martedì 8 dicembre 2009

THE QUIET PRESIDENT

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Barack Obama cammina rilassato, solitario, pensoso, sulla superficie liscia di un immenso planisfero. Sotto l’immagine, un titolo volutamente non originale: “The Quiet American”.
La cover story dell’Economist del 26 novembre scorso è un editoriale non firmato, quindi attribuibile al direttore John Micklethwait, grande esperto di politica d’oltreoceano (cinque anni fa firmò, a quattro mani con Adrian Wooldridge, l’imprescindibile saggio sulla destra americana “The Right Nation”).
Questo presidente – si domanda il direttore – ce l’ha o no una strategia?
Ce l’ha un vero piano su come rimettere in ordine il mondo, oppure sta solo navigando a vista? Ce lo si comincia a domandare con impazienza, perché “un pragmatismo calmo e conciliante è benvenuto dopo l’impetuosa certezza morale di George Bush, ma implica anche dei rischi”.
Va bene ristabilire un po’ di umiltà e di cordialità nei confronti del resto del mondo, ma “il problema è che il presidente spesso sembra più gentile con gli antagonisti dell’America che con i suoi alleati”. Anzi, a proposito di alleati: quelli dell’Europa dell’Est “mentre i loro soldati muoiono in Afghanistan, trovano irritante essere chiamati soltanto “partner”, termine che Obama usa nei confronti di quasi chiunque”.
In definitiva, l’Economist si domanda se questo “multilateralismo tranquillo” di Obama, questa visione “in cui ogni nazione fa la sua piccola parte per il bene di tutti”, sottenda un piano concreto, o se invece non si tratti solo di un colossale bluff. Il presidente “ha ragione sul fatto che il potere americano è circoscritto. Ma l’Unione Europea non è in grado di contribuire alla mansione di gendarme del mondo. E Cina, India e Russia non ne hanno intenzione”.
Quindi l’America di Obama deve cavarsela da sola. E di fronte al nulla di fatto registrato su molti, troppi fronti nel primo anno di questa amministrazione, c’è di che cominciare a temere che non sia capace di farlo; e che il quarantaquattresimo inquilino della Casa Bianca “sia solo una versione presidenziale di Alden Pyle, l’idealista “Americano Tranquillo” di Graham Greene, che vuole cambiare il mondo ma sottovaluta quanto cattivo il mondo sia, e finisce per fargli del male”.

