Mio pezzo su Libero di oggi.
Quella che segue è una versione leggermente più ampia (quella originale, non sacrificata dalle dimensioni del cartaceo che pure la redazione ha generosamente forzato). La regalo ai lettori di JEFFERSON:
«I testicoli dell’Occidente»: così Nikita Krushev definì Berlino nel 1956. Nel senso che, si vantò, «ogni volta che voglio far urlare l’Occidente, gli do una strizzatina». Era vero, e lo fu fino al 12 giugno del 1987, quando Ronald Reagan tenne un comizio davanti alla Porta di Brandeburgo.
L’autore di quello storico discorso fu uno speechwriter appena trentenne: Peter Robinson, un neolaureato e neoassunto alla Casa Bianca, che si era fatto le ossa alla National Review, la prestigiosa rivista conservatrice diretta da William E. Buckley. Nell’aprile 1987, Robinson si aggregò alla missione dei Servizi Segreti addetta a preparare l’imminente viaggio del presidente in Europa.
Ne approfittò per parlare con la gente, per carpire il sentire comune. Incontrò anche John Kornblum, il più alto funzionario americano a Berlino; il quale gli consigliò di tenersi alla larga dall’argomento del Muro. Robinson era determinato a fare l’esatto contrario.
Tornato a Washington, buttò giù la prima bozza del discorso, che conteneva questo passaggio: «Segretario Generale Gorbaciov, se davvero vuole la pace, venga a Berlino. Se davvero vuole il benessere dell’Unione Sovietica e dell’Europa orientale, venga a Berlino. Venga qui davanti a questo muro. Herr Gorbaciov, machen Sie dieses Tor auf». La frase finale in tedesco sarebbe stata poi sostituita con la traduzione, «apra questo cancello»; quella più celebre sull’abbattimento del Muro sarebbe stata aggiunta in una versione di poco successiva. In quel passaggio il giovane Robinson aveva colto l’essenza della politica estera reaganiana, basata sulla ottimistica ed ostinata convinzione che la Guerra Fredda non fosse destinata a durare in eterno, e che spettasse agli Usa chiudere quel capitolo a modo loro.
Nel preparare la sua candidatura alle primarie presidenziali repubblicane del 1979, l’allora ex governatore della California aveva spiegato ai suoi consulenti che la sua visione della gestione del rapporto con i sovietici era "semplice, qualcuno direbbe semplicistica: noi vinciamo e loro perdono".
Bisognava però vincere senza guerreggiare. Negli anni Cinquanta si era passati dalla bomba a fissione a quella a fusione, la cui potenza (sperimentata dagli americani con l’annientamento dell’atollo di Bikini nel marzo del ’54) era settecentocinquanta volte superiore a quella dell’ordigno sganciato su Hiroshima. E questo aveva sgombrato il campo da qualsiasi ipotesi di guerra “calda” che potesse concludersi con qualcosa che non fosse la “fine di mondo” del Dottor Stranamore.
Reagan durante il suo primo mandato agì da falco. Raddoppiò il budget del Pentagono costringendo il Cremlino ad una rincorsa economicamente e tecnologicamente insostenibile. Soprattutto, si mostrò intenzionato a por fine all’“equilibrio del terrore”, la garanzia reciproca di non belligeranza fondata sul deterrente dell’olocausto nucleare. Un paradosso che Reagan aveva sbeffeggiato con la metafora di due pistoleri «uno di fronte all’altro in un saloon, che si puntano reciprocamente la pistola alla testa... per sempre». La sua risposta fu lo “scudo stellare”. Una volta chiarito chi fra i due contendenti stava giocando in attacco, Reagan iniziò a negoziare. Nel vertice di Reykjavik, nell’ottobre 1986, Gorbaciov aveva chiesto che gli Usa abbandonassero qualunque sviluppo dello “scudo stellare” non limitato alla ricerca di laboratorio. Reagan aveva invece proposto di negoziare un taglio dei missili a gittata intermedia. Nessuno dei due si era schiodato dalle rispettive posizioni e il summit si era concluso con un nulla di fatto. Ma ci erano andati vicini. Si sarebbero dovuti incontrare per la terza volta a Washington a dicembre.
