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“Oh, il mio nome è niente / la mia età è meno / il paese da cui vengo / si chiama Midwest”: l’urbanista-politologo Joel Kotkin ha recentemente ripescato questo amaro incipit della canzone pacifista “With God on Our Side” di Bob Dylan (il quale, non a caso, è cresciuto in Minnesota) per ricordare come il Midwest sia stato per oltre mezzo secolo “la regione sconfitta per definizione, un posto dal quale tutta la gente di talento se n’era andata in cerca di opportunità”. Kotkin non è il solo ad osservare come questa cattiva reputazione, dovuta all’ormai pluridecennale crisi dell’industria manifatturiera che a lungo aveva dato lavoro a milioni di midwestern, oggi strida con il fatto che nell’attuale fase di Grande Recessione, l’America polverosa e arrugginita del Midwest “se la sta cavando” sorprendentemente meglio di quella delle mitiche due “coste”, rispetto alla quale si è rivelata di gran lunga meno fragile. Forse anche per questo i repubblicani del Midwest sembrano i più attivi nell’affilare le armi per le prossime presidenziali; anzi: sembrano i soli pronti a partire. E’ di una decina di giorni fa la notizia che il primo dibattito tra i contendenti per le primarie, che avrebbe dovuto tenersi alla Reagan Library il 2 maggio, è stato rinviato al 14 settembre causa carenza di candidati. I “big” non si decidono a scendere in campo: Mitt Romney si è fatto avanti solo ieri sera, mentre gli altri grandi sconfitti delle primarie del 2008, a cominciare da Mike Huckabee, ancora latitano; altrettanto fanno gli astri nascenti dei tagli alla spesa pubblica come il tondeggiante governatore del New Jersey Chris Cristie e il vulcanico presidente della commissione Bilancio della Camera Paul Ryan, e per ora rimane insolitamente defilata persino la immancabile (ormai più in TV che nella politica reale) Sarah Palin. Evidentemente, nonostante le recenti elezioni di mezzo termine abbiano segnato una rimonta epocale per il Grand Old Party, e i sondaggi diano ancora il presidente in carica tutt’altro che in ripresa (complice la disoccupazione che stenta a schiodarsi da “livelli europei o più propriamente italiani”), sfrattare Obama dalla Casa Bianca nel 2012 viene ancora considerata un’impresa davvero ardua, sia perché a un presidente in carica solitamente basta pochissimo per ottenere una riconferma, sia perché scarseggiano ricette alternative per risollevare le sorti di un’economia col fiato cortissimo e di una politica estera ancora “in cerca d’autore” dopo il tramonto della Dottrina Bush, ma anche per reinventare una “coalizione” e ricucire i pezzi di un partito Repubblicano frammentato e sfaldato.
Sino a poche ore fa, prima che Romney rompesse gli indugi, solo tre ardimentosi avevano osato varare un “comitato esplorativo” per le prossime presidenziali: il magnate della pizza Herman Cain, la deputata pasionaria dei “Tea Party” Michelle Bachmann, e l’ex governatore del Minnesota Tim Pawlenty. Quest’ultimo è l’unico dei tre ad essere preso sul serio ma nemmeno lui è un frontrunner. Ecco il primo spot della sua campagna:
Non è un caso che due su tre vengano dal Minnesota: uno degli swing states cruciali (si pensi al conteggio all’ultimo sangue per l’elezione di Al Franken che nel 2008 fece la differenza per consegnare ai Democratici la “supermaggioranza” al Senato), ma anche e soprattutto lo Stato “cuore” del Midwest. Fu quel pezzo di America a decretare l’elezione di George W. Bush nel 2000, e la sua rielezione nel 2004 dopo uno scontro accanito proprio su quel fronte (la risicata vittoria di Bush in Ohio fu determinante nella sconfitta di John Kerry). Poi, nel 2008, con l’elezione di Barack Obama (che già durante le primarie aveva giocato lì la sua partita più significativa) i Democratici si erano ripresi Ohio, Indiana e Iowa. Alle ultime elezioni di mezzo termine, però, il pendolo è tornato ad oscillare: nonostante la “massacrante tournée di comizi” che il presidente aveva intrapreso in quei luoghi, i Democratici hanno perso cinque seggi alla Camera in Pennsylvania ed altrettanti in Ohio, e sono stati battuti nella sfida per il governo della Pennsylvania, dell’Ohio, del Michigan, del Wisconsin e dello Iowa - cioé praticamente in tutto il Midwest fuorché a “casa” di Obama in Illinois. La situazione del Minnesota, che ai tempi di Pawlenty era un’eccezione, si è così invertita: il che avrà importanti conseguenze anche nella imminente ridefinizione dei collegi elettorali. Anche a Washington, al Congresso, dopo le ultime midterm siedono in gran parte rappresentanti di quella regione, tra i quali spiccano l’attuale speaker della Camera John Boehner, che è eletto in Ohio, e lo stesso Paul Ryan che è deputato del Wisconsin. Torna così alla mente la profezia che David Brooks scrisse alla vigilia delle midterm del 2006: “nell’epoca liberal, è stato il Nordest urbano a dominare il paesaggio. Nell’epoca conservatrice, sono stati il Sud e le comunità-dormitorio come quelle