Perché Jon Huntsman abbia deciso di gettare la spugna, giusto in tempo per sottrarsi all’inutile supplizio dei dibattiti (Fox News stasera, CNN dopodomani) è più che evidente. La domanda, semmai, è perché non abbia deciso di farlo prima. All’indomani delle primarie del New Hampshire, dove si era piazzato ad un terzo posto palesemente insufficiente a rivitalizzarne la asfittica candidatura, il suo destino era segnato. Cosa può averlo spinto a restare in lizza fino ad oggi?
Ben prima del voto in New Hampshire era chiaro a tutti che Huntsman aveva perso la scommessa sulla quale era parsa basarsi, in origine, la sua candidatura: ossia che durante gli ultimi mesi del 2011 si esaurisse il ciclo politico favorevole all’ala conservatrice-populista del partito, e, con tutti gli altri candidati sbilanciati a destra, si aprisse un varco per quello che qualcuno aveva definito il “candidato anti-Tea Party”: centrista, perbene, elitario, legato sia al mondo del big business (l’azienda di famiglia è il fornitore storico degli imballaggi per i panini della McDonald’s) che a quello della diplomazia (ambasciatore a Pechino nominato da Obama).
Non essendo accaduto nulla di tutto ciò, è parsa a tutti un tantino surreale la ostinazione con la quale egli ha proseguito imperterrito la sua corsa verso Sud, dichiarando beatlesianamente di considerare quel terzo posto in New Hampshire “a ticket to ride”, un biglietto per restare in corsa.
Presumibilmente l’estremo tentativo di Huntsman si è basato sul fatto che (come avete letto anche qui) Romney non aveva affatto chiuso la partita, che c’era ancora spazio per una sua sconfitta in South Carolina, all’indomani della quale l’establishment del partito avrebbe forse cominciato a considerare un’alternativa.
Se così stanno le cose, il ritiro che l’ex ambasciatore annuncerà nella tarda mattinata di oggi (con tanto di endorsement in favore dell’ “altro mormone”) è sintomatico di come gli addetti ai lavori vedano ormai gli astri allinenarsi nella direzione di una vittoria di Romney anche nel Palmetto State, con il che le primarie repubblicane potrebbero dirsi sostanzialmente concluse.
Più che per i numeri (Huntsman porterà in dote a Romney sì e non un punto percentuale dell’elettorato), questo ritiro pesa per il suo valore simbolico: chiude il cerchio apertosi l’estate scorsa, quando l’ex governatore del Minnesota Tim Pawlenty lasciò cadere i suoi sfottò su “Obamneycare” e fece confluire la propria candidatura su quella di Romney. I "tre moderati" le cui foto secondo qualcuno erano le sole ad essere appese sulla parete del quartier generale del comitato per la rielezione di Obama da oggi sono un solo candidato.
Adesso l’ala moderata del partito ha quindi definitivamente acquisito il vantaggio del compattamento, contro quella conservatrice che sarà pure maggioritaria ma rimane disperatamente spezzata in tre (quattro se contiamo Rick Perry, che però a questo punto ha anche lui le ore contate).
Intanto ieri sera, poco prima del preannuncio di Huntsman, Ron Paul ha rivelato l’ endorsement attorno al quale si era creata una certa aspettativa. Molti avevano ipotizzato che il libertario texano avrebbe potuto vantare il sostegno del senatore Jim DeMint, acclamato leader dei Tea Party non solo in South Carolina ma a livello nazionale. Si è invece appreso che ad appoggiarlo sarà l’altro senatore dello Stato, Tom Davis, anche lui molto vicino al mondo dei Tea Party ma assai meno popolare. DeMint – che alle primarie del 2008 aveva appoggiato Romney, e che la settimana scorsa aveva pronosticato la vittoria in South Carolina dell’ex governatore del Massachusetts e condannato gli attacchi troppo spregiudicati dei suoi avversari – ha invece rifiutato di esprimere un appoggio ufficiale prima di sabato. Il che la dice lunga sull'aria che tira.
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