Nel giugno 1987 il presidente avrebbe fatto il suo ultimo viaggio ufficiale in Europa. L’ultima tappa era Berlino. Gorbaciov, che quell’anno aveva pubblicato il libro Perestroika e stava rubando all’anziano presidente americano la parte in commedia di “uomo del cambiamento”, non era tipo da dare “strizzate” in stile krushioviano; ma nemmeno da Reagan si attendevano gesti particolarmente aggressivi. Reagan comprese, invece, che in quel momento l’esigenza principale era quella di mostrare che il Mondo Libero aveva ancora un leader ben intenzionato a vincere, capace all’occorrenza di tirare fuori la sua grinta da cowboy.
E infatti, appena lesse la bozza del discorso di Robinson, gli piacque. Non piacque invece nemmeno un po’ al Dipartimento di Stato, il quale condusse una campagna intensiva per boicottarlo; poi, quando fu chiaro che Reagan voleva “quel” discorso, i funzionari del National Security Council tentarono una “revisione” finale che cancellava l’intero paragrafo sull’abbattimento del muro. Ma l’ultima parola spettava al presidente, che decise di ripristinare quel passaggio: «C’è un solo gesto che i sovietici possono fare che sarebbe inequivocabile, che farebbe avanzare drammaticamente la causa della libertà e della pace. Segretario Generale Gorbaciov, se davvero vuole la pace… apra questo cancello! Mr. Gorbaciov... Mr Gorbaciov…Tiri giù questo muro».
«La reazione di Mosca fu inaspettatamente blanda», ha scritto John Lewis Gaddis, autorevole storico della Guerra Fredda. “Malgrado la sfida al simbolo più vistoso dell'autorità sovietica in Europa, la programmazione per il vertice di Washington proseguì regolarmente”. A dicembre, Reagan e Gorbaciov firmarono un trattato che prevedeva lo smantellamento dei missili nucleari a gittata intermedia in Europa. Il discorso di Berlino parve essere stato più che altro inoffensivo. Ma quando di lì a due anni il Muro crollò, le immagini di quel proclama di Reagan vennero mandate in onda a ripetizione.
Due saggi appena usciti , “The Rebellion of Ronald Reagan – a History of the End of the Cold War”, del corrispondente del Los Angeles Times James Mann (lo stesso che cinque anni fa si fece notare con “The rise of the Vulcans”, una monografia sull’entourage di George W. Bush), e “Tear Down This Wall: A City, a President, and the Speech that Ended the Cold War”, del redattore di TIME Romesh Ratnesar (intervistato nel video qui sopra), ricostruiscono accuratamente quell'evento. In particolare il primo, quello di James Mann, racconta di come Reagan si ribellò alla realpolitik del Dipartimento di Stato, del National Security Council e di certi ambienti conservatori.
Ma in realtà la sua ribellione si rivolgeva all’intero establishment occidentale. A settembre, il Times ha pescato tra i documenti sovietici desecretati dopo la fine della Guerra Fredda la trascrizione di un incontro riservato tra Margaret Thatcher e Michail Gorbaciov il 23 settembre del 1989 .
Stando alla carta, la Lady di ferro disse a Gorbaciov che l’Occidente non voleva che il Muro crollasse: «La riunificazione della Germania non è nell’interesse della Gran Bretagna, né dell’Europa Occidentale. Potrebbe sembrare il contrario dalle dichiarazioni pubbliche, o dai comunicati che vengono diramati nei vertici della Nato; ma non è il caso di prendere sul serio quelle affermazioni. In realtà noi non vogliamo un Germania unita. Ci porterebbe a modificare i confini del dopoguerra, e noi non ce lo possiamo permettere, perché minerebbe la stabilità dell’intero scenario internazionale mettendo a repentaglio la nostra sicurezza».
Ventidue anni dopo Barack Obama, benché invitato, non sarà a Berlino per prendere parte alle celebrazioni per il ventennale della caduta del Muro. Pare sia troppo impegnato nei preparativi del suo viaggio in Cina, il nuovo antagonista da “contenere”.
PS - Day-After Update: Sul Wall Street Journal di oggi, Tony Dolan, l'allora capo di Robinson, ricorda alcuni succulenti dettagli di quella "lotta all'ultimo sangue per mantenere nel testo del discorso quelle quattro semplici parole: tiri-giù-quel-muro".
3 commenti:
Articolo davvero interessante, complimenti anche per il traguardo della pubblicazione!
Ti ringrazio. ce n'est pas q'un (autre) debut ;)
Grazie per quest'articolo! Mi piace un sacco la strategia che Reagan usò contro l'Unione Sovietica: "Noi vinciamo loro perdono". Mi piacerebbe vedere qualcuno con la stessa determinazione, oggi!
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