della California meridionale. Nell’epoca prossima ventura, il centro di gravità si sposterà verso le pianure del West e del Midwest, e verso i pragmatici centri residenziali sparpagliati un po’ dappertutto lassù”. Lo stesso Brooks ha rilanciato il giorno dopo le midterm dello scorso novembre, notando che per i democratici “le vecchie città industriali del Midwest sono state l’epicentro del disastro”: “Se Balzac fosse vivo oggi, si stabilirebbe in quella regione d’America che comincia in mezzo allo Stato di New York e alla Pennsylvania e si estende attraverso l’Ohio e l’Indiana fino al Wiskonsin e all’Arkansas. Si stabilirebbe tra le famiglie della classe operaia di quest’area. Lo farebbe perché è quello il cuore pulsante della vita americana, il luogo in cui si va determinando la traiettoria della politica americana. se l’America riesce a inventarsi un modo per costruire un futuro decoroso per la classe operaia di questa regione, allora gli USA resteranno una superpotenza egemone. Altrimenti, no”.
Vista così, anche la candidatura incolore di Tim Pawlenty può assumere una luce più intensa. La sua biografia (prontamente esposta nell’immancabile libro pre-elettorale) è quella di un “uomo qualunque” del Midwest, e se le prossime presidenziali avranno la stessa andatura “narrativa” e “biografica” di quelle del 2008, questo fattore potrebbe pesare più dei programmi e degli slogan. E’ la storia del minore di una nidiata di cinque fratelli di una famiglia di origini tedesche-polacche, cresciuto nella periferia di St. Paul (la metropoli gemella siamese di Minneapolis), figlio di una casalinga che morì di cancro al seno quando lui aveva 16 anni, e di un camionista che di lì a poco rimase disoccupato. Di un ragazzo che al liceo riceveva insulti e sputi perché tifava per Reagan. Di uno studente in legge (il primo della famiglia ad andare all’università) che al college conobbe quella che sarebbe divenuta sua moglie e che lo spinse a convertirsi dal cattolicesimo al cristianesimo evangelico. E’ la storia di un uomo del popolo, di quel popolo del Midwest in gran parte composto, come lo stesso Obama ebbe malauguratamente a dire passando per intellettuale snob, da "lavoratori amareggiati che si aggrappano alle pistole e alla religione". Era il 2008, c’erano le primarie presidenziali. Per Pawlenty potevano essere la grande occasione: non appena John McCain si assicurò la candidatura alla Casa Bianca, il primo nome a circolare nel toto-vice per il ticket elettorale repubblicano fu il suo. Aveva tutte le carte in regola: “giovane” (aveva 47 anni) e giovanile, quindi adatto a controbilanciare l’età avanzata del senatore dell’Arizona (simmetricamente a quanto Joe Biden sarebbe stato chiamato a fare affiancando l’inesperto senatore dell’Illinois), con esperienza di governo (che McCain non aveva, essendo da sempre solo un parlamentare), in sintonia con l’elettorato indipendente, e competente in campo economico (cosa che McCain ammetteva candidamente di non essere, il che lo avrebbe condannato più di ogni altra cosa con il deflagrare della Grande Recessione). Alla vigilia della convention (che si teneva nella “sua” St. Paul) era dato come favorito. Poi, a sorpresa McCain scelse Sarah Palin spiazzando tutti, lui compreso. I tempi cambiano, ma in un modo o nell’altro Pawlenty resta sempre un buon candidato, anche se di seconda fila. Quando Obama si insediò alla Casa Bianca con un tasso stellare di popolarità, tutto induceva a ritenere che i repubblicani avrebbero dovuto ripartire dalla ricerca di un “Obama di destra”, ossia – per dirla con le parole di un cronista di Newsweek – un mix di “irriconoscibilità + fighetteria + ispanici + Twitter + “essere gentili con i gay” + Facebook”. Pawlenty si propose in questo senso, a cominciare dall’attenzione per il web, sbandierando l’ingaggio di consulenti di “tecnologia politica” come Patrick Ruffini, Mindy Finn, Patrick Hynes and Liz Mair. Ora che invece prevale la delusione nei confronti del presidente in carica, la tendenza dominante è quella di cercare qualcuno che sia diverso da Obama, soprattutto nel senso che deve risultare più semplice, più autentico, più vicino alla gente comune di provincia e lontano dall’accademia e dalle élite metropolitane e cosmopolite. Obama stesso è alla ricerca di un’immagine del genere: basta dare un’occhiata al primo spot della campagna per la sua rielezione: minimalista e ed iperrealista come non mai, tutto fattorie e chiesette e villette a schiera. Ecco: proprio su questa roba Tim Pawlenty ha costruito tutta la sua carriera, tanto da aver coniato un’etichetta per definirla: “Sam’s Club Republican”, con riferimento ad una catena di negozi a basso prezzo frequentati dalle fasce più popolari della classe media (intraducibile, giocando potremmo azzardare “Repubblicano da Oviesse”), ed in sarcastica contrapposizione con la formula “Country Club Republican” tradizionalmente utilizzata per sottolineare la matrice “upper class” del Grand Old Party.