Fra gli addetti ai lavori, qualcuno avrà provato la sensazione di un déjà-vu.
Nel febbraio del 2003, alla vigilia dell’attacco americano in Iraq, Newsweek pubblicò un pezzo di Christopher Dickey, cronista esperto di spionaggio ed antiterrorismo, nel quale la stessa identica citazione veniva impiegata per argomentare una analisi molto critica della politica estera di George W. Bush. Anche in quel caso, infatti, il presidente veniva paragonato all’Alden Pyle di Greene, l’americano solo apparentemente tranquillo, in realtà pericolosamente incosciente perché “determinato a fare del bene non a dei singoli individui, ma ad una nazione, ad un continente al mondo”, e che quindi “rappresenta tutto ciò che gli europei temono degli Stati Uniti”. Newsweek paragonava Bush al personaggio di Greene per dire che era in buona fede ma pericoloso, perché segnato, come il protagonista del romanzo, da una “letale tensione tra grandi ideali ed ignoranza del pericolo”.
Anche per Obama, come allora per Bush, vedersi paragonare ad Alden Pyle è un modo sofisticato ma non blando di sentirsi dare dell’apprendista stregone, del dilettante allo sbaraglio reso imprudente dall’eccessiva considerazione di sé e del proprio ruolo. A Bush toccò per via del suo interventismo missionario e del suo decisionismo texano; il suo successore, paradossalmente, ci sta arrivando seguendo il percorso diametralmente opposto – quello della trattativa ad oltranza, del multilateralismo relativista e cedevole, di una realpolitik tutta tattica e niente strategia. In questo senso, anche lui comincia ad essere accusato di essere un “Americano Tranquillo”.
Quel libro, che Greene scrisse nel 1954 ambientandolo nella Saigon dell’epoca - in cui aveva vissuto come corrispondente di LIFE, del Sunday Times e del Figaro - è spesso considerato una sorta di profezia del fallimento americano in Vietnam.
I protagonisti sono in realtà due, profondamente antagonisti (anche perché si contendono la stessa donna): da un lato Tom Fowler, voce narrante ed alter ego dell’autore, anziano ed indolente reporter inglese che ad assiste con cinico distacco alla decolonizzazione dell’Indocina; dall’altro il giovane idealista Pyle, zelante diplomatico americano, borghese bostoniano, fresco di laurea ad Harvard (come Bush e come Obama), ufficialmente in forza alla Missione Americana di Aiuto Economico.
La tranquillità di quest’ultimo si rivelerà solo apparente, non quanto agli ideali che lo animano, bensì quanto ai mezzi che è deciso ad impiegare: lo si scoprirà essere un agente della CIA, inviato ad armare segretamente una fazione vietnamita ritenuta ben controllabile, nel tentativo di portare all’instaurazione di un regime filooccidentale prima che la disfatta francese lasci il campo libero ai comunisti (oggi lo scenario pare quasi banale, ma all’epoca gli americani avevano ufficialmente a che fare con la Corea, non con il Vietnam. E la CIA, che era stata creata da appena otto anni, aveva intrapreso, con successo, solo due operazioni clandestine: il colpo di stato che aveva installato al potere lo Scià in Iran, e quello che aveva portato il colonnello Armas al potere in Guatemala). Alla fine, l’inesperienza di Pyle e la sua tendenza a sopravvalutare le proprie capacità di gestire gli eventi si rivelano fatali: l’operazione sfugge di mano, e l’esplosivo al plastico da lui fornito massacra degli innocenti.
Quando il libro uscì– in piena Guerra Fredda – l’antiamericanismo di cui è intriso lo rese poco gradito negli USA. Recuperò popolarità quando, tre anni dopo, tenendo conto del contesto “maccartista”, Hollywood ne sfornò una trasposizione cinematografica edulcorata, con la regia di Joe Mankiewiez (reduce dal successo di “Bulli e pupe”, con Marlon Brando e Frank Sinatra), nella quale il finale era totalmente stravolto e l’americano Pyle era scagionato da quasi tutte le colpe attribuitegli dalla trama originale. Nel 2002 è uscito un remake molto più fedele al romanzo, diretto dall’australiano Philip Noyce, con Brendan Fraser nel ruolo di Pyle ed un perfetto Michael Caine nei panni di Fowler.
Anche stavolta raccontare di un attentato finanziato dagli USA non era granché in sintonia con il comune sentire del momento, sicché l’uscita del film venne ritardata per quasi un anno, e persino il liberal New Yorker, nel recensirlo, avvertì l’esigenza di mettere in guardia il lettore dall’errore di “fare paragoni affrettati tra un’America guidata dalla paura di instabilità in terre lontane e un’America che sta reagendo ad atrocità commesse sul suo suolo“.
Il fatto è che “The Quiet American” è un testo la cui energia pulsante è costituita non da un generico antiamericanismo, ma dalla specifica versione tipicamente inglese, pura supponenza da nobile decaduto nei confronti dei parvenu yankee: una recensione di TIME negli anni Cinquanta diagnosticò un “complesso di inferiorità britannico, quel misto di rabbia ed autocompatimento con il quale il vecchio gallo osserva quello giovane aggirarsi nel pollaio”.
Ciò portò Greene – che fu egli stesso uomo dei servizi segreti britannici, pur senza rinunciare al suo atteggiamento anti-militante (pare chiamasse l’MI6 «la migliore agenzia di viaggi del mondo») – ad utilizzare nel modo più caustico, addirittura contribuendo in qualche misura a definirlo, lo stereotipo dell’americano “naif”, convinto di aver capito tutto, di saper organizzare e cambiare tutto, e soprattutto di rappresentare il Bene (“Dio ci salvi dall’innocente e dal buono”).

