuno è disposto a credere che nel 2024 si potrà candidare per quel secondo mandato che normalmente sarebbe fisiologico. La sua rischia perciò di essere una presidenza zoppa sin dal primo giorno; a meno che non se la giochi facendosi forte del fatto che, proprio perché è a un passo dalla pensione, non ha più niente da perdere. </span><span style="box-sizing: border-box;"> </span></span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: "Droid Serif", serif !important; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="font-size: large;"><span style="box-sizing: border-box;">Trump invece ne compirà 78 proprio nel 2024, ed essendo stato alla Casa Bianca per un solo quadriennio avrebbe il diritto di ricandidarsi per un secondo, come già <a href="https://edition.cnn.com/2020/12/01/politics/donald-trump-christmas-party-second-term/index.html" rel="noopener" style="background-color: transparent; box-shadow: rgb(255, 255, 255) 0px 0px 0px 0px inset, rgb(247, 255, 0) 0px -2px 0px 0px inset; box-sizing: border-box; color: black; font-weight: 700; outline: 0px !important; text-decoration-line: none; text-shadow: rgb(255, 255, 255) 1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) -1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) 2px 0px 0px, rgb(255, 255, 255) -2px 0px 0px;" target="_blank">indica di voler fare</a>. </span><span style="box-sizing: border-box;">Sempre che prima torni a candidarsi alle primarie del Partito repubblicano, e riesca nuovamente a vincerle. Per ora sta raccogliendo un sacco di soldi, che è una cosa che nella vita ha imparato a fare benino. Poi si vedrà.<br /><br /><i>uscito su <a href="https://www.wired.it/attualita/politica/2020/12/14/presidente-biden-scenari/">Wired</a></i></span></span></p>Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-14564314102959833322020-08-20T17:24:00.001+02:002020-09-02T17:26:00.585+02:00THE WEST WING - LEGGERE ATTENTAMENTE LE AVVERTENZE<p><span style="font-family: times; font-size: x-large;"> </span></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><span style="font-family: times; font-size: x-large;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg0Ehuyf9BLuDIC8D3AKROFfTQCmi7BQO61BrSNWIbqSB3_RIzSrz5W0pPQuH31p69LRPf3pEp20W-qNNIMlLMHjuCeF0AtiyZwCkh-GbwCmR6bs1i76jCd1yyIV3rSh9hwEIFoDWhiavA/s960/Bartlet-The-West-Wing-Feature-Image.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="500" data-original-width="960" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg0Ehuyf9BLuDIC8D3AKROFfTQCmi7BQO61BrSNWIbqSB3_RIzSrz5W0pPQuH31p69LRPf3pEp20W-qNNIMlLMHjuCeF0AtiyZwCkh-GbwCmR6bs1i76jCd1yyIV3rSh9hwEIFoDWhiavA/s640/Bartlet-The-West-Wing-Feature-Image.jpg" width="640" /></a></span></div><span style="font-family: times; font-size: x-large;"><br />"<i>I</i><em style="box-sizing: border-box;">n America non abbiamo governi ombra o governi di opposizione in attesa di subentro. Quello che abbiamo invece è The West Wing, la serie della Nbc sullo staff della Casa Bianca</em><span style="background-color: white;">”. Così 18 anni fa un pezzo</span><span style="background-color: white;"> </span><a href="https://www.newyorker.com/magazine/2002/03/04/snookered-by-bush/" rel="noopener" style="box-shadow: rgb(255, 255, 255) 0px 0px 0px 0px inset, rgb(247, 255, 0) 0px -2px 0px 0px inset; box-sizing: border-box; color: black; font-weight: 700; outline: 0px; text-decoration-line: none; text-shadow: rgb(255, 255, 255) 1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) -1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) 2px 0px 0px, rgb(255, 255, 255) -2px 0px 0px;" target="_blank">uscito sul <i style="box-sizing: border-box;">New Yorker</i></a><span style="background-color: white;"> </span><span style="background-color: white;">definiva il rapporto quasi ossessivo della politica americana nei confronti della</span><span style="background-color: white;"> </span><span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">più idolatrata e mitizzata serie televisiva a essa dedicata</span><span style="background-color: white;">.</span></span><p></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="font-family: times; font-size: x-large;">Era una serie ambientata in quegli anni, ma “<em style="box-sizing: border-box;">in un universo semi-contemporaneo nel quale il World Trade Center non è mai crollato</em>” e nel quale alla Casa Bianca al posto di George W. Bush sedeva la sua perfetta, geometrica antitesi. <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">Jed Bartlet</span>, il presidente democratico che Bill Clinton non era stato, il presidente degli Stati Uniti <em style="box-sizing: border-box;">perfetto</em> secondo l’immaginario collettivo tradizionale: intelligentissimo, di un’intelligenza non da Principe di Machiavelli ma da filosofo platonico (prima ancora di divenire presidente ha vinto il Nobel per l’Economia); non solo scevro da ipocrisie, ma ancorato a un’integrità morale iperbolica al limite della santità, esente da vizi e scandali, e per di più segretamente afflitto dalla sclerosi multipla.</span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="font-family: times; font-size: x-large;">Un soggetto del genere sarebbe facilmente risultato oleografico e melenso se realizzato da una mente meno che geniale; <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">uscì invece un capolavoro grazie al talento impressionante di quell’Aaron Sorkin</span> che aveva debuttato appena ventottenne scrivendo (sui tovagliolini di un bar, narra la leggenda) l’opera teatrale <em style="box-sizing: border-box;">A Few Good Men</em>, poi trasfusa nell’omonimo film di Bob Reiner del 1992 con Tom Cruise, Demi Moore e Jack Nicholson (in Italia <em style="box-sizing: border-box;">Codice d’onore</em>), ma che proprio grazie a <em style="box-sizing: border-box;">The West Wing</em>, in <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">un’epoca nella quale la tv era ancora considerata un campionato di serie B</span>, si sarebbe fatto conoscere come uno degli sceneggiatori più dotati della sua generazione.</span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="font-family: times; font-size: x-large;">Sorkin, che come cavallo di battaglia vanta dialoghi ipnotici quanto verbosi (“<em style="box-sizing: border-box;">mi avevano chiesto di iscrivermi a Twitter, come fanno molti sceneggiatori, ma non mi va: non credo di essere capace di scrivere nulla in 140 caratteri”</em>, ha detto una volta), scrisse solo le prime quattro stagioni della serie, per poi passare la mano a uno staff di suoi surrogati e tornare a dedicarsi al cinema, sul quale all’epoca le produzioni televisive non avevano ancora avuto il sopravvento (nel 2007 firmò <em style="box-sizing: border-box;">La guerra di Charlie Wilson</em> di Mike Nichols, con Tom Hanks e Julia Roberts; nel 2010 <em style="box-sizing: border-box;">The Social Network</em> di David Fincher, il film sull’invenzione di Facebook che gli valse un meritato Oscar).</span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="font-family: times; font-size: x-large;"><em style="box-sizing: border-box;">The West Wing</em> aveva esordito sul piccolo schermo contestualmente all’elezione di Bush e sarebbe andata in onda per sette anni sino al 2006, cioè immediatamente prima dell’ascesa di Barack Obama (alla cui presidenza avrebbe invece fatto da contrappunto la ben diversa <em style="box-sizing: border-box;">House of Cards,</em> un coagulo di disillusione e cinismo, ferocia sanguinaria e spregiudicatezza luciferina, il trionfo di quella carogna di <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">Frank Underwood che è l’antitesi di Bartlet</span> e incarna lo smascheramento della pia illusione della sua<em style="box-sizing: border-box;"> West Wing)</em>. E a proposito di Barack Obama: proprio nella settima e ultima serie di <em style="box-sizing: border-box;">The West Wing</em> al presidente Bartlet subentra un successore molto giovane, palesemente ricalcato a sua immagine e somiglianza, che sembra veramente anticipare la realtà; l’unica differenza è che anziché essere afroamericano è <em style="box-sizing: border-box;">latino</em> (si chiama Matt Santos) – e anche questo è tipico della serie, i latinoamericani avevano da poco sorpassato gli afroamericani, quindi in teoria aveva <em style="box-sizing: border-box;">più senso</em> un Obama latinoamericano.</span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="font-family: times; font-size: x-large;">Ed ecco un altro elemento fondamentale di <em style="box-sizing: border-box;">The West Wing</em>: <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">l’attitudine profetica</span>, ma anche i suoi limiti (che talvolta i suoi fan trascurano). La giornalista e scrittrice Guia Soncini ha recentemente scritto che in quella serie <em style="box-sizing: border-box;">“c’era già tutto, da «troveremo la cura per il cancro» detto in un comizio alle assunzioni degli insegnanti al timore d’una pandemia ai vaccini alla predisposizione dell’elettorato a offendersi alla smania dell’internet di dir la sua”. </em>C’è del vero, ma è altrettanto vero che nulla in <em style="box-sizing: border-box;">The West Wing </em>ha mai suggerito, né agli addetti ai lavori né ai semplici appassionati, la eventualità dell’elezione di un presidente come Donald Trump. Che, scusate, non è un dettaglio di poco conto.</span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="font-family: times; font-size: x-large;">Anzi: chissà che proprio l’influenza dei canoni tramandati didascalicamente dal culto pagano di <em style="box-sizing: border-box;">The West Wing</em> non abbia <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">contribuito a fuorviare le nostre analisi</span>. Caro Aaron Sorkin, forse in fondo è anche un po’ colpa di quel tuo maledetto capolavoro se in tanti quattro anni fa abbiamo miseramente fallito nella previsione: guarda caso, spesso chi ha fallito <a href="https://www.internazionale.it/opinione/matteo-bordone/2016/10/14/clinton-trump-giornalisti" rel="noopener" style="background-color: transparent; box-shadow: rgb(255, 255, 255) 0px 0px 0px 0px inset, rgb(247, 255, 0) 0px -2px 0px 0px inset; box-sizing: border-box; color: black; font-weight: 700; outline: 0px; text-decoration-line: none; text-shadow: rgb(255, 255, 255) 1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) -1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) 2px 0px 0px, rgb(255, 255, 255) -2px 0px 0px;" target="_blank">con maggior ardire</a> apparteneva proprio alla setta dei <em style="box-sizing: border-box;">westwingers</em> italici.</span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="font-family: times; font-size: x-large;"><span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">In Italia la serie non ha mai fatto grandi numeri</span>, forse perché presuppone una comprensione della politica americana che mal si concilia con il rozzissimo luogocomunismo al quale la vulgata nostrana ci ha purtroppo abituati quando si parla di politica a stelle e strisce. Inoltre dopo essere stata inizialmente trasmessa da Rete 4, migrò per un po’ su Sky (canale Fox), per poi finire nella nicchia di canali secondari come Steel e Arturo, e infine definitivamente fuori dai canali legali, nella catacomba dei download pirata, senza più il doppiaggio e quindi a uso e consumo dei quattro gatti che padroneggiavano a sufficienza la comprensione della lingua inglese. Da cui una fisiologica <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">acutizzazione della sindrome da setta di iniziati</span>, a volte persino un po’ snob, che aveva finito per caratterizzare la esigua comunità dei suoi pochi ma raffinatissimi spettatori italiani. Con il tempo la chiusura in una bolla, in una <em style="box-sizing: border-box;">echo chamber</em>, è stata fatale, portando alla miopia i fortunati che potevano essere destinati a vedere più lungo degli altri.</span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="font-family: times; font-size: x-large;">Ben venga quindi il colpo di scena: quando ormai avevamo perduto ogni speranza, in una stagione in cui l’elitarismo non paga, <em style="box-sizing: border-box;">The West Wing</em> in versione comodamente e pigramente doppiata è salita alla ribalta della visione <em style="box-sizing: border-box;">per tutti</em>, libera e mainstream, grazie ad Amazon Prime Video.</span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="font-family: times; font-size: x-large;">Approfittatene. <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">Con l’approssimarsi delle elezioni presidenziali americane, guardatela. Gustatevela. Usatela.</span> Anche se non aveva previsto Trump. Basta tener presente che si tratta di una narrazione che spiega, e persino <em style="box-sizing: border-box;">insegna</em>, la politica americana non come era un tempo e purtroppo non è più, bensì semmai come dovrebbe essere in teoria (ma forse non è mai stata realmente – non compiutamente, non del tutto). Basta saperlo, e non scordarlo mai. Buona visione.<br /><br /><i>Uscito su <a href="https://www.wired.it/play/televisione/2020/08/20/the-west-wing-recensione-sorkin/">Wired</a></i></span></p><div class="article-preview-landscape-list fb-no-quote" style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: museosans, sans-serif; font-size: 15px; margin: 0px 0px 40px; padding: 9px 0px 0px;"><p class="section-title line" style="border-top: 1px solid rgb(200, 200, 200); box-sizing: border-box; float: none; font-size: 12px; font-weight: 700; letter-spacing: 2px; line-height: 14px; margin: 0px 0px 14px; padding: 0px; text-transform: uppercase;"><span style="background-attachment: initial; background-clip: initial; background-image: initial; background-origin: initial; background-position: initial; background-repeat: initial; background-size: initial; box-sizing: border-box; padding-right: 20px; position: relative; top: -7px;">LEGGI ANCHE</span></p></div>Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-37399728842368829822020-03-04T17:20:00.001+01:002020-09-02T17:22:49.243+02:00JOE BIDEN STRIKES BACK<p> </p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhVLDvHYVi6VrFgrgu-M_BbRWJ-e-1L7BvGyYu5cdHk2gIBm88BxDNCHo7eTU95VFcte1DBQY5GC68fxUdbyJv02v9mvAW57Dc1vr0JZUuhQLUkHShfCrx4bCd3ZpXrOE6dxlsSSh5pmZ0/s768/biden.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="339" data-original-width="768" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhVLDvHYVi6VrFgrgu-M_BbRWJ-e-1L7BvGyYu5cdHk2gIBm88BxDNCHo7eTU95VFcte1DBQY5GC68fxUdbyJv02v9mvAW57Dc1vr0JZUuhQLUkHShfCrx4bCd3ZpXrOE6dxlsSSh5pmZ0/s640/biden.jpg" width="640" /></a></div><br /><span style="font-size: x-large;"><span style="box-sizing: border-box; font-family: "Droid Serif", serif;">“<em style="box-sizing: border-box;">Sindaco Bloomberg, Lei con tutti i suoi soldi non riuscirà mai a creare l’entusiasmo e l’energia di cui abbiamo bisogno per avere l’affluenza elettorale necessaria a sconfiggere Donald Trump</em>”. </span><span style="box-sizing: border-box; font-family: "Droid Serif", serif;">È stato facile profeta Bernie Sanders <a href="https://www.washingtonpost.com/politics/2020/02/16/sanders-steps-up-attacks-bloomberg-candidates-event-nevada/" rel="noopener" style="box-shadow: rgb(255, 255, 255) 0px 0px 0px 0px inset, rgb(247, 255, 0) 0px -2px 0px 0px inset; box-sizing: border-box; color: black; font-weight: 700; outline: 0px !important; text-decoration-line: none; text-shadow: rgb(255, 255, 255) 1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) -1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) 2px 0px 0px, rgb(255, 255, 255) -2px 0px 0px;" target="_blank">due settimane fa</a>, nel puntare il dito contro l’ex sindaco di New York City, il quale ha speso mezzo miliardo di dollari (cifra folle e record storico, senza precedenti) </span><span style="box-sizing: border-box; font-family: "Droid Serif", serif;">per <a href="https://www.wired.it/attualita/politica/2020/02/15/michael-bloomberg-meme/" rel="noopener" style="box-shadow: rgb(255, 255, 255) 0px 0px 0px 0px inset, rgb(247, 255, 0) 0px -2px 0px 0px inset; box-sizing: border-box; color: black; font-weight: 700; outline: 0px !important; text-decoration-line: none; text-shadow: rgb(255, 255, 255) 1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) -1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) 2px 0px 0px, rgb(255, 255, 255) -2px 0px 0px;" target="_blank">la sua candidatura</a> alle primarie presidenziali democratiche basata totalmente sull’entrata tardiva “<em style="box-sizing: border-box;">direttamente al Super Tuesday</em>”, cioè ieri. </span></span><p></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: "Droid Serif", serif !important; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="font-size: x-large;"><span style="box-sizing: border-box;">Si è trattato di un esperimento a dir poco spregiudicato, al limite del gioco d’azzardo: senza partecipare né ai <a href="https://www.wired.it/attualita/politica/2020/02/03/primarie-americane-funzionamento-elezioni-2020/" rel="noopener" style="background-color: transparent; box-shadow: rgb(255, 255, 255) 0px 0px 0px 0px inset, rgb(247, 255, 0) 0px -2px 0px 0px inset; box-sizing: border-box; color: black; font-weight: 700; outline: 0px !important; text-decoration-line: none; text-shadow: rgb(255, 255, 255) 1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) -1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) 2px 0px 0px, rgb(255, 255, 255) -2px 0px 0px;" target="_blank">caucus dell’Iowa</a>, né alle primarie del New Hampshire, né ai caucus del Nevada né alle primarie del South Carolina, Bloomberg ha puntato tutto su una sua vittoria nel voto che si è tenuto simultaneamente nelle scorse ore in 14 stati (Alabama, Arkansas, California, Colorado, Maine, Massachusetts, Minnesota, North Carolina, Oklahoma, Tennessee, Texas, Utah, Vermont e Virginia). </span><span style="box-sizing: border-box;">E invece <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">ha perso pressoché ovunque</span>: l’unica votazione da lui vinta risulta essere quella alle isole Samoa (che assegnano 6 delegati su 3979). Con gli spiccioli raggranellati nei tre o quattro stati nei quali, pur perdendo, ha comunque superato la soglia di sbarramento del 15%, dovrebbe attestarsi sulla quarantina di delegati – e quindi, a buon senso, dovrebbe por fine alla sua impresa nei prossimi giorni, se non già nelle prossime ore. </span></span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: "Droid Serif", serif !important; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="box-sizing: border-box;"><span style="font-size: x-large;">Ritirandosi, Bloomberg sgombrerà ulteriormente il campo alla candidatura di J<span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">oe Biden</span>, il quale ieri ha già beneficiato dell’avvenuto ritiro, subito dopo il voto di sabato in South Carolina e proprio alla vigilia di questo del Super martedì, di Pete Buttigieg e di Amy Klobuchar, i quali gli hanno dato pubblicamente il loro endorsement durante un apposito comizio, ben orchestrato lunedì sera a Dallas.