Inoltre, per avere qualche chance alle prossime primarie repubblicane è vitale avere almeno un po’ di appeal verso il mondo dei Tea Party e più in generale verso la pancia antistatalista della Right Nation. Anche Pawlenty qualche argomento ce l’ha: quando venne eletto governatore per la prima volta nel 2002, il Minnesota – tradizionalmente uno dei più assistenzialisti fra i 50 Stati dell’Unione - stava affrontando il più grave dissesto finanziario della sua storia, e nel 2005 e nel 2007 lui chiuse il bilancio quasi in pareggio senza aver alzato le tasse - e sopravvivendo ad un braccio di ferro con i sindacati dei dipendenti pubblici (in particolare degli insegnanti) che preconizzavano quelli che in questi giorni stanno infiammando il Wisconsin e l’Ohio. Può quindi a buon titolo rivendicare l’etichetta di “fiscal conservative”, conservatore antitasse (uno dei quattro più rigorosi, e l’unico ad aver governato uno Stato “blu”, secondo una classifica stilata dai libertarian del Cato Institute); il che lo rende bene accetto alla principale fazione conservatrice del partito. E siccome è anche un cristiano “born again” e un antiabortista, benché senza fanatismi, non dovrebbe stare antipatico neanche alla destra “religiosa”. Al contempo Pawlenty è tutt’altro che “schiacciato a destra”: essendo stato eletto e rieletto mai con la maggioranza assoluta, e la seconda volta per un solo punto percentuale) come governatore di uno stato tradizionalmente molto di sinistra, ha imparato a piacere anche agli elettori non repubblicani; ma senza eccessivi camaleontismi - a differenza di Mitt Romney, che ha alle spalle un trascorso analogo ma lo ha percorso in modo molto più ondivago, per cui nel 2008 si trovò a combattere con il proprio passato di governatore pro-choice ed oggi è minato dal fantasma di “RomneyCare”.
L’unica pecca nel suo curriculum è l’essere stato fortemente favorevole alla politica ecologica del “cap and trade”, il contingentamento delle emissioni inquinanti sul modello europeo, che oggi lui stesso osteggia; ma questo è un difetto che lo accomuna alla quasi totalità dei concorrenti, e quindi non dovrebbe risultare troppo tossico. In definitiva, per gli addetti ai lavori “T-Paw” (come cerca di farsi chiamare con piglio vagamente hip hop, che addosso a lui suona un tantino ridicolo) è quello che si definisce un candidato altamente “eleggibile”, nel senso che non scontenterebbe nessuno. Un giornalista dell’Economist lo ha addirittura definito “un placebo”, non per denigrarlo ma per affermare che a nessuna delle rissose componenti della galassia repubblicana risulterebbe indigesto: “è un po’ Romney, ma non così scivoloso; un po’ Huckabee, ma non così religioso; un po’ Gingrich, ma non così aggressivo; un po’ Daniels, ma non così accademico; un po’ Palin, ma non così spaventoso. Non è il candidato ideale di nessuno, ma nemmeno l’incubo di nessuno”.
Il suo vero punto debole è che rimane sconosciuto ai più nonostante sia spesso in televisione: per quanto si sforzi non è e non sarà mai un tipo carismatico né particolarmente interessante (quando un anno fa l’ex speechwriter di Bush Michael Gerson scrisse sul Washington Post che Pawlenty potrebbe essere un nuovo Reagan, ci fu subito chi lo sfotté pronosticando che l’unica cosa ad accomunarli sarà che nessuno dei due sarà presidente nel 2013). Delle due l’una: quella sua aria da bravo ragazzo di provincia sarà la sua principale forza, o il suo limite fatale.
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