In questo cliché gli intellettuali giocano un ruolo essenziale: Greene coniò ad hoc la figura di “York Harding”, fantomatico opinionista teorico del ruolo di “terza forza” democratizzatrice e modernizzatrice che l’America è chiamata a svolgere per salvare il Terzo Mondo sia dal vecchio colonialismo europeo che dalla dittatura comunista. Alden Pyle è quel che è soprattutto perché animato dalla lettura di queste teorie (in particolare da un libro di Harding dal titolo “The Rise of the West”, “Il ruolo dell’Occidente”, che porta fieramente sottobraccio mentre si aggira per le vie di Saigon con il cane al guinzaglio).
Anche per questo riuscì facile il parallelo con Bush, che, seppure non particolarmente colto, appariva segnato in modo determinante dal rapporto con i “suoi” York Harding: Bob Kagan, Bill Kristol, David Frum e via neoconservando.
Obama sotto questo profilo corrisponde molto meno al personaggio, è troppo pragmatico, troppo poco ideologizzato: certo, ha i suoi intellettuali di riferimento (da Fareed Zakaria a Thomas Frideman, e mettiamoci pure Joseph Nye), ma nessuno di questi sembra averlo stregato più di tanto.
Si potrebbe semmai strologare sul ruolo del suo esercito di consulenti e consiglieri, ma a questo l’Economist non si spinge.
Eppure anche nel suo caso il parallelo con il giovane cinico ma benintenzionato di Greene, che aveva fatto “dell’amicizia una professione, come fosse legge o medicina”, potrebbe reggere. L’Economist – che non è sospettabile di ostilità preconcette nei confronti del quarantaquattresimo presidente, avendogli dato il suo endorsement alla vigilia delle elezioni con un editoriale che esortava l’America a “fare di Obama il prossimo leader del mondo libero” - tiene a precisare che il giudizio è prematuro, c’è ancora molto tempo per potersi ricredere con sincero sollievo.
Ma è un fatto che ad oggi il bilancio è disastroso.
La decisione sul surge in Afghanistan arriva con tragico ritardo e senza adeguate spiegazioni. La posizione della Casa Bianca alla conferenza di Copenhagen sul clima sembra disperata senza un appoggio netto del Congresso. Il vertice in Cina si è concluso senza uno straccio di risultato, nonostante le riverenze al regime di Pechino e il rifiuto di incontrare il Dalai Lama; Leslie Gelb, ex presidente del Council on Foreign Relations, ha scritto sul sito “The Daily Beast” che nella sua missione in Asia il presidente ha dato “una sgradevole sensazione di dilettantismo nel gestire la potenza americana”, e che dovrebbe assumersene la responsabilità “come John Kennedy fece con la Baia dei Porci”. L’appoggio della Russia sulle sanzioni all’Iran non si vede all’orizzonte nonostante sia stato immolato il piano di scudo stellare a difesa dell’Europa orientale. Il Pakistan sta incassando i finanziamenti di Washington senza dare granché in cambio.
Venerdì scorso Peggy Noonan ha scritto sul Washington Post che il primo anno di un nuovo presidente è quello nel corso del quale si formano le impressioni indelebili su di lui, e vengono scattate le fotografie destinate a rappresentarne l’icona. Eletto oltre un anno fa con aspettative smisurate, al governo da dieci mesi, troppe volte Barack Obama è stato fotografato nell’atto di inchinarsi di fronte a monarchi e tiranni. Sarà forse in grado, nelle prossime settimane, di dimostrare di non aver nulla in comune con l’Americano Tranquillo di Greene; per ora, sta facendo dormire sonni sempre meno tranquilli agli americani, e non solo.

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