</span></span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: "Droid Serif", serif !important; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="font-size: x-large;"><span style="box-sizing: border-box;">Di fatto Biden rimarrà a questo punto<span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;"> l’unico candidato moderato in campo</span>, ma soprattutto si confermerà il candidato sul quale punta l’establishment del Partito democratico, che forse sta riuscendo ad attuare contro la candidatura </span><em style="box-sizing: border-box;">anti-establishment</em><span style="box-sizing: border-box;"> di Sanders ciò che il Partito repubblicano non riuscì a fare quattro anni fa contro la simmetrica scalata di Donald Trump.</span></span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: "Droid Serif", serif !important; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="box-sizing: border-box;"><span style="font-size: x-large;">Sanders, che fino a una settimana fa sembrava improvvisamente in testa in queste primarie, stanotte ha prevalso solo in Colorado, Utah, Vermont e California. Inoltre da alcuni stati giungono <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">numeri ben inferiori a quelli delle primarie del 2016</span>, che erano state un duello fra Sanders e Hillary Clinton, infine vinto da quest’ultima: in Minnesota quattro anni fa Sanders aveva vinto con il 61%, stanotte ha perso con il 30%; in Oklahoma aveva vinto con il 52%, e stanotte ha perso con il 25%; persino in California, uno dei pochi stati nei quali stanotte Sanders ha vinto, i primi dati parziali lasciano pensare che la sua percentuale risulterà inferiore di almeno dieci punti rispetto a quella del 46% con la quale aveva perso nel 2016.</span></span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: "Droid Serif", serif !important; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="box-sizing: border-box;"><span style="font-size: x-large;">Dati come questi mal si conciliano con l’affermazione, spesso circolata nelle scorse settimane, che Sanders avesse <em style="box-sizing: border-box;">allargato la propria base</em>. Presumibilmente una parte del suo problema è la competizione a sinistra con <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">Liz Warren</span>; il che però non chiude certo il discorso, dato che ad oggi pare che Warren, nonostante i risultati decisamente deludenti rispetto alle attese iniziali, per il momento non si ritirerà.</span></span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: "Droid Serif", serif !important; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="box-sizing: border-box;"><span style="font-size: x-large;">Tutto quindi al momento arride a Joe Biden, il quale ha vinto in Alabama, Arkansas, Massachusetts, Minnesota, North Carolina, Oklahoma, Tennessee e Virginia, e soprattutto in Texas, che oltre ad essere il secondo stato per dimensione elettorale (e quindi per numero di delegati) comincia anche a essere considerato un <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">possibile fronte di conquista nell’elezione generale a novembre</span> (contrariamente alla California, che è in assoluto lo stato più grande, ma nell’elezione generale conta poco, essendo lì del tutto scontata la vittoria dei democratici, chiunque sia il candidato).</span></span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; font-family: "Droid Serif", serif !important; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="box-sizing: border-box;"><span style="font-size: x-large;">Insomma, Biden stanotte è improvvisamente tornato a essere il frontrunner. Certo, la partita è tutt’altro che chiusa, ma è pur vero che tra le prossime votazioni quella di maggior peso numerico (248 delegati, poco meno di quelli assegnati in Texas) ma anche la più cruciale politicamente (lo stato è spesso un ago della bilancia nell’elezione generale) è rappresentata dalle primarie della Florida, fra due settimane. E in Florida, si sa, conta moltissimo il voto degli anziani, che attualmente sembra molto più orientato verso Biden che verso Sanders.<br /><br /><i>Uscito su <a href="https://www.wired.it/attualita/politica/2020/03/04/super-tuesday-primarie-vittoria-biden-sanders-liberal/">Wired</a></i></span></span></p>Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-11265863199516081412020-01-08T17:13:00.002+01:002020-09-02T17:20:11.284+02:00QUANTE PROBABILITA' CI SONO CHE TRUMP VENGA RIELETTO?<p></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhXrkJUcVML4_W3tcd9uLw8F1f3R39K4R0uhvUjP1ucDN-E4NW1NkjqgH5DTYDirK1dJFbgRMznEGkuTqin7CIjXjYmXRa5EZBl1cNiigdSRXfmPHpWjA8LgGybqAF7FakbM8V5QJ1Lnms/s1280/trumpgoodyearpetejpg.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="720" data-original-width="1280" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhXrkJUcVML4_W3tcd9uLw8F1f3R39K4R0uhvUjP1ucDN-E4NW1NkjqgH5DTYDirK1dJFbgRMznEGkuTqin7CIjXjYmXRa5EZBl1cNiigdSRXfmPHpWjA8LgGybqAF7FakbM8V5QJ1Lnms/s640/trumpgoodyearpetejpg.jpg" width="640" /></a></div><br /><span style="font-family: times; font-size: medium;"><br /></span><p></p><p><span style="font-family: times; font-size: medium;"> </span><span style="font-family: times; font-size: x-large;">L<span style="box-sizing: border-box;">a notte del 6 novembre 2012 mi trovavo negli studi di SkyTg24 a commentare in diretta, assieme ad altri ben più qualificati analisti, lo spoglio dell’elezione del <a href="https://www.wired.it/play/cinema/2019/08/31/presidenti-stati-uniti-improbabili/" rel="noopener" style="box-shadow: rgb(255, 255, 255) 0px 0px 0px 0px inset, rgb(247, 255, 0) 0px -2px 0px 0px inset; box-sizing: border-box; color: black; font-weight: 700; outline: 0px !important; text-decoration-line: none; text-shadow: rgb(255, 255, 255) 1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) -1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) 2px 0px 0px, rgb(255, 255, 255) -2px 0px 0px;" target="_blank">presidente degli Stati Uniti</a>. </span><span style="box-sizing: border-box;">Poiché regnava grande incertezza sull’esito, trovai giusto osservare che, qualunque esso fosse stato, quella suspense era già di per sé un fatto eclatante: la <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">rielezione di un presidente al termine del suo primo mandato</span> – qual era Barack Obama in quel momento – è infatti un evento del tutto fisiologico che rappresenta la pura e semplice normalità.</span></span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="box-sizing: border-box;"><span style="font-family: times; font-size: x-large;">Tanto che, da almeno un secolo a questa parte, il solo ed unico caso di un presidente <em style="box-sizing: border-box;">licenziato</em> dopo soli quattro anni pur essendo stato inizialmente eletto in discontinuità con il suo predecessore (senza, quindi, che la sua mancata rielezione sia giustificabile con la naturale oscillazione del pendolo dell’alternanza fra i due partiti) è rappresentato dalla presidenza di <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">Jimmy Carter</span>, che non a caso è considerata la <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">presidenza fallimentare per antonomasia</span>: la sua mancata rielezione nel 1980 si può veramente considerare come un classico caso di eccezione che conferma la regola.</span></span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="font-family: times; font-size: x-large;"><span style="box-sizing: border-box;">In questo senso, dissi, era un fatto notevole quello di trovarci a seguire lo scrutinio della sfida elettorale fra Obama e Mitt Romney con il fiato sospeso, anziché sbadigliando per la prevedibilità dell’esito (e non solo per la tarda ora).</span><span style="box-sizing: border-box;"> </span><span style="box-sizing: border-box;">Non appena ebbi terminato di esporre queste considerazioni, vi fu un collegamento con un insigne professore di un’illustre università, il quale, con tono piccato, mi riprese – come solo un professore sa fare – facendo presente che Obama era sì al termine di un primo mandato presidenziale conferito con discontinuità politica rispetto al suo predecessore, ma era anche alle prese con un tasso di disoccupazione del 7,9%: e dai tempi di Franklin Delano Roosevelt <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">nessun presidente uscente era più riuscito a ottenere la rielezione</span> con un tasso di disoccupazione superiore così alto.</span></span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="font-family: times; font-size: x-large;"><span style="box-sizing: border-box;">Beh, quel professore aveva ragione – e la sua ragione torna buona per parlare della <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">principale corsa politica del 2020</span>: quella per la Casa Bianca. È molto difficile stabilire fino a che punto la rielezione di Obama si dovette alla inadeguatezza del suo antagonista, e quanto fu invece aiutata dal fatto che quel tasso di disoccupazione, per quanto ancora molto alto, fosse pur sempre in calo rispetto al drammatico 9,5% del 2010. Sta di fatto che la rielezione di Obama fu al tempo stesso una conferma della <em style="box-sizing: border-box;">regola</em> cui accennavo prima, ma anche <a href="https://www.bloomberg.com/news/articles/2012-11-07/obama-defies-history-on-economy-wins-with-coalition-vote" rel="noopener" style="background-color: transparent; box-shadow: rgb(255, 255, 255) 0px 0px 0px 0px inset, rgb(247, 255, 0) 0px -2px 0px 0px inset; box-sizing: border-box; color: black; font-weight: 700; outline: 0px !important; text-decoration-line: none; text-shadow: rgb(255, 255, 255) 1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) -1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) 2px 0px 0px, rgb(255, 255, 255) -2px 0px 0px;" target="_blank">una storica smentita</a> </span><span style="box-sizing: border-box;">della presunzione di non rieleggibilità con disoccupazione superiore prossima all’8%.</span></span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="box-sizing: border-box;"><span style="font-family: times; font-size: x-large;">A undici mesi dalla prossima elezione presidenziale, mi accade sempre più spesso di ripensare a quel confronto; e più ci ripenso, più <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">stento a immaginare come Donald Trump possa mancare la propria rielezione</span> il prossimo 3 novembre. Se infatti nel 2012 la disoccupazione al 7,9% non impedì la rielezione di Obama, cosa mai potrebbe trasformare Trump nella versione di destra di Jimmy Carter? </span></span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="box-sizing: border-box;"><span style="font-family: times; font-size: x-large;">La vulgata, quando si parla dell’elezione presidenziale del 1980, individua solitamente il fattore determinante nella crisi degli ostaggi in Iran; ma di certo Carter non fu aiutato nemmeno dalla disoccupazione al 6,9% e in crescita (fattore, quest’ultimo, da non trascurare: Reagan quattro anni più tardi sarebbe stato rieletto proclamando che era “<em style="box-sizing: border-box;">di nuovo mattina in America</em>” con il tasso di disoccupazione a 7,7%, ma in calo). </span></span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="font-family: times; font-size: x-large;"><span style="box-sizing: border-box;">Ebbene: per quanto riguarda Trump, <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">il fattore occupazionale non potrebbe essere più favorevole</span> alla rielezione. Da settembre il tasso di disoccupazione è infatti sceso al 3,5%, il livello più basso registrato nell’ultimo mezzo secolo, cioè dai tempi dello sbarco sulla Luna e del festival di Woodstock. </span><span style="box-sizing: border-box;">In cinque stati in particolare (Alabama, California, Illinois, New Jersey e South Carolina) la disoccupazione è scesa al <a href="https://www.cnbc.com/2019/10/18/five-states-just-hit-all-time-low-unemployment-rates.html" rel="noopener" style="background-color: transparent; box-shadow: rgb(255, 255, 255) 0px 0px 0px 0px inset, rgb(247, 255, 0) 0px -2px 0px 0px inset; box-sizing: border-box; color: black; font-weight: 700; outline: 0px !important; text-decoration-line: none; text-shadow: rgb(255, 255, 255) 1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) -1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) 2px 0px 0px, rgb(255, 255, 255) -2px 0px 0px;" target="_blank">livello più basso mai rilevato</a>.</span></span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="font-family: times; font-size: x-large;"><span style="box-sizing: border-box;">Secondo un recente <a href="https://www.newsweek.com/best-economy-scores-since-2001-could-earn-trump-boost-2020-new-poll-cnn-1478567" rel="noopener" style="background-color: transparent; box-shadow: rgb(255, 255, 255) 0px 0px 0px 0px inset, rgb(247, 255, 0) 0px -2px 0px 0px inset; box-sizing: border-box; color: black; font-weight: 700; outline: 0px !important; text-decoration-line: none; text-shadow: rgb(255, 255, 255) 1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) -1px 1px 0px, rgb(255, 255, 255) 2px 0px 0px, rgb(255, 255, 255) -2px 0px 0px;" target="_blank">sondaggio della Cnn</a>,</span><span style="box-sizing: border-box;"> la percentuale degli americani che attualmente danno un giudizio positivo della situazione economica ha raggiunto il 75%: <span style="box-sizing: border-box; font-weight: 700;">il dato più alto dal 2001</span>. </span></span></p><p style="background-color: white; box-sizing: border-box; line-height: 36px; margin: 0px 0px 40px; padding: 0px;"><span style="font-family: times; font-size: x-large;"><span style="box-sizing: border-box;">Ora, anche se la storia non si fa con i <em style="box-sizing: border-box;">se</em>, trovo che non sarebbe fuori luogo chiedere di alzare la mano chi non ritiene che anche Carter nel 1980 con dati simili sarebbe stato rieletto, crisi degli ostaggi o no. </span><span style="box-sizing: border-box;">Che la rielezione di Trump appaia auspicabile o meno, forse prima di azzardare pronostici e ipotizzare scenari toccherebbe partire da qui.<br /><br /><i>Uscito su <a href="https://www.wired.it/attualita/politica/2020/01/08/rielezione-donald-trump-probabile/">Wired</a></i></span></span></p>Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-26606835042889729022018-11-07T15:08:00.002+01:002018-11-07T15:22:17.880+01:00CONFRONTO ALL'AMERICANA<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhKnOcFuTGgqiJqKZHQ6DCanNe0fi2o1WX7FsUmALcZzHAhNGOOqG0bIopL54Npqa_o0vRFSFx7sxQmrOVyrL4o5uyiS9CdT5CYQ7_2a0yWb8Bo07xIbMqTBcLRlkh5SH5Lx5m3L2YPANA/s1600/TrumpObama.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="682" data-original-width="1024" height="266" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhKnOcFuTGgqiJqKZHQ6DCanNe0fi2o1WX7FsUmALcZzHAhNGOOqG0bIopL54Npqa_o0vRFSFx7sxQmrOVyrL4o5uyiS9CdT5CYQ7_2a0yWb8Bo07xIbMqTBcLRlkh5SH5Lx5m3L2YPANA/s400/TrumpObama.jpg" width="400" /></a></div>
<div style="background-color: white; border: 0px; color: #444444; font-stretch: inherit; font-variant-east-asian: inherit; font-variant-numeric: inherit; line-height: 1.6; margin-bottom: 15px; outline: 0px; padding: 0px; text-align: justify; vertical-align: baseline;">
<span style="font-family: inherit;"><br />Un presidente eletto da due anni che affronta per la prima volta quel “referendum” sul suo governo che di fatto è insito in ogni elezione di metà mandato, e viene – per sua stessa ammissione – “asfaltato”.</span></div>
<div style="background-color: white; border: 0px; color: #444444; font-stretch: inherit; font-variant-east-asian: inherit; font-variant-numeric: inherit; line-height: 1.6; margin-bottom: 15px; outline: 0px; padding: 0px; text-align: justify; vertical-align: baseline;">
<span style="font-family: inherit;">Il partito di opposizione che, pur essendo ancora frammentato, in cerca di nuova identità e drammaticamente sprovvisto di nuova leadership, riesce a catalizzare la “rivolta contro il presidente”, e grazie a ciò non solo stravince le elezioni della Camera, ma guadagna diversi seggi anche al Senato, e “vince tutto” anche nelle elezioni dei Governatori dei singoli Stati, persino in quelli considerati roccaforti del partito del Presidente.</span></div>
<div style="background-color: white; border: 0px; color: #444444; font-stretch: inherit; font-variant-east-asian: inherit; font-variant-numeric: inherit; line-height: 1.6; margin-bottom: 15px; outline: 0px; padding: 0px; text-align: justify; vertical-align: baseline;">
<span style="font-family: inherit;">Poteva essere questa la sostanza delle elezioni di metà mandato appena concluse, se si fosse concretizzata la “ondata blu” della quale molti favoleggiavano mesi addietro.</span></div>
<div style="background-color: white; border: 0px; color: #444444; font-stretch: inherit; font-variant-east-asian: inherit; font-variant-numeric: inherit; line-height: 1.6; margin-bottom: 15px; outline: 0px; padding: 0px; text-align: justify; vertical-align: baseline;">
<span style="font-family: inherit;">E invece no. Questa è stata la sostanza di un’altra elezione di metà (primo) mandato, quella di otto anni fa, la prima <em style="border: 0px; font-stretch: inherit; font-variant: inherit; font-weight: inherit; line-height: inherit; margin: 0px; outline: 0px; padding: 0px; vertical-align: baseline;">midterm</em> durante la presidenza di Barack Obama.</span></div>
<div style="background-color: white; border: 0px; color: #444444; font-stretch: inherit; font-variant-east-asian: inherit; font-variant-numeric: inherit; line-height: 1.6; margin-bottom: 15px; outline: 0px; padding: 0px; text-align: justify; vertical-align: baseline;">
<span style="font-family: inherit;">Nel 2010 i Democratici oltre a detenere la maggioranza in entrambi i rami del Congresso erano anche al comando nella maggioranza assoluta degli Stati, sia quanto a governatori che quanto a maggioranze parlamentari locali (le quali a loro volta determinano lo spazio di manovra del governatore).</span></div>
<div style="background-color: white; border: 0px; color: #444444; font-stretch: inherit; font-variant-east-asian: inherit; font-variant-numeric: inherit; line-height: 1.6; margin-bottom: 15px; outline: 0px; padding: 0px; text-align: justify; vertical-align: baseline;">
<span style="font-family: inherit;">I Repubblicani, per contro, erano – più ancora dei Dem di oggi – politicamente divisi e drammaticamente sprovvisti di qualsiasi embrione di leadership. Da quando Obama era stato eletto venivano descritti come sull’orlo dell’estinzione (memorabile una <a href="http://content.time.com/time/covers/0,16641,20090518,00.html" style="border: 0px; color: #273583; font-stretch: inherit; font-style: inherit; font-variant: inherit; font-weight: inherit; line-height: inherit; margin: 0px; outline: 0px; padding: 0px; text-decoration-line: none; vertical-align: baseline;">cover story di TIME</a> in questo senso). Quell’anno, per riprendersi la maggioranza alla Camera Il Grand Ole Party avrebbe dovuto rimontare di almeno 39 seggi (quasi il doppio di quei miseri 23 seggi che quest’anno bastavano per la rimonta ai Dem). Alla fine i repubblicani ne conquistarono ben 63 – circa il doppio di quelli che i sondaggi estivi avevano pronosticato. Dei seggi conquistati dai Repubblicani, solo 23 si trovavano in regioni nelle quali il GOP andava tradizionalmente forte, mentre il grosso (29 seggi) si trovava negli Stati centro-settentrionali, in mezzo al Midwest industriale, con picchi in Pennsylvania e in Ohio, ma anche nello Stato di New York e in Illinois. Si trattò della più grande vittoria elettorale parlamentare repubblicana dell’ultimo secolo: bisogna risalire al 1894, ai tempi della seconda elezione di <a href="http://it.wikipedia.org/wiki/Grover_Cleveland" style="border: 0px; color: #273583; font-stretch: inherit; font-style: inherit; font-variant: inherit; font-weight: inherit; line-height: inherit; margin: 0px; outline: 0px; padding: 0px; text-decoration-line: none; vertical-align: baseline;">Grover Cleveland</a>, per trovare un record superiore.</span></div>
<div style="background-color: white; border: 0px; color: #444444; font-stretch: inherit; font-variant-east-asian: inherit; font-variant-numeric: inherit; line-height: 1.6; margin-bottom: 15px; outline: 0px; padding: 0px; text-align: justify; vertical-align: baseline;">
<span style="font-family: inherit;">Più complessa la questione al Senato: quando Obama era stato eletto alla Casa Bianca nel 2008 i Dem avevano raggiunto addirittura la cosiddetta supermaggioranza, anche se risicatissima di 60 senatori su 100, non uno di più; ma poi la avevano persa all’inizio del 2010 quando alle suppletive in Massachusetts tenutesi dopo la morte di ted Kennedy era stato clamorosamente eletto un repubblicano. Partivano quindi da 59 seggi, e i Rep da 41. Non perdettero la maggioranza, ma la videro ridursi a 53, perché il partito di opposizione strappò comunque 6 seggi a quello di governo.</span></div>
<div style="background-color: white; border: 0px; color: #444444; font-stretch: inherit; font-variant-east-asian: inherit; font-variant-numeric: inherit; line-height: 1.6; margin-bottom: 15px; outline: 0px; padding: 0px; text-align: justify; vertical-align: baseline;">
<span style="font-family: inherit;">Per quanto riguarda i governatori i Dem, che fino al 2010 ne detenevano la maggioranza assoluta (26 su 50), quell’anno persero una dozzina di Stati, tra i quali praticamente tutto il MidWest.</span></div>
<div style="background-color: white; border: 0px; color: #444444; font-stretch: inherit; font-variant-east-asian: inherit; font-variant-numeric: inherit; line-height: 1.6; margin-bottom: 15px; outline: 0px; padding: 0px; text-align: justify; vertical-align: baseline;">
<span style="font-family: inherit;"><em style="border: 0px; font-stretch: inherit; font-variant: inherit; font-weight: inherit; line-height: inherit; margin: 0px; outline: 0px; padding: 0px; vertical-align: baseline;">“Da qualche parte lungo il percorso, colui che era l’apostolo del cambiamento ne è divenuto il bersaglio, sommerso dalla stessa corrente cavalcando la quale era stato portato alla Casa Bianca due anni fa”. </em>Questo fu l’incipit dell’analisi pubblicata a caldo non da un sito web conservatore, ma <a href="http://www.nytimes.com/2010/11/03/us/politics/03assess.html?_r=1&hp" style="border: 0px; color: #273583; font-stretch: inherit; font-style: inherit; font-variant: inherit; font-weight: inherit; line-height: inherit; margin: 0px; outline: 0px; padding: 0px; text-decoration-line: none; vertical-align: baseline;">dal New York Times</a>. In conferenza stampa Obama ammise: “ci hanno asfaltati” (“<em style="border: 0px; font-stretch: inherit; font-variant: inherit; font-weight: inherit; line-height: inherit; margin: 0px; outline: 0px; padding: 0px; vertical-align: baseline;">a shellacking</em>“).</span></div>
<div style="background-color: white; border: 0px; color: #444444; font-stretch: inherit; font-variant-east-asian: inherit; font-variant-numeric: inherit; line-height: 1.6; margin-bottom: 15px; outline: 0px; padding: 0px; text-align: justify; vertical-align: baseline;">
<span style="font-family: inherit;">Ecco: non leggerete nulla di simile per quanto riguarda le prime midterm della presidenza Trump (se lo doveste leggere, mettetevi a ridere).</span></div>
<div style="background-color: white; border: 0px; color: #444444; font-stretch: inherit; font-variant-east-asian: inherit; font-variant-numeric: inherit; line-height: 1.6; margin-bottom: 15px; outline: 0px; padding: 0px; text-align: justify; vertical-align: baseline;">
<span style="font-family: inherit;">Non c’è stato alcun “referendum perso” per il presidente, non si è registrata alcuna crisi di rigetto, nessuna grande marea di riflusso. Certo, del terreno perso qui e là, ma questo accade praticamente sempre in tutte le elezioni di metà mandato. È fisiologico ed usuale. Qui la vera notizia è la modestissima entità di questo terreno perso, e quindi la tenuta di quello che, da oggi, è ancor più “il partito di Trump”.<br /><br /><i>Prosegue su <a href="http://ilnazionale.net/attualita-e-politica/estero-attualita-e-politica/usa-elezioni-di-midtern-lopionione-di-alessandro-tapparini/">Il Nazionale</a></i></span></div>
Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-17786922104788280272018-11-06T11:35:00.000+01:002018-11-06T11:35:10.353+01:00"JUST DO IT"<div class="entry-content" style="background-color: white; box-sizing: inherit; color: #505050; margin: 1.5em 0px 0px; max-width: 1260px; padding: 0px; width: 496.4px;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjPlYu2i-qnLuRgQR8bG_Y1Ci2C0O4oQbp8e0XxUSvC3PjMI3z_ATCAYXVOvAdkXnKbIhYiP4I0gkm28rcImBh5zXM2BbgEsgEQHf2TZ9hWXhzOjdjh2RZsLgdMqat1M9w6DbsB0INmuN4/s1600/colin-1-e1536572257139.jpeg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="400" data-original-width="600" height="213" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjPlYu2i-qnLuRgQR8bG_Y1Ci2C0O4oQbp8e0XxUSvC3PjMI3z_ATCAYXVOvAdkXnKbIhYiP4I0gkm28rcImBh5zXM2BbgEsgEQHf2TZ9hWXhzOjdjh2RZsLgdMqat1M9w6DbsB0INmuN4/s320/colin-1-e1536572257139.jpeg" width="320" /></a></div>
<div style="box-sizing: inherit; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Non si vede l’enorme, caricaturale cespuglio di capelli afro, nel primissimo piano del volto di Colin Kaepernick scelto per lo spot con il quale la Nike celebra i 30 anni del suo celeberrimo slogan “Just Do It”. Solo i tratti del viso, poco più che il suo sguardo, e la scritta “credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto“.</span></div>
<div style="box-sizing: inherit; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Kaepernick è probabilmente il personaggio più controverso, e politicamente più esposto, del mondo dello sport americano. Nel 2016, quando ancora giocava da quarterback in una squadra molto importante, i San Francisco 49rs, diede inizio a una protesta contro violenze e abusi perpetrati dalla polizia statunitense sui cittadini afroamericani. La protesta consisteva semplicemente nell’inginocchiarsi durante l’esecuzione dell’inno nazionale, prima di ogni partita. Molti altri giocatori aderirono e la polemica dilagò. In un’intervista Kapernick dichiarava: “Non intendo mostrare orgoglio per una bandiera e per un Paese che opprime la gente di colore”. Durante la campagna elettorale per la Casa Bianca, attaccò non solo Donald Trump (“è apertamente razzista”), ma anche Hillary Clinton (“ha commesso dei reati che se fossero stati commessi da chiunque altro, ora quella persona sarebbe in prigione”). Hillary fece finta di nulla, Trump invece colse la ghiotta occasione per contrattaccare (“se questo Paese non gli piace se ne può anche andare”, dichiarò rievocando il “Love it or leave it” che mezzo secolo fa veniva rivolto ai pacifisti che bruciavano la bandiera per protestare contro la guerra in Vietnam).</span></div>
<div style="box-sizing: inherit; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Alla fine Kapernick ci ha rimesso il lavoro, nel senso che nessuna squadra lo ha più ingaggiato; inoltre la National Football League, assecondando</span><span style="font-family: inherit;"> </span><a href="https://www.theatlantic.com/politics/archive/2018/09/trump-mark-leibovich-nfl/569170/" rel="noopener noreferrer" style="background-color: transparent; box-sizing: inherit; color: #003891; font-family: inherit; text-decoration-line: none;" target="_blank">le richieste di Trump</a><span style="font-family: inherit;">, ha vietato quel gesto di protesta durante l’inno; da ultimo, lui ha intentato causa contro la Lega, lamentando di essere vittima di discriminazione.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Ora, ragionando secondo gli schemi di un tempo, la scelta di Nike di renderlo il volto del suo trentennale può apparire sorprendentemente “politica”, e stranamente rischiosa. Dopotutto, il football è lo sport per eccellenza negli Usa, e Nike sponsorizza tutte le 32 squadre della Nfl, la lega professionistica nazionale. Ma in realtà questa scelta ha senso, esattamente per la stessa ragione per cui alla Nfl conviene essere “trumpiana”: una ragione puramente commerciale. Innanzitutto, i clienti di Nike sono in misura largamente preponderante “i giovani”. Quei giovani che da anni risultano sempre meno propensi a guardare lo sport in tv, e sempre meno appassionati di football. Lo spettatore “medio” di una partita di football ha circa 50 anni, dicono i dati disponibili. Per mantenere il suo primato in un mercato di consumatori giovani, Nike non può limitarsi a sponsorizzare la Nfl: deve inseguire ciò che attira l’attenzione dei diciottenni e dei ventottenni (e soprattutto di quelli che abitano nelle grandi città, perché sono questi a dare il via alle “tendenze” alle quali poi gli altri si accodano). E Nike sa che a questa fascia di popolazione il gesto di Kapernick era piaciuto, <a href="https://www.forbes.com/sites/bobcook/2018/09/04/nike-bets-the-youth-are-with-colin-kaepernick/" rel="noopener noreferrer" style="background-color: transparent; box-sizing: inherit; color: #003891; text-decoration-line: none;" target="_blank">e non poco</a>.</span></div>
<br />
<div style="box-sizing: inherit; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Dopo la sua protesta, la maglia del giocatore originario del Wisconsin divenne improvvisamente la più venduta, anche se nel frattempo aveva smesso di giocare. Non tanto perché i ragazzi lo seguissero nella militanza politica, quanto semplicemente perché andare controcorrente – specie con una gestualità così affascinante – risulta cool, attira la loro attenzione. La reazione dei giovani è stata cliccare “mi piace” sui social, e poi “compra” su Amazon, ma non certo mobilitarsi, e men che meno disturbarsi a raggiungere il seggio il giorno delle elezioni. Quella di cui parliamo, non a caso, è una delle fasce di popolazione meno inclini a votare per Trump, ma attualmente anche la meno intenzionata a cambiare le cose: soltanto <a href="https://www.vox.com/policy-and-politics/2018/7/18/17585898/young-voter-turnout-polls-midterms-2018" rel="noopener noreferrer" style="background-color: transparent; box-sizing: inherit; color: #003891; text-decoration-line: none;" target="_blank">uno su tre</a> di quei ragazzi è intenzionato a presentarsi alle urne.</span></div>
<div style="box-sizing: inherit; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Inoltre, non dimentichiamo che negli Usa il football è trattato alla stregua di una religione, ma nel resto del mondo è uno sport decisamente di nicchia; lo stesso resto del mondo in cui l’antipatia per Donald Trump, dal canto suo, di nicchia non è. Il mercato della Nike è mondiale, e fortemente orientato non semplicemente sui giovani americani, ma su quelli di tutto il pianeta. Non solo: in Europa, in Medio Oriente, in Sud America, le vendite dei prodotti Nike stanno crescendo tre o quattro volte più che negli Usa; in Cina, sette volte di più. È del resto la stessa azienda ad aver <a href="https://news.nike.com/news/nike-consumer-direct-offense" rel="noopener noreferrer" style="background-color: transparent; box-sizing: inherit; color: #003891; text-decoration-line: none;" target="_blank">pubblicamente proclamato</a>, più di un anno fa, di voler puntare tutto sui consumatori che vivono in dodici metropoli “chiave”: accanto a New York e Los Angeles (che guarda caso sul piano elettorale sono delle roccaforti anti-trumpiane…), le altre sono Londra, Shanghai, Pechino, Tokyo, Parigi, Città del Messico, Barcellona, Seul e Milano.</span></div>
<div style="box-sizing: inherit; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Quindi, no: Nike non sta facendo politica. Non sta sposando una “causa”, e non ha scelto di aprire in questo modo la sua campagna per “fare un dispetto a Trump”, né men che meno per schierarsi in vista delle ormai imminenti elezioni di metà termine. Semplicemente, sono ormai lontani i tempi in cui si diceva che Michael Jordan (celebre testimonial Nike), pur essendo simpatizzate del Partito democratico, evitava di parlare di politica perché “le scarpe da ginnastica le comprano anche i repubblicani”. In quest’epoca – un’epoca un po’ strana, ma tant’è – essere un personaggio fortemente controverso può rivelarsi un pregio. Questa campagna pubblicitaria è chiaramente basata su questo fattore: con un testimonial “non controverso” avrebbe rischiato di scivolare nell’indifferenza generale.</span></div>
<div style="box-sizing: inherit; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">A loro volta, le persone filotrumpiane che si sono indignate e stanno <a href="https://www.buzzfeed.com/bradesposito/people-are-actually-destroying-their-nikes-after-i" rel="noopener noreferrer" style="background-color: transparent; box-sizing: inherit; color: #003891; text-decoration-line: none;" target="_blank">condividendo sui social</a> foto e filmati di roghi di scarpe e calzini sono presumibilmente convinte di intraprendere una qualche forma di militanza politica. E invece stanno contribuendo anche loro, inconsapevolmente, a questa campagna Nike. Stanno aiutando a vendere più scarpe quella stessa multinazionale che credono di boicottare. E lo stanno facendo gratis. Probabilmente il “signor Nike” le sta guardando sornione, e pensando qualcosa di simile a: <i>Just do it.</i></span></div>
<div style="font-family: Georgia, Cambria, "Times New Roman", Times, serif; font-size: 18px;">
<i>Uscito su <a href="https://forbes.it/2018/09/05/no-nike-non-ha-scelto-colin-kaepernick-per-fare-politica/">Forbes</a></i></div>
</div>
Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-9353047958996135082018-11-06T11:29:00.002+01:002018-11-06T11:30:55.898+01:00C'ERA UNA VOLTA MAVERICK. STORIA DI JOHN MCCAIN<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhMYwU1-iAxPnNQ52ulUU_fwN434JngXTWHtumtcImsjweoUeE7jprs4-0EtFiw7hail5UmcAEQ3uEvLhWpbKslLn_hqcBzoYVZ1THlPtzaxyAzO9dLB9wh_gXda13Ib_nxtaSP-WQ8FJo/s1600/mccain.sedona.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="320" data-original-width="493" height="258" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhMYwU1-iAxPnNQ52ulUU_fwN434JngXTWHtumtcImsjweoUeE7jprs4-0EtFiw7hail5UmcAEQ3uEvLhWpbKslLn_hqcBzoYVZ1THlPtzaxyAzO9dLB9wh_gXda13Ib_nxtaSP-WQ8FJo/s400/mccain.sedona.jpg" width="400" /></a></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">In America, quella del 1967 la avevano chiamata <em>the Summer of Love</em>: l’anarchia pop dei figli dei fiori, i capelli lunghi e l’LSD, Janis Joplin e i Jefferson Airplane. Ma anche l’inizio delle contestazioni studentesche diffuse, dopo i prodromi di Berkley. Il 21 ottobre centomila giovani pacifisti avevano tenuto a Washington la “Marcia sul Pentagono”, la prima grande manifestazione di protesta contro la guerra del Vietnam.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Cinque giorni dopo, sull’altra sponda del Pacifico, John Sidney McCain Terzo era decollato dalla portaerei <em>USS Oriskany</em>, nel Golfo del Tonchino, per la sua ventitreesima missione: doveva bombardare una centrale elettrica nei pressi di Hanoi, “la città con la difesa contraerea più massiccia della storia” come lui stesso l’avrebbe definita anni dopo. Aveva trent’anni. Era in Vietnam come volontario, con i gradi di luogotenente nell’aviazione della Marina.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Non appena McCain raggiunse il bersaglio, il suo A-4 Skyhawk venne colpito da un missile di fabbricazione sovietica, lanciato dalla contraerea vietnamita. Fece appena in tempo a sganciare le sue bombe sull’obiettivo, quando l’aereo perse l’ala destra e precipitò in avvitamento. Riuscì a farsi espellere dall’abitacolo, ma la detonazione gli ruppe entrambe le braccia e una gamba. Quasi privo di sensi, cadde con il paracadute in uno dei laghetti che ancora oggi abbelliscono la capitale del Vietnam. Una piccola folla di abitanti della zona lo ripescò, lo massacrò di botte (uno gli assestò una coltellata all’inguine), e lo consegnò ai soldati.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Questi scoprirono ben presto che il prigioniero era figlio dell’ammiraglio che stava per entrare in carica come comandante della flotta americana nel Pacifico. Per usarlo come strumento di propaganda, fecero subito intervenire una troupe televisiva francese che lo intervistò prima delle torture, ricoverato in ospedale apparentemente in condizioni decenti. Quelle immagini fecero subito il giro del mondo, ad uso e consumo dell’opinione pubblica antiamericana; dopodiché i <em>viet</em> lo torturarono e lo spedirono, più morto che vivo, in un campo di concentramento.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Dopo un anno, gli offrirono la possibilità di tornare a casa. McCain comprese lo scopo: indurre il privilegiato (<em>the Crown Prince</em>, “il principe ereditario”, lo chiamavano i suoi carcerieri) a calpestare il principio “first captured, first released” - prima deve essere liberato chi prima è stato catturato - sancito dal codice d’onore dei prigionieri di guerra americani.</span></div>
<div style="background-color: white; margin-bottom: 9px;">
</div>
<div style="color: #30302d; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Se John McCain viene considerato un eroe di guerra, lo deve alla risposta che diede quel giorno ai suoi aguzzini</span><span style="font-family: inherit;">. Nel suo ufficio al Senato avrebbe conservato, incorniciato come un trofeo, il telegramma con il quale Haverell Harriman, che guidava la delegazione americana ai negoziati di Parigi sul Vetnam, comunicò a Washington che “Le Duc Tho ha menzionato che Hanoi voleva liberare il figlio dell’ammiraglio McCain, ma lui ha rifiutato”.</span></div>
<br />
<blockquote class="tr_bq" style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<em><span style="font-family: inherit;">Prova a immaginare quella frazione di secondo, tra l’offerta della liberazione e il suo rifiuto. Prova a immaginare se fosse toccato a te. Prova ad immaginare la violenza con la quale il tuo primordiale istinto di sopravvivenza ti avrebbe urlato nella testa in quel momento, e prova ad immaginare l’infinità di argomenti razionali che il tuo cervello avrebbe immediatamente prodotto per razionalizzare l’accettazione di quell’offerta. Fatto? Bene, allora adesso chiediti: tu saresti riuscito a dire di no, a rifiutare di tornare a casa?</span></em></blockquote>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Sono i taglienti interrogativi che il giovane scrittore postmoderno David Foster Wallace (che all’epoca aveva cinque anni) porrà nel 2000 ai lettori della <a href="https://www.rollingstone.com/politics/politics-features/david-foster-wallace-on-john-mccain-the-weasel-twelve-monkeys-and-the-shrub-194272/" style="color: #0088cc; text-decoration-line: none;" target="_blank">rivista Rolling Stone</a>, cioè ai trentenni del suo tempo, poco avvezzi a simili domande. “Non lo sai neanche tu”, si risponderà. “Nessuno di noi lo sa. Fai fatica anche solo ad immaginarti il dolore e la paura in quel momento, figuriamoci capire come ti saresti comportato”.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Era il 4 luglio del 1968. Il “principe ereditario” si era appena guadagnato una permanenza di oltre cinque anni (dei quali due in totale isolamento) nella prigione di Hoa Lo, che gli americani avevano soprannominato “l’Hilton di Hanoi”. Veniva torturato ciclicamente: denti rotti, costole incrinate, notti intere legato in posizioni dolorosissime. Senza contare la dissenteria, la febbre alta e soprattutto i dolori (da sopportare senza antidolorifici) delle fratture per la caduta in aereo, mai del tutto medicate. Per due volte tentò di suicidarsi impiccandosi nella sua cella.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Quando nel 1972 l’attrice americana Jane Fonda fece il suo famigerato viaggio ad Hanoi come militante pacifista, McCain ricevette dalle autorità vietnamite la richiesta di farsi filmare con lei mostrando di condividere le sue dichiarazioni contro la guerra. Anche stavolta rifiutò, e in quella occasione gli spezzarono nuovamente le braccia e lo sbatterono per cinque mesi in una cella ancora più piccola, di un metro per due – praticamente un armadio.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Venne infine rilasciato nel 1973, quando Nixon negoziò la ritirata, e rientrò negli USA assieme ad altri 591 prigionieri di guerra, con un peso corporeo di quarantaquattro chili ed i capelli candidi, coperto di medaglie (cinque) e di cicatrici (“più di quelle di Frankestein”, amava scherzare lui).</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nel 1985, nel decennale della fine della guerra, la CBS mandò in onda un documentario intitolato <em>Honor, Duty and a War Called Vietnam</em>, in cui il mitico Walter Cronkite, probabilmente il più autorevole cronista americano del secolo (nonché uno dei primissimi giornalisti statunitensi ad aver sostenuto, nel 1968, l’idea che l’America non poteva vincere quella guerra), visitava Hanoi assieme a McCain, ripercorrendo le tappe della sua prigionia. Tra queste, il lago in cui era precipitato quando era stato abbattuto, evento che i vietnamiti avevano immortalato erigendo sulla riva un monumento di cemento e bronzo che commemora l’eroismo della contraerea celebrando l’abbattimento del "famoso pirata dell’aria Jon Sney McKay" (“l’unica statua al mondo che rechi il mio nome, o comunque una sua versione approssimativa ma abbastanza somigliante”, chiosava scherzosamente lui).</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il Principe Ereditario, già. Suo padre era membro della <em>Society of Cincinnati</em>, un club molto elitario riservato a coloro che possono vantare un antenato tra gli ufficiali che combatterono con George Washington nella Rivoluzione americana (nel caso dei McCain si sarebbe trattato di un capitano di nome John Young, che combatté anche contro gli indiani per vendicare un fratello che era stato ucciso e “scalpato”).</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il fratello del suo bisnonno, Henry Pinckney McCain, aveva combattuto nella Prima Guerra Mondiale con i gradi di generale, e in suo onore un campo di addestramento a Grenada, nel Mississippi, in cui vennero preparate le truppe americane destinate a combattere in Europa nella Seconda Guerra Mondiale, venne chiamato “Camp McCain” (oggi è utilizzato per l’addestramento della Guardia Nazionale).</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il nonno John Sidney McCain Senior, detto “Slew”, era un ammiraglio della marina all’epoca in cui gli Stati Uniti si andavano dotando di una flotta navale degna di una superpotenza: nella Seconda Guerra Mondiale era stato al comando dell’aviazione navale durante la battaglia di Okinawa (lo si riconosce accanto al generale MacArthur in una famosa foto che immortala la firma del trattato di pace con il Giappone sul ponte della USS Missouri), distinguendosi al punto che ancora oggi una portaerei americana, assegnata alla base navale di Yokosuka in Giappone, è denominata in suo onore USS John S. McCain.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il padre John Sidney McCain Junior, detto Jack, non era da meno: anch’egli ammiraglio della US Navy (unico caso nella storia di attribuzione di questa stessa carica sia al padre che al figlio), era stato comandante di un sottomarino durante la Seconda Guerra Mondiale, poi era divenuto comandante in capo delle forze navali USA in Europa negli anni Sessanta, ed infine, per l’appunto, era stato messo al comando della flotta americana nel Pacifico proprio nel periodo in cui il figlio era stato fatto prigioniero dai vietnamiti. “Non parlava quasi mai della mia prigionia a persone che non fossero membri della nostra famiglia” – ricorderà il figlio quarant’anni dopo - , “e comunque mai in pubblico. Tutte le sere si inginocchiava e pregava perché facessi ritorno a casa sano e salvo. Eppure, quando fu suo dovere farlo, ordinò ai B-52 di bombardare Hanoi, inclusa l’area in cui sapeva si trovava la mia prigione”.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">L’abbandono della carriera militare spezzò quindi una tradizione dinastica straordinaria, della quale John – nato in un ospedale militare in una base americana sul Canale di Panama mentre il padre e il nonno erano di stanza laggiù, e cresciuto tra perpetui traslochi da una base della marina militare all’altra – appariva destinato sin dalla culla ad essere la “terza generazione”.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">All’Accademia Navale di Annapolis, nel Maryland, dove i genitori lo avevano spedito quando aveva 17 anni e pochissima voglia di andarci, aveva passato la maggior parte del tempo “a venire additato come un esempio negativo, e a marciare per parecchie miglia in più rispetto agli altri come punizione per i voti troppo bassi, per i ritardi, per il disordine nell’alloggio, per l’aspetto trasandato, per l’aver tenuto comportamenti sarcastici e per svariate altre violazioni dei regolamenti dell’accademia” (parole sue).</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La foto nell’annuario scolastico lo ritrae in versione Humphrey Bogart, con addosso un trench con il colletto rialzato e con la sigaretta che penzola in un angolo della bocca. Alla fine si era classificato ottocentonovantaquattresimo sugli ottocentonovantanove cadetti della sua classe. “Il giorno del diploma – racconterà in un’intervista – il Presidente Eisenhower, che presiedette personalmente la cerimonia, chiese di vedere l’ultimo della classe: ricordo di essermi un po’ dispiaciuto di non essermi impegnato un po’ di più per classificarmi male, per poco non ebbi l’occasione di stringere la mano al Presidente…”.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Forse, se la vita gli avesse davvero riservato la carriera militare che la famiglia gli aveva cucito addosso fin dal suo primo vagito, i fantasmi dei suoi avi lo avrebbero tormentato impedendogli di dare il meglio di sé; a cominciare da quello del padre, il quale si vantava di aver deciso di iscriversi all’Accademia sin dall’età in cui era stato “abbastanza grande da rendermi conto dell’esistenza di un posto come quello”.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">È la stessa impressione riferita dallo psichiatra della Marina che lo seguì al ritorno dal Vietnam: la cartella clinica parla di un uomo in fuga dall’“ombra di suo padre”, che aveva trovato pace solo una volta insignito dello status di eroe di guerra. Il giorno in cui cessò di essere presentato come “il figlio dell’ammiraglio McCain”, e fu invece l’ammiraglio ad essere presentato come “il padre del Comandante McCain”, lo psichiatra notò sul suo viso “un sorriso che rivelava soddisfazione e sollievo”, e annotò: “ce l’ha fatta”.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">A quanto pare la drammatica esperienza in Vietnam non è semplicemente l’accidente che dirottò sulla politica una carriera altrimenti spianata sotto le armi: è anche, o soprattutto, l’esperienza alla quale si deve il fatto che McCain sia stato quel particolare genere di uomo politico. Un genere raro, anomalo. Un politico incline a non fare la cosa più ovvia, a non scegliere la soluzione più conveniente a breve termine. Un rompiscatole, uno poco propenso a seguire la corrente. Capace di sfidare il semplice “istinto di autoconservazione”, che per un parlamentare equivale alla via più sicura verso la prossima rielezione.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">“Maverick”: questa parola quasi intraducibile (più o meno sta per “cane sciolto”, o “battitore libero”), familiare a chi crebbe negli anni Ottanta per via del film Top Gun (dedicato, guarda caso, alle gesta di alcuni piloti della marina militare), è stata quella da lui prediletta per sintetizzare il suo personaggio.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Un buon esempio è la crociata che McCain combattè negli anni Novanta contro il cosiddetto “Pork-Barrel Spending” la pratica con la quale uno o più parlamentari riescono a dirottare una parte della spesa pubblica federale su costosi progetti “locali” o “particolari” di poca o nessuna utilità, ricevendo in cambio voti e appoggi dai pochi beneficiari di tali operazioni (una ricetta che anche noi italiani conosciamo fin troppo bene).</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Da notare che questa battaglia McCain la potrò avanti non con coloriture moralistiche da ipocrita grillo parlante, bensì con argomentazioni pragmatiche e razionali: “per quanto ricca sia la nostra nazione, comunque non disponiamo di risorse illimitate. Se quando è ora di approvare la legge finanziaria noi parlamentari ci sbraniamo tra di noi per cercare ciascuno di portare a casa nel proprio collegio la fetta più grossa di finanziamenti a scapito delle risorse per le questioni nazionali, il risultato è non solo di balcanizzare l’America in una competizione tra gruppi d’interesse di matrice razziale o religiosa o di classe, ma anche di segare le gambe al perseguimento dei possibili grandi obiettivi di portata nazionale”.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Un altro dato significativo risiede nel fatto che McCain, noto falco in politica estera, è stato uno dei pochissimi esponenti repubblicani a sedere nella Commissione Difesa del Senato – della quale è stato anche più volte presidente – senza aver mai ricevuto in campagna elettorale finanziamenti dalla Boeing, il principale fornitore dell’esercito USA (tanto per intenderci: il suo mentore Henry “Scoop” Jackson, senatore democratico che pure aveva lungamente presieduto quella stessa commissione, veniva apostrofato dai suoi detrattori come “il senatore della Boeing”).</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Anzi: nel 2002, allorché una commissione parlamentare autorizzò l’Aviazione Militare a noleggiare dalla Boeing cento aerei 767 per usarli per il rifornimento in volo dei velivoli militari, McCain si mise di traverso come solo lui sapeva fare. Il costo dell’operazione venne autorizzato tra un minimo di diciassette e un massimo di trenta miliardi di dollari, e se il Pentagono avesse invece disposto l’acquisto dei velivoli avrebbe risparmiato almeno sei miliardi. Il senatore dell’Arizona ingaggiò battaglia per dimostrare che quel “regalo” alla Boeing puzzava di bruciato, e nel 2004 riuscì a provare che dietro quello sperpero c’era una vicenda di corruzione. Con una teatralità degna di una fiction hollywoodiana, si presentò in aula e diede lettura di tutte le email che i funzionari prezzolati del Pentagono si erano scambiati con i lobbisti della Boeing per concordare l’affare. Alla fine la “sua” inchiesta fece saltare quell’accordo, che egli definì “una delle grandi truffe nella storia degli Stati Uniti d’America”, e che costò la galera ad alcuni funzionari del Pentagono e il licenziamento per svariati manager della Boeing.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Si potrebbe proseguire a lungo: il McCain coautore, con il Democratico di sinistra Russ Feingold, della legge che, per contenere il ruolo delle lobby, del big business e dei sindacati, aveva limitato drasticamente l’entità dei finanziamenti che i privati possono versare nelle campagne elettorali – legge poi pesantemente falcidiata dalla Corte Suprema; il McCain protagonista della battaglia parlamentare per mettere al bando il <em>waterboarding</em>, l’annegamento simulato impiegato nelle prigioni della CIA per estorcere confessioni ai sospetti terroristi; il McCain ostinato sponsor della proposta di legge che avrebbe concesso una sanatoria una tantum ad ognuno dei milioni di immigrati clandestini presenti negli USA dal almeno 5 anni, a patto però che il clandestino si facesse schedare, pagasse le tasse arretrate e una multa di 3.000 dollari, e passasse un esame di lingua inglese – mai approvata nonostante l’allora presidente Bush l’avesse sostanzialmente fatta propria; il McCain unico sponsor del <em>surge</em> in Iraq nel 2006 e nel 2007, quando tutti parlavano solo di battere la ritirata il più in fretta possibile, dapprima danneggiato da questa sua posizione impopolare, poi alla lunga premiato dalle buone notizie che arrivarono da Bagdad proprio all’inizio delle primarie presidenziali del 2007.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Mi sembra giusto guardarsi ora dalla tentazione di etichettarlo come un romantico grande sconfitto, uno che aveva il coraggio di sposare le cause perse e di battersi senza mai cedere alla tentazione di imboccare scorciatoie. Sarebbe sbagliato, per almeno due ragioni.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La prima è che sarebbe sciocco idealizzarlo come un santo. Come spesso accade a chi è uomo di azione più che di pensiero e a chi diventa avvezzo al rischio, McCain ha preso anche importanti cantonate, e spesso lo ha fatto proprio quando ha deviato dal suo tanto celebrato rigore: dal primo episodio alla fine degli anni Ottanta, quando si lasciò sporcare dallo scandalo dei “Keating Five”, una storia di favori al magnate Charles Keating, finito in carcere per truffa dopo aver distribuito mazzette, allo scivolone finale del “dossier Steele”, quando subito dopo l’elezione di Trump si prestò a fare da buca delle lettere consegnando al direttore dell’FBI una serie di informazioni taroccate su asserite collusioni fra il neo presidente e il Cremlino, messe assieme – si sarebbe poi appreso - su commissione del Team Clinton, e passategli da un ex diplomatico del quale avrebbe fatto bene a diffidare, facendo leva non solo sulla sua nota inimicizia nei confronti di Trump, ma ancor più su quella, ben più risalente, nei confronti di Putin, contro il quale McCain si è battuto come pochi nell’ultimo ventennio.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La seconda ragione è che McCain non è stato affatto uno che pur di tenere la schiena dritta ha collezionato per lo più sconfitte: al contrario, la sua carriera è fatta soprattutto di vittorie, dai 35 anni di ininterrotte elezioni al Congresso, alla sua rocambolesca vittoria alle primarie del 2008. La stessa sconfitta contro Obama andrebbe ricordata più per quanto egli si era riuscito ad avvicinare ad una vittoria apparentemente impossibile (a questo tema ho dedicato una separata analisi ieri su <a href="https://www.forbes.it/sites/it/2018/08/28/john-mccain-presidenziali-obama-sconfitto-vittorie/#7ef595cc0d2f" style="color: #0088cc; text-decoration-line: none;" target="_blank">Forbes Italia</a>).</span></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<iframe allowfullscreen="" class="YOUTUBE-iframe-video" data-thumbnail-src="https://i.ytimg.com/vi/NvgqRKYapU8/0.jpg" frameborder="0" height="266" src="https://www.youtube.com/embed/NvgqRKYapU8?feature=player_embedded" width="320"></iframe></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Ciò nonostante mi ha fatto piacere, in questi giorni, vedere come uno dei ricordi più condivisi in rete sia stato il filmato del <em>concession speech</em> che McCain pronunciò nella notte del 5 novembre 2008, subito dopo aver appreso della sua sconfitta contro Obama. Trovo che quel filmato andrebbe mostrato nelle scuole, per mostrare cos’è la leadersip. Osservate il momento iniziale, quando dice “<i>Poco fa ho avuto l’onore di telefonare al senatore Barack Obama per congratularmi con lui</i>”: partono i booooo, e lui mette le mani avanti alzando le braccia all’altezza delle spalle (di più non poteva, a causa delle torture in Vietnam), ammonendo i suoi elettori con un garbato ma fermo please. La folla esita, lui riprende: <i>“…congratularmi con lui per essere stato eletto come nuovo presidente della nazione che entrambi amiamo”. </i>Piccolissima pausa. Riparte qualche boooo: molti meno di prima, però. Lui alza la mano destra in segno di “stop”, tipo vigile urbano.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">A quel punto spicca il volo con il riconoscimento del valore storico insito nella prima elezione di un afroamericano alla Casa Bianca, con il ricordo di quando il suo idolo, il presidente Teddy Roosevelt, venne criticato per avervi ricevuto il militante per i diritti dei neri Booker T. La folla – la stessa folla che prima fischiava – ora ascolta in religioso silenzio. Le telecamere inquadrano molti volti, tutti – dal primo all’ultimo – bianchi. <i>“Un mondo intero separa l’America di oggi” prosegue fiero “dalla crudele e spaventosa bigotteria di quel tempo. E di questo non potrebbe esserci miglior conferma dell’elezione di un afroamericano alla presidenza degli Stati Uniti”. </i></span><br />
<span style="font-family: inherit;">A questo punto partono timidamente i primi applausi. Gli ultimi saranno scroscianti.</span><br />
<span style="font-family: inherit;"> Ecco cosa è un leader: una persona capace di raccogliere il consenso sfidando la folla, non seguendola; portandola (<em>leading</em>) altrove rispetto alla direzione verso la quale la folla stava premendo, anziché limitarsi a cavalcarne gli umori, solleticandoli. Ecco perché un vero leader è l’antitesi di un populista.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Tutto questo, si noti, senza concedere nulla all’avversario, mantenendo dritta la barra del suo ruolo di leale ma implacabile oppositore, quale McCain è poi stato nei confronti di Obama per tutta la durata della sua presidenza (basti ricordare la campagna che egli, inizialmente pressochè da solo, poi a poco a poco seguito da un numero crescente di senatori, ingaggiò nel 2012 per impedire che il presidente, appena rieletto, rimpiazzasse Hillary al Dipartimento di Stato con la sua amica Susan Rice, battaglia per la quale “sulla carta” McCain non aveva i numeri e che invece alla fine vinse, costringendo Obama ad abbandonare la Rice e a nominare invece il più moderato John Kerry).</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nell’aprire qui su Strade la riflessione sulla scomparsa di una figura come quella di McCain, <a href="https://www.stradeonline.it/istituzioni-ed-economia/3626-responsabilita-e-comunita-la-splendida-lezione-di-john-mccain" style="color: #0088cc; text-decoration-line: none;" target="_blank">Giordano Masini</a> mi ha spinto a riflettere se ciò cui stiamo assistendo sia l’estinzione dell’ultimo della sua specie, di un personaggio che non potrà più tornare: se si tratti – sono parole sue – di una figura simile a quella di Cheyenne che nel finale di “C’era una volta il West” cavalca via e va a morire mentre arriva la ferrovia e con essa una modernità cui egli non poteva appartenere. Io voglio credere di no. Voglio credere che di anomalie paragonabili a John McCain – che proprio oggi avrebbe compiuto 82 anni - ne vedremo altre. Ovviamente fuori posto, proprio perché controcorrente.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il suo essere un <em>maverick</em>, del resto, è stata la sua forza, non il suo limite. Non è da tutti. “<a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Absolutely_Sweet_Marie" style="color: #005580; outline-offset: -2px; outline: 0px;" target="_blank">Per vivere al di fuori della legge devi essere onesto</a>”, cantava Dylan in un brano di quegli anni là, quelli in cui c’era chi si avviava verso la<em> Summer of Love</em> e chi, invece verso l’ennesimo volo su Hanoi.<br /><br /><i>Uscito su <a href="https://www.stradeonline.it/istituzioni-ed-economia/3634-john-mccain-c-era-una-volta-l-ovest?fbclid=IwAR0L5MS5mOneYzu3rTymKnJo1bdnwdR15xAzY5pPgqXmZUQOKyua3cfqrSU">Strade</a></i></span></div>
Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-33233445346117537182018-11-06T11:23:00.000+01:002018-11-06T11:23:36.840+01:00JOHN MCCAIN, VINCENTE<div style="background-color: white; box-sizing: inherit; color: #505050; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiORFtobj5ezqyJrC2JBDAA4r7gmCBAndl5T1z0JxShMm8z0RsHoztzfpS3V_Z1hU_a67gwIOjEQ0OhPMS3GetXRZvxJMV00tvsBHyvh5S9azP8yHbckXwLOblH6VZjasTmOn0bGYBUNX0/s1600/mccain.getin.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="360" data-original-width="540" height="266" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiORFtobj5ezqyJrC2JBDAA4r7gmCBAndl5T1z0JxShMm8z0RsHoztzfpS3V_Z1hU_a67gwIOjEQ0OhPMS3GetXRZvxJMV00tvsBHyvh5S9azP8yHbckXwLOblH6VZjasTmOn0bGYBUNX0/s400/mccain.getin.jpg" width="400" /></a></div>
<span style="font-family: inherit;">La legge dello Stato dell’Arizona stabilisce che, quando uno dei due senatori del <em style="box-sizing: inherit;">Grand Canyon State</em> venga a mancare durante il proprio mandato, il governatore dello Stato nomini un Senatore ad interim, appartenente allo stesso partito, fino alla prima scadenza elettorale utile. Il seggio che <span style="box-sizing: inherit; font-weight: bolder;">John McCain</span> ha appena lasciato vacante verrà quindi riassegnato in questo modo sino alle elezioni del novembre 2020, per poi eleggere democraticamente un senatore, che comunque rimarrà in carica solo fino a quella che sarebbe stata la scadenza naturale dell’ultimo mandato di McCain, cioè novembre del 2022.</span></div>
<div style="background-color: white; box-sizing: inherit; color: #505050; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Lui, McCain, invece non aveva mai beneficiato di alcuna comoda cooptazione: il suo posto al Congresso se lo era sempre guadagnato sul campo. Nel 1987, si sente spesso dire, aveva “ereditato” il seggio al Senato dal mitico Barry Goldwater, il conservatore antistatalista uscito sconfitto dalle presidenziali del 1964 contro Lyndon Johnson, ma che aveva seminato il germe di quella rivoluzione reaganiana alla quale McCain aveva nel suo piccolo preso parte con la prima elezione alla Camera, nel 1982 (fresco di trasferimento in quell’Arizona che diventerà il “suo” Stato). Ma Goldwater non era venuto a mancare: era semplicemente andato in pensione dopo aver terminato il mandato, lasciando libero un seggio da contendere alle urne.</span></div>
<div style="background-color: white; box-sizing: inherit; color: #505050; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">In queste ore in cui l’America e tutti i media occidentali si uniscono nel rendere omaggio all’eroe di guerra che sabato sera ha perso la sua ultima battaglia, quella contro il cancro al cervello (lo stesso presidente Trump, dopo aver inizialmente limitato al minimo sindacale la bandiera a mezz’asta sulla Casa Bianca – incattivito dalla profonda inimicizia che aveva diviso i due – ha poi ceduto ad un raro dietrofront proclamando ieri sera il ripristino del segno di rispetto sino ai funerali di McCain), può sembrare superfluo rivangare questi dettagli. Ma la questione è fondamentale: McCain è stato un grande “solo” perché ha saputo essere grande nella sconfitta (o meglio, perché ha saputo rinunciare alla vittoria pur di non cedere al “gioco sporco”) oppure ha saputo essere anche un vincitore? Stiamo parlando di un uomo politico: sarebbe assurdo misurarne la grandezza solo sullo stile e sulla moralità dimostrati nel perdere le elezioni.</span></div>
<div style="background-color: white; box-sizing: inherit; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px;">
</div>
<div style="color: #505050; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Forse quando nel 2015 l’allora aspirante candidato Donald Trump</span><span style="font-family: inherit;"> </span><a href="https://www.politico.com/story/2015/07/trump-attacks-mccain-i-like-people-who-werent-captured-120317" rel="noopener noreferrer" style="background-color: transparent; box-sizing: inherit; color: #003891; font-family: inherit; text-decoration-line: none;" target="_blank">dichiarò</a><span style="font-family: inherit;"> </span><span style="font-family: inherit;">di non considerare McCain un eroe di guerra perché “si fece catturare, mentre a me piacciono quelli che non si fanno catturare”, stava facendo qualcosa di più che dare in pasto ai propri simpatizzanti uno slogan per smarcarsi da un detrattore autorevole. Trump stava lanciando una candidatura presidenziale basata su regole molto diverse da quelle tradizionali: tra l’altro, sulla convinzione che “there is no bad publicity”, che la buona reputazione è molto sopravvalutata e che per conquistare la prima fila serve spararle grosse, senza troppe remore, ben più che dar prova di signorilità. In buona sostanza, volete un candidato che sappia dimostrare onore, virtù, rettitudine, coerenza, ma poi alla fine esca onorevolmente trombato (come accadde a McCain nel 2008 contro Obama), o preferite uno che se ne frega di questi fronzoli ma che, anche per questo, sa portare a casa la sospirata vittoria? Quell’interrogativo, a distanza di tre anni, ancora aleggia, persino dalle nostre parti:</span></div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<blockquote class="twitter-tweet" data-lang="it">
<div dir="ltr" lang="it">
Migliaia di ricordi che giustamente rimarcano che McCain prendeva the high road, nessuno che osi la logica conclusione «e infatti le elezioni le perdeva»</div>
— Guia Soncini (@lasoncini) <a href="https://twitter.com/lasoncini/status/1033691046314684416?ref_src=twsrc%5Etfw">26 agosto 2018</a></blockquote>
<script async="" charset="utf-8" src="https://platform.twitter.com/widgets.js"></script>
<span style="color: #505050;"><br /></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="color: #505050; font-family: inherit;">Le sconfitte elettorali di McCain sono solo due: alle primarie presidenziali del 2000, e alle presidenziali del 2008. Nel primo caso venne sconfitto da </span><span style="box-sizing: inherit; color: #505050; font-family: inherit; font-weight: bolder;">George W. Bush</span><span style="color: #505050; font-family: inherit;">, il quale venne sostenuto dal partito con ogni mezzo. Gli appassionati di fake news che le considerano un fenomeno recente farebbero bene ad andarsi a rileggere la storia di quelle elezioni di diciotto anni fa, durante le quali su internet (un internet ancora privo di social network) venne diffusa la diceria secondo cui il senatore dell’Arizona aveva qualche rotella fuori posto a causa delle sevizie patite durante la prigionia in Vietnam (evocando perfidamente la versione originale del film</span><span style="color: #505050; font-family: inherit;"> </span><em style="box-sizing: inherit; color: #505050; font-family: inherit;">The Manchurian Candidate</em><span style="color: #505050; font-family: inherit;"> </span><span style="color: #505050; font-family: inherit;">del 1962, quella nel quale un sergente americano – interpretato da Frank Sinatra – veniva fatto prigioniero durante la guerra in Corea, sottoposto dai comunisti a un fantascientifico lavaggio del cervello, e in tal modo “programmato” per assassinare il presidente degli Stati Uniti una volta liberato e rimpatriato come eroe di guerra).</span></div>
<span style="color: #505050; font-family: inherit;">
</span><br />
<br />
<div style="background-color: white; box-sizing: inherit; color: #505050; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">E allora forse è giusto ricordare anche questo: che no, John McCain <span style="box-sizing: inherit; font-weight: bolder;">non è stato “uno che le elezioni le perdeva”</span>. È stato, innanzitutto, uno che è riuscito a farsi eleggere al Congresso ininterrottamente per trentacinque anni, dal 1982 al 2017, una volta alla Camera e ben sei volte consecutive al Senato. L’Arizona non è il Mississippi, né l’Alabama, né il South Carolina: è uno Stato che nemmeno negli anni recenti di “marea rossa” compare fra i primi dieci – ma neanche fra i primi venti – nelle classifiche degli stati ideologicamente più conservatori. Ed è, inoltre, uno Stato nel quale circa un terzo degli elettori registrati per votare non sono affiliati né al Partito repubblicano né a quello Democratico. Si tratta, insomma, di uno Stato nel quale l’elezione per un candidato repubblicano non è affatto scontata: va conquistata realmente, ogni volta. Tant’è che l’altro seggio senatoriale dello Stato, quando McCain subentrò a Goldwater, era saldamente detenuto da un Democratico, l’avvocato italoamericano Dennis DeConcini.</span></div>
<div style="background-color: white; box-sizing: inherit; color: #505050; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Particolarmente degna di nota è soprattutto la rielezione di McCain nel 2010, quando venne sfidato alle primarie da un popolare conduttore di talk show radiofonici sostenuto dal movimento populista dei Tea Party, che in quel periodo sembrava essere la realtà più vincente nella destra americana. Allora 74enne e reduce dalla sconfitta alle presidenziali, McCain riuscì comunque a non farsi strappare la candidatura, e venne rieletto con ampio margine.</span></div>
<div style="background-color: white; box-sizing: inherit; color: #505050; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Dopo il botto di McCain alle primarie del New Hampshire, il Team Bush, capitanato dal famigerato <span style="box-sizing: inherit; font-weight: bolder;">Karl Rove</span>, pur di impedirgli il bis in South Carolina dove i sondaggi lo davano nuovamente in testa, fece ricorso ai cosiddetti “push polls”: telefonate camuffate da sondaggi e mirate in realtà a diffondere calunnie (“se lei sapesse che il senatore McCain ha una figlia illegittima avuta da una donna di colore, sarebbe più incline o meno incline a votarlo?”; e la fantasia dell’intervistato era suggestionata dal fatto che McCain aveva in effetti una figlia di colore, in realtà adottiva e nient’affatto illegittima).</span></div>
<div style="background-color: white; box-sizing: inherit; color: #505050; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La sconfitta di McCain alle primarie del 2000 va poi necessariamente valutata assieme alla sua vittoria alle primarie del 2008. Il tema più caldo era la <span style="box-sizing: inherit; font-weight: bolder;">guerra in Iraq</span>. McCain aveva sempre contestato duramente l’impostazione della “guerra leggera” di Donald Rumsfeld, giudicandola sufficiente ad abbattere rapidamente il regime di Saddam ma non a gestire il dopoguerra. Nel 2006, anno di elezioni di <em style="box-sizing: inherit;">midterm</em>, si affacciava l’incubo di un “nuovo Vietnam” e come uscire alla svelta da quel pantano pareva essere l’unica questione realmente all’ordine del giorno. McCain era praticamente l’unico politico a scommettere pubblicamente sul cosiddetto <em style="box-sizing: inherit;">surge</em>, cioè sull’invio di molte più truppe. “Non crede che sostenere il <em style="box-sizing: inherit;">surge</em> possa distruggere la sua campagna elettorale?”, gli domandò Larry King, il celebre intervistatore della Cnn. “Preferirei perdere le elezioni che la guerra”, rispose lui. Venne rieletto al Senato, ma subito dopo dovette misurarsi con le primarie presidenziali, a pochi mesi dall’inizio delle quali la sua campagna pareva già in crisi, prima ancora di cominciare, per mancanza di fondi e sondaggi deludenti.</span></div>
<div style="background-color: white; box-sizing: inherit; color: #505050; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Molti commentatori cominciarono a sentenziare che si era suicidato con il suo ostinato appoggio al <em style="box-sizing: inherit;">surge</em>. Alcuni puntavano il dito anche contro la sua battaglia per la legalizzazione degli immigrati clandestini, invisa a molti elettori repubblicani. Nella primavera del 2007, quando il <em style="box-sizing: inherit;">surge</em> ebbe inizio, credere in un suo successo sembrava follia. Eppure proprio allora, nel momento peggiore, McCain sfidò a mani nude l’impopolarità del conflitto, tenendo – con al suo fianco veterani del Vietnam ed ex prigionieri di guerra – una serie di comizi all’insegna dello slogan <em style="box-sizing: inherit;">No Surrender</em> (“Non mollare”, riferibile alla presenza in Iraq ma anche alla sua candidatura alle primarie). Durante l’estate, eminenti membri del suo staff si dimisero: tra questi Terry Nelson, che aveva diretto la campagna per la rielezione di Bush nel 2004 e che McCain aveva a sua volta ingaggiato come campaign manager, e John Weaver, lo spin doctor texano che era stato il suo principale stratega elettorale fin dal 1999 (veniva spesso definito come uno che “sta a McCain come Karl Rove sta a Bush”). Ma proprio alla vigilia delle primarie, cominciarono ad arrivare buone notizie dall’Iraq. E come ben sappiamo, le primarie quella volta McCain le vinse.</span></div>
<div style="background-color: white; box-sizing: inherit; color: #505050; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Rimane, certo la sconfitta che poi riportò nell’elezione generale, contro Obama. Non va però dimenticato che McCain si candidava alla Casa Bianca dopo che per otto anni il suo inquilino era stato George W. Bush. Quell’elezione appariva fuori della portata del candidato repubblicano: di <em style="box-sizing: inherit;">qualunque</em> candidato repubblicano. Mantenere lo stesso colore politico alla Casa Bianca per tre mandati consecutivi è un’impresa quasi impossibile e riuscita, nell’ultimo mezzo secolo, solamente una volta: nel 1988, quando Bush padre succedette ai due mandati di Reagan. Ma allora l’amministrazione uscente (nel suo momento peggiore, dopo lo scandalo Iran-Contras) rasentava il 60% dei consensi, ed esserle “contigua” era un punto di forza decisivo. McCain, al contrario, nel 2008 subiva come un handicap letale la contiguità all’amministrazione Bush.</span></div>
<div style="background-color: white; box-sizing: inherit; color: #505050; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Se c’è qualcosa di veramente notevole nell’impresa condotta da McCain nel 2008 non è la mancata elezione, ma semmai il fatto di esserci andato, nonostante tutto, così vicino. Contrariamente al luogo comune, all’indomani della convention nazionale in Minnesota, alla quale era stata annunciata la scelta di Sarah Palin come candidata alla vicepresidenza, McCain aveva guadagnato consensi soprattutto fra i cosiddetti elettori indipendenti fra i quali, secondo la Gallup, era schizzato in testa con un impressionate vantaggio di ben quindici punti. Al contempo, la sua popolarità tra gli elettori democratici che si qualificavano come più centristi era salita al 25%, mentre prima della convention era al 15. Nella prima metà del mese di settembre, il prodigio era apparso possibile. Dopodiché, il 15 settembre del 2008, come un fulmine piovve dal cielo il fallimento della Lehman Brothers.</span></div>
<div style="background-color: white; box-sizing: inherit; color: #505050; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Ed è questo il vero spartiacque di quella corsa alla Casa Bianca. “Il giorno in cui la Lehman è fallita mi trovavo in compagnia di un amico che lavora per Obama. Non ci mise molto a mettere a fuoco cosa stava accadendo. “Terribile per l’America”, disse, “ma grandioso per la nostra campagna elettorale”<i style="box-sizing: inherit;">, </i>ha scritto<i style="box-sizing: inherit;"> </i>Gideon Rachman sul <em style="box-sizing: inherit;">Financial Times</em> il 10 novembre 2008). E sul <span style="box-sizing: inherit;">rapporto finale della Gallup sulle presidenziali del 2008 si legge:</span></span></div>
<blockquote style="background-color: white; box-sizing: inherit; color: #505050; font-style: italic; font-weight: bold; line-height: 1.5; margin: 30px 0px; text-align: center; width: 496.4px;">
<blockquote class="tr_bq" style="box-sizing: inherit; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">McCain aveva repentinamente invertito la corrente ai primi di settembre. Si era portato in testa immediatamente dopo la convention repubblicana e gli acclamatissimi discorsi di accettazione della candidatura, il suo e quello della sua candidata vice Sarah Palin. A quel punto, McCain aveva provato il suo vantaggio più duraturo: 10 giorni, dal 7 al 16 di settembre. Il suo vantaggio si è interrotto improvvisamente con la crisi di Wall Street di metà settembre<em style="box-sizing: inherit;">.</em></span></blockquote>
</blockquote>
<div style="background-color: white; box-sizing: inherit; color: #505050; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">I dati che riflettono l’importanza di questa sliding door sono molti e di varia provenienza: “I dati della rilevazione quotidiana di Rasmussen reports sulle presidenziali mostrano che Obama è passato in testa nei 10 giorni successivi al collasso della Lehman Brothers – quando il crollo di Wall Street è stato avvertito dall’uomo della strada. Prima di quell’evento, John McCain era avanti di tre punti nel sondaggio nazionale. Dieci giorni dopo, Obama era passato avanti di cinque e non ha più mollato il suo vantaggio”, si leggeva a novembre di quell’anno sul Wall Street Journal.</span></div>
<div style="background-color: white; box-sizing: inherit; color: #505050; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Alla fine è stato l’allora vicepresidente Joe Biden a riconoscere l’accaduto, cinque anni fa <a href="https://www.cbsnews.com/news/biden-but-for-2008-economic-collapse-mccain-would-probably-have-won/" rel="noopener noreferrer" style="background-color: transparent; box-sizing: inherit; color: #003891; text-decoration-line: none;" target="_blank">durante un incontro pubblico</a> con McCain: “Di fatto la verità è che – lo sa Barack e lo so pure io – se la situazione economica non ti fosse franata in testa, John…. Penso che probabilmente avresti vinto tu”.<em style="box-sizing: inherit;"><br /><br />Uscito su <a href="https://forbes.it/2018/08/28/ma-quale-sconfitto-con-onore-john-mccain-era-un-vincente/">Forbes</a></em></span></div>
Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-63944646727352815692018-11-06T11:14:00.002+01:002018-11-06T11:16:03.487+01:00BILL CLINTON E IL PRESIDENTE SCOMPARSO<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEijFV5mk5EzHJofo0-uLRRW_t9SdiN2wAa3CzqvNGneJ-IYlS-ebUq9ymxtIJOyQf-0bfPVFIR3c7zcWoDPGipE-G7m6dbfO5n3peKChnYTfekRQ6EqV2fdkaSzbf-C_qeO4W9OBLx4Fc4/s1600/presidentismissing.png" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="606" data-original-width="1600" height="151" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEijFV5mk5EzHJofo0-uLRRW_t9SdiN2wAa3CzqvNGneJ-IYlS-ebUq9ymxtIJOyQf-0bfPVFIR3c7zcWoDPGipE-G7m6dbfO5n3peKChnYTfekRQ6EqV2fdkaSzbf-C_qeO4W9OBLx4Fc4/s400/presidentismissing.png" width="400" /></a></div>
<div style="background-color: white; box-sizing: inherit; color: #505050; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
</div>
<blockquote class="tr_bq">
<span style="font-family: inherit;"><i>“Una delle poche lezioni su cui biologia e storia combaciano è che tutti, uomini e animali, dalle più rudimentali forme di vita agli organismi più sofisticati, preferiscono obbedire anziché decidere. Colpisci il capo e il resto del branco si farà prendere dal panico”. </i></span></blockquote>
<span style="font-family: inherit;">Questo passo non è tratto da un saggio. È parte di un romanzo giallo, ma non uno qualunque. Sulla copertina fanno bella mostra di sé due nomi, stampati in caratteri ancora più grandi di quelli utilizzati per il titolo, dato che sono nomi pesantissimi. Uno è quello di <span style="box-sizing: inherit; font-weight: bolder;">James Patterson</span>, il giallista più venduto (e più pagato) al mondo. Ma non è quello che compare per primo: a precederlo svetta quello del 42esimo presidente degli Stati Uniti. Di <span style="box-sizing: inherit; font-weight: bolder;">Bill Clinton</span> si conosceva il debordante talento oratorio (“il suo fascino è irresistibile come le onde dell’oceano, ma vuoto, senza contenuti” disse di lui un altro grande autore di thriller, il reaganiano Tom Clancy), ed è stata immensa la popolarità nel recente passato (fino a pochi anni fa – prima che la candidatura presidenziale di Hillary rompesse l’idillio – giravano sondaggi a tema “ex presidente preferito” nei quali lui superava il 40%, e fra gli altri nomi in lista nessuno raggiungeva nemmeno il 20), ma come romanziere è un debuttante (essendo, del resto, la prima volta nella storia che un ex presidente si cimenta in una simile impresa).</span><br />
<div style="background-color: white; box-sizing: inherit; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Patterson, al contrario, ha all’attivo più di 150 libri, di molti dei quali ha creato più che altro il “soggetto”, delegandone poi buona parte della scrittura finale a un team di collaboratori. Le sue trovate sono quasi tutte rivolte alla trama e al profilo dei personaggi; la stesura vera e propria la lascia ad altri. Anche per questo i suoi libri sono tanto snobbati dalla critica: ma di questo ai lettori non potrebbe fregare di meno. Un caso che calza a pennello in questi anni di dicotomia popolo/élite, insomma. Le vendite dei suoi romanzi superano quelle di John Grisham, Stephen King e Dan Brown messe assieme. Nel 2010, Patterson è stato il primo autore a vendere più di un milione di ebook.<span style="color: #505050;"><br /></span>Ai tempi di Barack Obama, viceversa, esaurita la pazienza e la fiducia nei confronti del giovane volto nuovo – amato proprio perché inesperto, così à la page e così prodigo di bei discorsi – la rivisitazione americana di <em style="box-sizing: inherit;">House of Cards</em> ha avuto un successo cui quella originale britannica degli anni ’90 non si era potuta nemmeno avvicinare. Una fiction basata sulla disillusione e sul cinismo, esibiti in modo quasi liberatorio, sull’ostentazione dell’idea che chi comanda arriva al potere grazie a una ferocia sanguinaria e a una spregiudicatezza <span style="box-sizing: inherit;">luciferina</span>. Ovvero l’antitesi, o forse lo “smascheramento” della pia illusione coltivata in <em style="box-sizing: inherit;">The West Wing</em>.<span style="color: #505050;"><br /></span></span></div>
<br />
<div style="background-color: white; box-sizing: inherit; color: #505050; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><a href="http://www.longanesi.it/libri/bill-clinton-il-presidente-e-scomparso-9788830450523/" rel="noopener noreferrer" style="background-color: transparent; box-sizing: inherit; color: #003891; text-decoration-line: none;" target="_blank"><em style="box-sizing: inherit;">Il Presidente è scomparso</em></a> – così si intitola il libro firmato da questa strana coppia – è appena uscito in tutto il mondo (in Italia per Longanesi), e per molti versi non si discosta dai precedenti lavori di Patterson. La vicenda è narrata in prima persona dal punto di vista del protagonista, come nel caso del suo personaggio prediletto Alex Cross (che appare in ben 26 romanzi) o di Michael Bennett (una decina). Stavolta, però, il protagonista non è un detective bensì Jonathan Lincoln Duncan, un immaginario presidente degli Stati Uniti alle prese con una gravissima e inedita minaccia terroristica, che affronta in modo a dir poco eterodosso, “scomparendo” dalla Casa Bianca ed avventurandosi in un’impresa individuale degna della più tradizionale mitologia americana.</span></div>
<div style="background-color: white; box-sizing: inherit; color: #505050; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Che la tecnica narrativa sia efficacissima, che i colpi di scena si sprechino, che il ritmo risulti serrato, è tutto sommato scontato, per chi ha consuetudine con i libri di Patterson; così come è usuale che il giallista non abbia scritto il libro da solo. Decisamente insolito è, invece, si diceva, il fatto che ad affiancarlo nella creazione stavolta sia stato un ex presidente – il quale conosce come poche persone al mondo i segreti e i dettagli della Casa Bianca. Il risultato è godibilissimo, soprattutto per chi oltre ai thriller di Patterson avesse amato serie tv come <em style="box-sizing: inherit;">24</em> o <em style="box-sizing: inherit;">Homeland</em>. Non a caso, anche questa storia è destinata a essere trasposta in un titolo per il piccolo schermo, del quale il canale Showtime si è già aggiudicato i diritti. Trasformare il libro in una sceneggiatura a episodi non richiederà grandi sforzi: sembra scritto apposta (e probabilmente un po’ lo è davvero).</span></div>
<div style="background-color: white; box-sizing: inherit; color: #505050; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Naturalmente, l’opera prima clintoniana è consigliatissima non solo agli amanti dei gialli, ma anche ai patiti di politica americana. In realtà, a guardar bene negli ultimi decenni è stata la fiction a raccontare la vita pubblica americana meglio di qualsiasi altra cosa.</span></div>
<div style="background-color: white; box-sizing: inherit; color: #505050; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">L’America di fine anni ’90 reduce dalla presidenza del futuro giallista Bill Clinton, coccolata da anni di grassa crescita economica ma anche indignata dagli scandali e dalle ipocrisie che avevano invaso le cronache politiche di quegli anni, aveva eletto alla Casa Bianca un <em style="box-sizing: inherit;">simple man</em> che aveva ben governato il Texas, <span style="box-sizing: inherit; font-weight: bolder;">George W. Bush</span> (e pareva convinto che governare gli Stati Uniti fosse più o meno la stessa cosa); ma l’epoca nella quale il Paese si è risvegliato di lì a poco si è invece rivelata tragicamente difficile. Mentre la affrontavano – governati da un presidente ingenuo – gli americani si sono innamorati della serie tv <em style="box-sizing: inherit;">The West Wing</em>, che celebrava pedagogicamente i più edificanti modelli di un politica nobile e virtuosa (come aveva smesso di apparire durante l’era Clinton) ma anche affidata a uomini di straordinaria competenza, scelti per il loro acume e per la loro saggezza (non esattamente il ritratto di Bush). Il genio di Aaron Sorkin, il creatore della serie, aveva pensato il personaggio di Jed Bartlet, il democratico che l’America non aveva, già premio Nobel per l’Economia, ex governatore del New Hampshire, intelligentissimo e spiritoso, contraddistinto da un’integrità morale al limite della santità e minato fisicamente dalla sclerosi multipla.</span></div>
<div style="background-color: white; box-sizing: inherit; color: #505050; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Riuscirà il presidente Duncan plasmato dal dinamico duo Patterson-Clinton a catalizzare l’immaginario e le frustrazioni dell’America ai tempi di Trump? In attesa di capirlo, è interessante osservare su quali caratteristiche i due hanno puntato. Il loro presidente è un ibrido tra il Jed Bartlet di <em style="box-sizing: inherit;">The West Wing</em> e il Jack Bauer di <em style="box-sizing: inherit;">24</em>: veterano di guerra; reduce dalla perdita dell’amatissima moglie per colpa del cancro; minato lui stesso da una malattia del sangue, ma molto più intraprendente – anche fisicamente – della maggior parte delle persone clinicamente sane; circondato da tanti piccoli Frank Underwood, ma più forte di loro proprio perché più onesto e moralmente più saldo.</span></div>
<div style="background-color: white; box-sizing: inherit; color: #505050; margin-bottom: 15px; margin-top: 15px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La parte più sintomatica sta forse in ciò che Clinton e Patterson hanno scelto di lasciare fuori dalla porta. Più che sull’assenza del sesso, che tanto ha colpito <a href="https://www.newyorker.com/magazine/2018/06/18/bill-clinton-and-james-pattersons-concussive-collaboration" rel="noopener noreferrer" style="background-color: transparent; box-sizing: inherit; color: #003891; text-decoration-line: none;" target="_blank">il recensore del <em style="box-sizing: inherit;">New Yorker</em></a> – il quale evidentemente era a caccia di assonanze con la vicenda personale di Clinton – è forse più utile soffermarsi sulla totale assenza, in cinquecento pagine di romanzo, della parola “<span style="box-sizing: inherit; font-weight: bolder;">Twitter</span>”. Il presidente Duncan vive ed agisce in una realtà contemporanea (affrontando i russi, l’Isis, i turchi, gli hacker), ma alternativa rispetto a quella che stiamo vivendo. Una realtà nella quale internet conta moltissimo, persino troppo, eppure sembra non esistere alcun social network, non solo per lui (che deve occuparsi di cose più serie) ma anche per tutti gli altri personaggi. Una dimensione nella quale i politici comunicano ancora con il popolo tramite la televisione, come vent’anni fa, senza scavalcare la mediazione dei giornalisti, e quando parlano direttamente “alla gente” lo fanno con lunghe orazioni, non con messaggini troppo telegrafici per concedere spazio alla retorica. Una realtà “pre-trumpiana” più che “anti-trumpiana”, che – oltre alla nostalgia per un presidente antitetico a quello attuale – sembra trasudare anche la nostalgia per una politica regolata da certe dinamiche e fisiologie. Cose – queste sì – che oggi sembrano scomparse.<br /><br /><i>Uscito su <a href="https://forbes.it/2018/11/06/elon-musk-spazio-marte-spacex-tesla/">Forbes</a></i></span></div>
Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-34400692544866139202018-02-20T09:09:00.001+01:002018-02-20T09:22:38.387+01:00THAT'S MALL, FOLKS<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjSyLFRPFc8wZusP9AwTrSsRf-gbQeIuo5oseMm6OdMX-toZ0amOjkyJv14nenupiQWXPhL5HNQGkvE9dvbLHlYM1Qsf4x0F5fIdbI3nU3o30PwtbZGPxvPwRRoIefuRY-YEQn5Bki4lPU/s1600/mall.webp" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="720" data-original-width="1280" height="180" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjSyLFRPFc8wZusP9AwTrSsRf-gbQeIuo5oseMm6OdMX-toZ0amOjkyJv14nenupiQWXPhL5HNQGkvE9dvbLHlYM1Qsf4x0F5fIdbI3nU3o30PwtbZGPxvPwRRoIefuRY-YEQn5Bki4lPU/s320/mall.webp" width="320" /></a></div>
<div style="-webkit-margin-after: 0px; -webkit-margin-before: 0px; -webkit-padding-start: 0px; background-color: white; border: 0px; box-sizing: border-box; font-family: Georgia, "Times New Roman", Times, serif; font-stretch: inherit; font-variant-east-asian: inherit; font-variant-numeric: inherit; line-height: 1.4em; margin-bottom: 1em; margin-top: 1em; padding: 0px; text-align: justify; vertical-align: baseline;">
La prima volta che visitai gli Stati Uniti, una delle esperienze che mi presero più alla sprovvista fu la visita a uno <em style="border: 0px; box-sizing: border-box; font-family: inherit; font-stretch: inherit; font-variant: inherit; font-weight: inherit; line-height: inherit; margin: 0px; padding: 0px; vertical-align: baseline;"><span style="border: 0px; box-sizing: border-box; font-family: inherit; font-stretch: inherit; font-style: inherit; font-variant: inherit; font-weight: 700; line-height: inherit; margin: 0px; padding: 0px; vertical-align: baseline;">shopping mall</span>.</em>Un piccolo choc. Era il 1990, e in Italia non avevo mai visto nulla di simile. Esistevano dei piccoli centri commerciali, ma avevano ben poco a che vedere con quell’immenso complesso di negozi interamente al chiuso, su più piani. Lì invece, mi spiegarono, era quanto di più normale e diffuso. Ed era vero: il mall era una istituzione essenziale per il modo di vivere degli americani. Solo in quell’anno, ne erano stati inaugurati ben 19.</div>
<div style="-webkit-margin-after: 0px; -webkit-margin-before: 0px; -webkit-padding-start: 0px; background-color: white; border: 0px; box-sizing: border-box; font-family: Georgia, "Times New Roman", Times, serif; font-stretch: inherit; font-variant-east-asian: inherit; font-variant-numeric: inherit; line-height: 1.4em; margin-bottom: 1em; margin-top: 1em; padding: 0px; text-align: justify; vertical-align: baseline;">
Di lì a due anni, l’antropologo francese Marc Augé avrebbe coniato il neologismo “non-luogo” per definire (e deprecare) le strutture consumistiche che attraggono moltitudini di individui che le frequentano senza relazionarsi. Da allora, nel quarto di secolo trascorso, gli intellettuali europei e buona parte di quelli americani non hanno fatto che deprecare la natura e l’impatto sociale di realtà come quella del mall. È fisiologico, quindi, che gli stessi intellettuali stiano ora <a href="https://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01/19/centri-commerciali-la-morte-dei-mall-non-luoghi-in-rovina-e-non-luoghi-del-web/1350360/" rel="noopener noreferrer" style="-webkit-tap-highlight-color: transparent; border: 0px; box-sizing: border-box; color: #003891; font-family: inherit; font-stretch: inherit; font-style: inherit; font-variant: inherit; font-weight: inherit; line-height: inherit; margin: 0px; padding: 0px; text-decoration-line: none; vertical-align: baseline;" target="_blank">leggendo</a> nella <span style="border: 0px; box-sizing: border-box; font-family: inherit; font-stretch: inherit; font-style: inherit; font-variant: inherit; font-weight: 700; line-height: inherit; margin: 0px; padding: 0px; vertical-align: baseline;">crisi del mall</span> un sintomo della sua imminente fine.<br />
<i>Prosegue su <a href="https://www.forbesitalia.com/sites/it/2018/02/20/crisi-mall-centro-commerciale-america/#7aad4df035dc">Forbes Italia</a></i></div>
Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-69856853710572769532017-06-29T10:10:00.001+02:002017-06-29T10:11:10.464+02:00"CI VEDIAMO IN TRIBUNALE"<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiqhXZfrEtEIr1bXRwGDk0-reqFvy3Jexj4awhGS9ympJOGDiiPBX15VvK7cT0xHREuVlKdTfqHoWrY8uxwojWftxL4O5vQXANVxOmJ0i_soH6ltjVc-b6dCY-yBKmgOc16SYqJyLE0H3A/s1600/keep-america-safe-helicopters-body-image-1471628432-size_1000.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="512" data-original-width="1000" height="163" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiqhXZfrEtEIr1bXRwGDk0-reqFvy3Jexj4awhGS9ympJOGDiiPBX15VvK7cT0xHREuVlKdTfqHoWrY8uxwojWftxL4O5vQXANVxOmJ0i_soH6ltjVc-b6dCY-yBKmgOc16SYqJyLE0H3A/s320/keep-america-safe-helicopters-body-image-1471628432-size_1000.jpg" width="320" /></a></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px;">
<span style="font-family: inherit;"><br /></span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px;">
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Ad otto mesi dall’elezione del 45esimo presidente degli Stati Uniti, le divisioni scavate dalla campagna elettorale tardano a cicatrizzarsi. Forse anche per questo è difficile reperire informazioni obiettive e non faziose su ciò che accade. Della recente decisione della Corte Suprema sul famigerato 'Travel Ban', ad esempio, si è parlato poco e male.</span></div>
</div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px;">
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Stiamo ai fatti.</span></div>
</div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il Governo Trump aveva emanato una “Ordinanza Esecutiva”, in pratica una specie di decreto, che bloccava temporaneamente la concessioni di visti per immigrare negli USA da sei Paesi già individuati come “a rischio terrorismo” ai tempi di Obama (Iran, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen).</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<br /></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px;">
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Anzi, per la precisione era stata emanata una prima ordinanza alla fine di gennaio, più drastica, che aveva generato il caos in alcuni aeroporti ed era stata subito bloccata, in quanto incostituzionale, da alcuni tribunali; in quel primo caso il Governo Trump aveva preferito fare alcuni passi indietro ed aveva emanato, a marzo, una versione “riveduta e corretta”, meno drastica, del provvedimento. Ma anche questa versione è stata congelata da due tribunali, che l’hanno giudicata comunque incostituzionale.</span></div>
</div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px;">
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il primo tribunale (in Maryland) aveva accolto il ricorso di due uomini che vedevano impedito il ricongiungimento con i loro familiari (rispettivamente la moglie e la suocera). Il secondo (nelle Hawaii) aveva accolto il ricorso dello Stato delle Hawaii, la cui università statale vedeva alcuni studenti impossibilitati ad andare a frequentare le lezioni e a dare gli esami.</span></div>
</div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px;">
<span style="font-family: inherit;">Ora la Corte Suprema ha deciso queste cose:<br />(segue su <i><a href="http://stradeonline.it/istituzioni-ed-economia/2917-usa-cosa-succede-davvero-sul-travel-ban"><b>Strade</b></a></i>)</span></div>
Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-10664173883911294102016-10-10T13:45:00.002+02:002016-10-10T13:45:45.064+02:00...E NON C'E' NIENTE DA RIDERE.<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px;">
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh9Yf0htHQLJAHXVNaMraEe5TRa_aaclpT6hcDLaePjuxmllLkMywdj_jT57tLGRMzxMizszv63DwX9YO6b8wDLvN7J_zKJK6sCCWr18Xx8oc3NwBT7WU-ISf5F-GYH-NPHWG_FB9l9SKo/s1600/trump.debate2.jpeg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="266" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh9Yf0htHQLJAHXVNaMraEe5TRa_aaclpT6hcDLaePjuxmllLkMywdj_jT57tLGRMzxMizszv63DwX9YO6b8wDLvN7J_zKJK6sCCWr18Xx8oc3NwBT7WU-ISf5F-GYH-NPHWG_FB9l9SKo/s400/trump.debate2.jpeg" width="400" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Manca meno di un mese all’elezione del quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti d’America: i tempi sono quindi maturi per fare i conti con la realtà, per quanto sgradevole essa sia.</span></div>
<br />
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">E la realtà è che il prossimo presidente, piaccia o no:</span></div>
<span style="font-family: inherit;"><div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">a) sarà uno di questi due:</span></div>
</span><span style="font-family: inherit;"><div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">b) davvero non sappiamo quale dei due.</span></div>
</span><br />
<br />
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Sarà Hillary Clinton, la peggior candidata che il partito Democratico (svantaggiato in partenza dal fatto di aver già detenuto la Casa Bianca per otto anni) potesse scegliersi,una candidata talmente debole, impopolare e poco credibile da risultare, nei sondaggi, in vantaggio di un nonnulla nonostante tutto ciò che di repellente e screditante è stato rovesciato sul suo antagonista negli ultimi dieci giorni; oppure sarà Donald Trump, un personaggio sul cui conto è fin troppo facile reperire una valanga di materiale repellente e screditante, ma sempre con effetti mini sull’opinione pubblica, perché la sua candidatura è un esperimento la cui regola n.1 è “there is no bad publicity”, <a href="http://www.stradeonline.it/monografica/2028-trump-e-l-america-che-vota-con-il-dito-medio" style="color: #0088cc; text-decoration: none;" target="_blank">la reputazione per lui non conta</a>, non lo si vota perché lo si stima ma perché lo si trova idoneo a rottamare quell’altra e tutto ciò che quell’altra rappresenta nell’immaginario collettivo.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<i>Prosegue su <a href="http://stradeonline.it/istituzioni-ed-economia/2331-elezioni-usa-secondo-round-trump-se-la-cava-senza-sorridere">Strade</a></i></div>
Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-26948716401215952252016-09-27T13:07:00.001+02:002016-09-27T13:07:21.117+02:00LUI E' PEGGIO DI ME<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgvrrWkdJ7fsx8bfofYoS3rOCvlsiqRhwrVuvv-zi6U50LTo3HYCRaq0w4wgGejxTdG2oF-GyJPZFvS5SLqdM3NZ6GSxHzZmmxr6aq3FQz4N1X0QWVyweos1tATZc6KAJWqcmH9HRK1evE/s1600/pjimage+%25281%2529.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgvrrWkdJ7fsx8bfofYoS3rOCvlsiqRhwrVuvv-zi6U50LTo3HYCRaq0w4wgGejxTdG2oF-GyJPZFvS5SLqdM3NZ6GSxHzZmmxr6aq3FQz4N1X0QWVyweos1tATZc6KAJWqcmH9HRK1evE/s400/pjimage+%25281%2529.jpg" width="400" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><i><span style="background-color: white; color: #30302d; font-size: 17px;"><br /></span></i></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><i><span style="background-color: white; color: #30302d; font-size: 17px;">'Gli elettori di Trump stanno ancora con lui. Quelli di Hillary stanno ancora con Hillary. Gli indecisi sono ancora indecisi. E</span><span style="background-color: white; color: #30302d; font-size: 17px;"> in molti vorrebbero candidati migliori</span></i><span style="background-color: white; color: #30302d; font-size: 17px;"><i>'. </i>Questo semplicissimo giudizio espresso a caldo su Twitter da Ari Fleischer, che fu addetto stampa della Casa Bianca ai tempi di George W. Bush, riassume il succo del primo dibattito fra i due pretendenti di questa elezione presidenziale.<br /><i>Prosegue su <a href="http://stradeonline.it/istituzioni-ed-economia/2305-meglio-clinton-di-trump-in-un-battibecco-che-cambia-poco">Strade</a></i></span></span></div>
Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-11282687342418918052016-07-27T14:34:00.002+02:002016-07-27T14:34:37.307+02:00TRUMP, EISENHOWER E IL CONTO DELL'HOTEL<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgOh0qT4CIhO_PekPA-HPBuQNen_xNlHBkncf7vpzr5Ot6qCRHd83HXKAOXXg9qL6hnRDnxqzLbSsRkGHblLFMOOjiXsJ_Vs-jpQXLrN_98cFH1Z3VctEEPi-wYHw3nq5Mmc9oF4CmONkE/s1600/america.first.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="225" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgOh0qT4CIhO_PekPA-HPBuQNen_xNlHBkncf7vpzr5Ot6qCRHd83HXKAOXXg9qL6hnRDnxqzLbSsRkGHblLFMOOjiXsJ_Vs-jpQXLrN_98cFH1Z3VctEEPi-wYHw3nq5Mmc9oF4CmONkE/s400/america.first.jpg" width="400" /></a></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 25.5px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Faceva caldo lunedì, nella sala da ballo del lussuoso hotel di Roanoke, in Virginia, dove un Donald Trump reduce dalla Convention Nazionale di Cleveland stava spiegando ai suoi simpatizzanti come intende 'Rendere di nuovo grande l’America' in politica estera.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 25.5px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Si sudava, le signore agitavano i ventagli. A Trump questo fastidio è sembrato una occasione perfetta per spiegare come funzionano le cose. Ecco, vedete? Io qui pago il conto della sala, ma se i proprietari dell’hotel stanno facendo i furbetti risparmiando sull’aria condizionata, sapete che c’è? Io il conto posso anche decidere di non pagarlo. Perché se loro non fanno la loro parte, io ho diritto a non fare la mia.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 25.5px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Non si è trattato di una digressione estemporanea. Trump stava spiegando come intende gestire il ruolo dell’America nel mondo. E si riferiva, in particolare, alla sua sortita sulla politica estera che - in una intervista al New York Times pochi giorni prima - aveva suscitato maggior scalpore: ossia la affermazione che gli alleati devono smetterla di usufruire a scrocco della protezione militare garantita dagli Stati Uniti, e devono cominciare a contribuire in modo più equo ai costi delle strutture militari alleate.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 25.5px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Avrebbe potuto benissimo essere riconosciuta come la più obamiana di tutte le cose dette da Trump, perché da anni Obama va ripetendo esattamente la stessa cosa, in ogni occasione. Ha persino parlato di alleati “<em>free rider</em>”, cioè scrocconi, per l’appunto. Evidentemente non si tratta della tesi di una parte politica, ma di una esigenza molto sentita da tutta l’America, e fortemente radicata nella realtà.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 25.5px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Ma Trump è Trump, mica può limitarsi a dire le stesse cose che dice anche Obama. E così ha rincarato la dose, alla sua maniera. Se la Russia invade un Paese alleato, gli USA interverranno a difenderlo? Dipende. </span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 25.5px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><i>prosegue su <a href="http://www.stradeonline.it/istituzioni-ed-economia/2201-le-soluzioni-di-trump-alla-convention-chiare-semplici-e-sbagliate">Strade</a></i></span></div>
Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-69599397470978946172016-05-18T12:00:00.000+02:002016-05-18T12:00:40.559+02:00TRUMP E L'AMERICA CHE VOTA CON IL DITO MEDIO<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj6EpXDiK-L7AQkKw0xAEJNaITBJHu1OHYcoLKkUJJyuDgsYWY3lpzbJrlRtHhblaBxTMHVrFvEFWzHLdhj8Bm70gS6bvd9yqoRAUG431wz6uof0KKQ2S4Jeq8fGZXg3NMznhC3Z1-X7_4/s1600/trump.king.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="267" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj6EpXDiK-L7AQkKw0xAEJNaITBJHu1OHYcoLKkUJJyuDgsYWY3lpzbJrlRtHhblaBxTMHVrFvEFWzHLdhj8Bm70gS6bvd9yqoRAUG431wz6uof0KKQ2S4Jeq8fGZXg3NMznhC3Z1-X7_4/s400/trump.king.jpg" width="400" /></a></div>
<div class="MsoNormal" style="line-height: 15.0pt; margin-bottom: .0001pt; margin-bottom: 0cm; mso-line-height-rule: exactly; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><i><br /></i></span></div>
<span style="background-color: white; color: #30302d; font-family: judsonmedium, 'Helvetica Neue', Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 17px; line-height: 25.5px; text-align: start;"><i>Nato miliardario, residente a Manhattan, cresciuto nello sfarzo: come candidato anti-establishment, Donald Trump non è altro che una grande messinscena, peraltro delle meno credibili. Eppure le sue sparate funzionano alla grande con quegli americani che vogliono semplicemente votare 'contro'. Perché?</i></span><br />
<br />
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
</div>
<div style="text-align: start;">
<span style="color: #30302d; font-family: judsonmedium, Helvetica Neue, Helvetica, Arial, sans-serif;"><span style="font-size: 17px; line-height: 25.5px;"><br /></span></span></div>
<span style="font-family: inherit; line-height: 15pt;"><i>Qualcosa</i> si muoveva già nel
2000, quando nelle primarie presidenziali repubblicane il candidato sostenuto dall’establishment
del partito, il governatore del Texas George W. Bush, era inizialmente
inciampato nel più scomodo dei <i>maverick</i>.</span><br />
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit; line-height: 15pt;">Il settimanale </span><i style="font-family: inherit; line-height: 15pt;">Rolling Stone</i><span style="font-family: inherit; line-height: 15pt;"> aveva proposto al giovane
scrittore anticonformista David Foster Wallace di scegliersi un candidato alle
primarie di uno dei due partiti e seguirlo </span><i style="font-family: inherit; line-height: 15pt;">on
the road</i><span style="font-family: inherit; line-height: 15pt;"> per una settimana per scrivere un reportage; e lui aveva scelto di
salire sul bus dell’anziano senatore repubblicano John McCain. Era lui, in quel
momento, la rockstar della politica americana. E lo era in quanto alternativa “</span><i style="font-family: inherit; line-height: 15pt;">antiestablishmentarian</i><span style="font-family: inherit; line-height: 15pt;">”.
Il suo programma era imperniato sulla proposta di una grande riforma del
sistema di finanziamento delle campagne elettorali, volta a ridimensionare il
potere delle grandi lobby. I suoi comizi si aprivano con la musica di “Star
Wars”, quasi a suggerire che Bush fosse un Dart Fener e lui un Luke Skywalker
della politica (pare anche che in privato chiamasse scherzosamente “la Morte
Nera” la macchina elettorale dell’avversario). La sua avventura durò poche
settimane, ma suscitò un entusiasmo sintomatico. </span><i style="font-family: inherit; line-height: 15pt;">Qualcosa</i><span style="font-family: inherit; line-height: 15pt;"> si muoveva.</span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit; line-height: 15pt;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit; line-height: 15pt;">E quel </span><i style="font-family: inherit; line-height: 15pt;">qualcosa</i><span style="font-family: inherit; line-height: 15pt;"> si muoveva ancora di più otto
anni dopo, quando, nelle primarie presidenziali per il dopo-Bush, John McCain
riuscì dove otto anni prima aveva fallito: battè</span><span style="font-family: inherit; line-height: 15pt;"> </span><span style="font-family: inherit; line-height: 15pt;">il candidato più
ricco e più gradito all’establishment del partito, che stavolta aveva il volto
di Mitt Romney. Simmetricamente, nelle primarie democratiche la candidata
dell’establishment, Hillary Clinton, da tempo considerata la favorita al limite
della predestinazione, venne battuta dal giovane outsider Barack Obama.</span></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="background-color: white; font-family: inherit; line-height: 15pt;">“</span><i style="background-color: white; font-family: inherit; line-height: 15pt;">Che il 2008 sia semplicemente un anno strano</i><span style="background-color: white; font-family: inherit; line-height: 15pt;">”, si chiese
l’opinionista neoconservatore Bill Kristol, “</span><i style="background-color: white; font-family: inherit; line-height: 15pt;">o sta forse accadendo qualcosa di grosso? Stiamo assistendo ad uno dei
periodici risvegli politici e culturali dell’America, a una delle nostre
occasionali, quasi compulsive reazioni democratiche alla distanza, percepita
come eccessiva, tra la gente ed suoi “establishment”? Risvegli di questo genere
posso essere anche improvvisi, e possono anche arrivare su più fronti
contemporaneamente. Spesso sono accomunati da un tema ricorrente, ossia la
richiesta popolare: “piantatela di parlare in nostro nome, e cominciate un po’
ad ascoltarci”. </i></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-bottom: 0.0001pt; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit; line-height: 107%;">Alla fine di agosto, a
poche ore dalla convention nazionale repubblicana in Minnesota, McCain spiazzò
tutti annunciando che avrebbe candidato come sua vice la governatrice
dell’Alaska, Sarah Palin. </span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 107%;"><span style="font-family: inherit;"><br /></span></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 17.12px;"><i>Segue sulla <a href="http://stradeonline.it/monografica/2028-trump-e-l-america-che-vota-con-il-dito-medio">monografica bimensile MAGGIO/GIUGNO 2016 di STRADE</a> (L'intero numero della rivista è <a href="http://stradeonline.it/maggio-giugno-2016?view=numeri">qui</a>)</i></span></div>
Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-19663581152729157352016-03-17T10:04:00.002+01:002016-03-17T10:04:57.002+01:00GLI INSOPPORTABILI<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj5L9HNDJxY292ZVdOKqlVV4s7NkyANEzo4keWu1f5C0pyYqOcIgj_-icc-2_ZDUOPAmiqibTiR0rL1qFipivc3YZ8jj0bHdbOZMgNF8hzBsA5_DbKwO60mAxO8smqcotOCR5xN8YG2ddc/s1600/12674187_10208964202807123_973007762_n.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="223" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj5L9HNDJxY292ZVdOKqlVV4s7NkyANEzo4keWu1f5C0pyYqOcIgj_-icc-2_ZDUOPAmiqibTiR0rL1qFipivc3YZ8jj0bHdbOZMgNF8hzBsA5_DbKwO60mAxO8smqcotOCR5xN8YG2ddc/s400/12674187_10208964202807123_973007762_n.jpg" width="400" /></a></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 25.5px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><i>“In buona sostanza quello che è successo oggi è che Hillary Clinton è stata eletta Presidente. Da qui in poi abbiamo otto mesi di iperventilazione prima che la cosa sia ufficializzata”.</i></span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 25.5px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Così <a href="https://twitter.com/TonyFratto/status/709899861466947584" style="color: #0088cc; text-decoration: none;" target="_blank">ha twittato</a> martedì sera Tony Fratto, che era stato uno dei portavoce della Casa Bianca ai tempi di George W. Bush. </span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 25.5px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La vittoria di Trump è stata esattamente quella che i sondaggi pronosticavano....</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 25.5px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><i>segue su <a href="http://www.stradeonline.it/istituzioni-ed-economia/1869-trump-contro-clinton-sara-la-campagna-degli-insopportabili">Strade</a></i></span></div>
Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-37916455269791087892016-03-02T10:30:00.002+01:002016-03-02T10:30:42.522+01:00UN "SUPER TUESDAY" PER NIENTE SUPER<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<iframe width="320" height="266" class="YOUTUBE-iframe-video" data-thumbnail-src="https://i.ytimg.com/vi/ONRQZshyrPI/0.jpg" src="https://www.youtube.com/embed/ONRQZshyrPI?feature=player_embedded" frameborder="0" allowfullscreen></iframe></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 23.1818px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Capita, talvolta, che il voto del “Super Martedì” chiuda i giochi e consegni la candidatura ad uno dei contendenti. Non è capitato stanotte.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 23.1818px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il conteggio dei delegati da assegnare è ancora in corso, perché si tratta di una spartizione che avviene in parte con metodo proporzionale, in parte con un maggioritario applicato non allo Stato nel suo complesso bensì ai singoli collegi elettorali (in quasi tutti gli Stati del Sud vige il cosiddetto “Winner takes most”, cioè si applica il maggioritario secco solo se qualcuno supera il 50%, cosa che stanotte non è successa, altrimenti in ogni collegio si assegnano due delegati al più votato ed uno al secondo). Ma la situazione è in linea di massima ormai delineata.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 23.1818px; margin-bottom: 9px;">
</div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="line-height: 23.1818px;"><span style="font-family: inherit;">Trump ha “vinto”, ma senza grande slancio, riportando risultati al di sotto delle aspettative create dai sondaggi e dalla sua sovraesposizione mediatica.</span></span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">La vera sorpresa sta nel risultato deludente di Marco Rubio ed in quello inaspettatamente consistente di Ted Cruz.</span></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><i>Prosegue su <a href="http://stradeonline.it/istituzioni-ed-economia/1804-un-super-tuesday-per-nulla-super">Strade</a></i></span></div>
Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-72977027421393732872016-02-29T10:53:00.004+01:002016-02-29T11:41:29.506+01:00HILLARY IS THE NEW BLACK<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 23.1818px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
</div>
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiaVLfuOwVR3c6EX3ap2iSqbtOSR56bwha-N_5nds3gqGQZtsJ-zV4w78He2tNX90VeJ-toSe03Ea8mMvI3xx39n7nuFd-uQxKhhc7PiTTOu8lrEkSv9oBv2S_dosUsytwb0SEGATNM200/s1600/hillary.black.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="275" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiaVLfuOwVR3c6EX3ap2iSqbtOSR56bwha-N_5nds3gqGQZtsJ-zV4w78He2tNX90VeJ-toSe03Ea8mMvI3xx39n7nuFd-uQxKhhc7PiTTOu8lrEkSv9oBv2S_dosUsytwb0SEGATNM200/s400/hillary.black.jpg" width="400" /></a></div>
<span style="font-family: inherit;">Cos'è la South Carolina per i Democratici? È uno di quegli Stati tipicamente "sudisti" nei quali sanno di non avere alcuna speranza di battere i Repubblicani.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 23.1818px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Ma proprio perché lì, nelle elezioni generali, i Dem sanno di essere minoranza, durante le primarie la South Carolina è vista come un referendum sul loro rapporto con quella che lì rappresenta la maggioranza assoluta di quella minoranza, ossia l’elettorato afroamericano.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 23.1818px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Quest’anno il test era particolarmente significativo. Da un lato, infatti, Hillary si porta appresso il punto di forza del tradizionale rapporto privilegiato di suo marito con le comunità afroamericane (ricordiamo che nel 1998 la scrittrice afroamericana Toni Morrison coniò per Bill Clinton la definizione di “Primo Presidente Nero, nonostante la pelle bianca”); dall’altro, però, aveva sulle spalle anche il doloroso ricordo dellabatosta infertale da Obama alle primarie di otto anni fa, quando il giovane senatore dell’Illinois vinse “a valanga” con oltre il 55% dei voti, lasciando la ex First lady con un umiliante 26,5 (il resto andò al terzo incomodo John Edwards). Ovviamente Obama aveva stravinto i voti degli afroamericani anche e soprattutto grazie ad un fattore biografico, il che ha sempre sollevato seri dubbi sulla possibilità di replicare simili risultati dopo la sua uscita di scena.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 23.1818px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><i>Prosegue su <a href="http://stradeonline.it/istituzioni-ed-economia/1798-primarie-usa-hillary-stravince-in-south-carolina-ma-ha-un-problema">Strade</a></i></span></div>
Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-21690005794037526162016-02-24T16:38:00.001+01:002016-02-24T16:39:31.261+01:00CHE SUCCEDE, AMERICA?<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj2LOAVx5zGu992xUXH3E1ZT_6SgP3HkPRgx23Voy7jmeg5IykWtb3W6zUvcrP8c8tMpVbFTFnBHTzgGNDyuKRyDQa0jaYuwXl7Aa3D777g7odgvypda7Uo8u4PttBibkyQqkMUGPQaCRE/s1600/trump.vegas.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="251" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj2LOAVx5zGu992xUXH3E1ZT_6SgP3HkPRgx23Voy7jmeg5IykWtb3W6zUvcrP8c8tMpVbFTFnBHTzgGNDyuKRyDQa0jaYuwXl7Aa3D777g7odgvypda7Uo8u4PttBibkyQqkMUGPQaCRE/s400/trump.vegas.jpg" width="400" /></a></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 23.1818px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Succede che i caucus del Nevada sono stati stravinti da Trump con il 46%. In un caucus con affluenza altissima, hanno votato “tutti” per lui: anziani e meno anziani, bianchi e latinos (lui, che dice di voler costruire una muraglia cinese sul confine con il Messico e far pagare il conto ai messicani), istruiti e non istruiti, conservatori e non (anzi: quelli che si sono autodefiniti “liberal” l’hanno votato in misura ancora più massicia di quelli che si definiscono conservatori), “evangelici” e mormoni – lui, pro aborto e tre volte divorziato.<span style="font-family: judsonbold;"> Il voto per Trump ha prevalso in tutte le categorie dei elettorato (unica eccezione i giovanissimi)</span>. Lo hanno scelto l’86% dei votanti che hanno dichiarato di aver votato per il candidato “che dice le cose come stanno” e il 60% di quelli che hanno dichiarato di aver scelto per il “portatore di cambiamento”.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 23.1818px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;"><span style="font-family: judsonbold;">Succede che i vertici del partito a lungo hanno dato per scontato che la “bolla” di Trump si sarebbe sgonfiata da sola, senza bisogno di intervenire</span>. Succede che gli analisti e i commentatori (anche noi da qui, nel nostro piccolissimo) hanno dato per scontato che anche se la bolla non si fosse sgonfiata da sola Trump sarebbe stato comunque fermato dai vertici del partito (che invece, vedi sopra). <span style="font-family: judsonbold;">Succede che la base, “la gente”, dà per scontato che tutto ciò che sta sul menu è per ciò stesso appetibile, e lo votano senza tanti scrupoli</span>. Sono arrabbiati, stufi e disillusi. Votano “con il dito medio” come ha scritto qualcuno. </span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; font-family: judsonmedium, 'Helvetica Neue', Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 17px; line-height: 23.1818px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<i>Prosegue su <a href="http://stradeonline.it/istituzioni-ed-economia/1790-nevada-la-bolla-di-trump-che-si-doveva-sgonfiare-e-non-si-sgonfia-piu">Strade</a></i></div>
Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-54859466189304179702016-02-22T09:50:00.001+01:002016-02-22T09:50:57.753+01:00I SOPRAVVISSUTI DELLA SOUTH CAROLINA<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<iframe width="320" height="266" class="YOUTUBE-iframe-video" data-thumbnail-src="https://i.ytimg.com/vi/PyRZTAmcW7c/0.jpg" src="https://www.youtube.com/embed/PyRZTAmcW7c?feature=player_embedded" frameborder="0" allowfullscreen></iframe></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 23.1818px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">L’artista più rappresentativo della musica della South Carolina si chiama Josh Turner. È un cantante country con una voce baritonale incantevole. Musicalmente, il suo repertorio rientra nel filone del cosiddetto neotradizionalismo; quanto alle parole delle sue canzoni, sono intrise di una fede religiosa intensa quanto elementare. <a href="https://www.youtube.com/watch?v=PyRZTAmcW7c" style="color: #0088cc; text-decoration: none;" target="_blank">Il suo brano di esordio</a>, tutt’ora il più celebre, esorta a rinunciare al peccato finchè si è in tempo, ribellandosi alle tentazioni come se si trattasse di saltare giù da un ideale lungo treno nero, in corsa verso il baratro, guidato dal Diavolo in persona.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 23.1818px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Politicamente l’elettorato di quello Stato non è molto diverso: tradizione, religione, attaccamento ai vecchi valori Dio Patria e Famiglia, messaggi semplici e forti. Per questo vincere le primarie presidenziali repubblicane qui – le prime a tenersi nel Profondo Sud – non significa granchè in termini di appeal elettorale generale, ma tutt’al più rappresenta un test rispetto all’ala più conservatrice dell’elettorato del Grand Ole Party, in particolare quella più legata alla cosiddetta “Destra religiosa”. Non è poi tanto raro che chi vince qui non arrivi poi ad aggiudicarsi la candidatura:quattro anni fa, ad esempio, in South Carolina vinse Newt Gingrich, la cui candidatura poi non arrivò da nessuna parte. Ma attenzione: Gingrich non aveva vinto anche in New Hampshire. Dati alla mano, storicamente tutti gli aspiranti che hanno vinto sia qui che in New Hampshire sono poi arrivati ad aggiudicarsi la candidatura repubblicana alla Casa Bianca. Se dovessimo attenerci ai precedenti, quindi...</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 23.1818px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<i>prosegue su <a href="http://stradeonline.it/istituzioni-ed-economia/1781-south-carolina-le-poche-opzioni-del-vasto-partito-dei-non-trump">Strade</a></i></div>
Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-38340679142145796662016-02-15T11:13:00.000+01:002016-02-15T11:13:18.846+01:00ADDIO ANTONIN SCALIA, IL DISSENZIENTE INSOSTITUIBILE<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiecyvQWAdbadq7-MPHluSEWdE-3rwKuGXh9FobQVQ2WF4PBxc6U1yoSnTa9ysaVlJumG4ixHqRs77RseQ8ekRSnRr2dtZJyyJKFiNU7hoCQBjSEq1qlAUwK4OUhvZIDko5pXyMbutSh-c/s1600/scalia-speech.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="300" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiecyvQWAdbadq7-MPHluSEWdE-3rwKuGXh9FobQVQ2WF4PBxc6U1yoSnTa9ysaVlJumG4ixHqRs77RseQ8ekRSnRr2dtZJyyJKFiNU7hoCQBjSEq1qlAUwK4OUhvZIDko5pXyMbutSh-c/s400/scalia-speech.jpg" width="400" /></a></div>
<blockquote class="tr_bq">
<span style="background-color: white; color: #30302d; font-family: judsonmedium, 'Helvetica Neue', Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 17px; line-height: 25.5px;">“Noi non rivestiamo questa carica per fare la legge, per decidere chi deve vincere. Noi decidiamo solo chi vince applicando la legge che il popolo si è dato. E molto spesso, se sei un buon giudice, ti capita di orientarti verso un risultato che non ti piace per niente”.</span> </blockquote>
<blockquote class="tr_bq">
<span style="background-color: white; color: #30302d; font-family: judsonmedium, 'Helvetica Neue', Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 17px; line-height: 25.5px;"></span><span style="background-color: white; color: #30302d; font-family: judsonmedium, 'Helvetica Neue', Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 17px; line-height: 25.5px;">Antonin Scalia, intervista a C-Span, 2009</span></blockquote>
<span style="background-color: white; color: #30302d; font-family: judsonmedium, 'Helvetica Neue', Helvetica, Arial, sans-serif; font-size: 17px; line-height: 25.5px;"><br /></span>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 25.5px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Antonin Scalia è morto nel sonno sabato, mentre si riposava da una battuta di caccia in Texas (una fine poeticamente perfetta, per un conservatore come lui), e ora nulla è più come prima. La Corte Suprema degli Stati Uniti non ha più il leader della sua “ala destra”, e il mondo politico conservatore americano è orfano del suo più brillante punto di riferimento giuridico. Aggiungiamoci poi che si tratta anche del più influente italoamericano dell’America contemporanea. Veder parlare un giudice della Corte Suprema è sempre uno spettacolo, <a href="http://www.newyorker.com/magazine/2005/03/28/supreme-confidence" style="color: #0088cc; text-decoration: none;" target="_blank">scriveva</a> nel 2005 Margaret Talbot sul New Yorker, ma “è da Scalia che ci si può aspettare l’equivalente giurisprudenziale dello sfasciare una chitarra sul palco”.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 25.5px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Una superstar, insomma. Ma attenzione: Scalia non è stato solo un oratore e un polemista dotato di raro carisma e di irresistibile humour. È stato anche un intellettuale straordinariamente onesto e coerente. Spesso i conservatori vengono accusati di facile opportunismo rispetto alla presunta difesa del dettato letterale della Costituzione, contro arbitrarie interpretazioni “creative” che vorrebbero aggiornarla alla attualità. Non di rado l’accusa è fondata; ma nel caso di Scalia, non è stato così. Anzi. Lui giocava in un altro campionato.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 25.5px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Esiste <a href="http://www.slate.com/articles/news_and_politics/jurisprudence/2014/09/justice_antonin_scalia_s_brilliant_liberal_moments_on_the_supreme_court.html" style="color: #0088cc; text-decoration: none;" target="_blank">una serie di sue decisioni</a> (58 dei ben 342 casi nei quali il suo voto è stato determinante, stando al <a href="http://supremecourtdatabase.org/index.php" style="color: #0088cc; text-decoration: none;" target="_blank">database della Corte Suprema</a>) i cui effetti concreti, politicamente, sarebbero etichettati “di sinistra”, ma che lui non ha esitato ad adottare nel rispetto della sua visione giuridica. Per molti anni i suoi assistenti se li è scelti di sinistra, per poter lavorare confrontandosi sempre con visioni opposte alla sua. E anche tra i suoi allievi ci sono degli insospettabili....<br /><i>prosegue su <a href="http://www.stradeonline.it/istituzioni-ed-economia/1751-antonin-scalia-o-del-dissenso-insostituibile">Strade</a></i></span></div>
Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-73480771615124367122016-02-10T16:37:00.000+01:002016-02-10T16:39:10.247+01:00PAURA E DELIRIO IN NEW HAMPSHIRE <div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjutv_GmGcM30oGGDc3uU32NjQhc2JBudaEehqVLsEp6X6AS1b-zJM0jK0mFuUcvmYLkG9sEK9mbIASmWl1qP3y4UiBG5lnmTC2t_fZ-KbLbyXW0nbcSAPK0Xm-9GZ_lhc6rBTQ3mMtPzY/s1600/Ca0QcgnWcAE28BE.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjutv_GmGcM30oGGDc3uU32NjQhc2JBudaEehqVLsEp6X6AS1b-zJM0jK0mFuUcvmYLkG9sEK9mbIASmWl1qP3y4UiBG5lnmTC2t_fZ-KbLbyXW0nbcSAPK0Xm-9GZ_lhc6rBTQ3mMtPzY/s400/Ca0QcgnWcAE28BE.jpg" width="377" /></a></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 23.1818px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Quando, ormai più di due anni fa, si fece chiara l’intenzione di Hillary Clinton di ritentare la candidatura alla Casa Bianca, gran parte dei media mondiali ricadde nel consueto errore di accogliere gioiosamente come più o meno scontata la lieta novella del “primo presidente donna” (e di lì a poco anche primo presidente nonna).</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 23.1818px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">A voler vedere le cose con un minimo di obiettività, il successo di questo secondo tentativo era tutto fuorchè scontato. L’America stava e sta vivendo una profonda crisi di rigetto nei confronti della “vecchia politica”, e Hillary è una perfetta esponente proprio di quel mondo: con tutto l’apparato di scheletro nell’armadio, di compromessi cinici e spesso poco nobili, di menzogne sotto giuramento. La perplessità che non potei non esprimere <a href="http://alessandrotapparini.blogspot.it/2013/09/le-rughe-di-hillary.html" style="color: #0088cc; text-decoration: none;" target="_blank">all’epoca</a> non sta trovando che conferme.</span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 23.1818px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Il voto della settimana scorsa in Iowa – dove non si tengono elezioni primarie, ma<em>caucus</em> che somigliano più ai nostri congressi di partito – con quel sostanziale, umiliante pareggio al 49 <em>virgola-qualcosa</em> per cento tra la ex First Lady ed ex Madame Secretary ed il vecchio senatore socialista del Vermont Bernie Sanders, già non suonava affatto bene. Ma il voto di ieri alle prime vere primarie, quelle del New Hampshire, suona decisamente peggio. </span></div>
<div style="background-color: white; color: #30302d; line-height: 23.1818px; margin-bottom: 9px; text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Prosegue su <i><a href="http://stradeonline.it/istituzioni-ed-economia/1739-new-hampshire-le-primarie-aperte-premiano-le-anomalie">Strade </a></i></span></div>
Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-758230147718322630.post-86526581989034876412015-06-01T12:25:00.001+02:002015-06-01T12:25:04.980+02:00L'ONDA E LA RAMPA<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgt6FtOX6R4QYFjgBgUK3V-XxP5X5nlbNCLAd-BlXtMBnafXqfvaC6bQ0kJltiFjm5NfWFUSbU879BN6aLMwrk58R6R-35Yh5TdiFeb2xUjNZE87vzRBUk01vhExpKG8s3h1h3IikwViMU/s1600/Beach-Boys.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="260" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgt6FtOX6R4QYFjgBgUK3V-XxP5X5nlbNCLAd-BlXtMBnafXqfvaC6bQ0kJltiFjm5NfWFUSbU879BN6aLMwrk58R6R-35Yh5TdiFeb2xUjNZE87vzRBUk01vhExpKG8s3h1h3IikwViMU/s400/Beach-Boys.jpg" width="400" /></a></div>
<div style="text-align: justify;">
<span style="font-family: inherit;">Nona e ultima puntata "americana" a " La Tertulia - Racconti dall'Oltresport": con Ernesto Kieffer e Carlo Cappiotti ho ripercorso la storia, i miti, gli aneddoti e le curiosità dei due sport californiani per eccellenza, il surf e lo skateboarding. Diciamo che abbiamo chiuso in bellezza. Per il futuro ci inventeremo qualcos'altro. Intanto, il podcast è <b><a href="http://www.radiopopolareverona.com/old/?q=content/londa-e-la-rampa-lultima-american-tertulia">qui </a></b></span></div>
Alessandro Tapparinihttp://www.blogger.com/profile/15686819919984617247noreply@blogger.com0