lunedì 20 febbraio 2012

WOOLDRIDGE: E SE STAVOLTA FOSSE UN COSA SERIA?

“L'industria più florida d'America”: così ad ottobre la caporedattrice di Foreign Policy Susan Glasser definì il “declinismo”, ironizzando sulla produzione dilagante di libri ed articoli sul tema del tramonto della potenza a stelle e strisce.
Nei quattro mesi successivi il trend non ha fatto che aumentare, con una impennata nelle ultime settimane generata dall'uscita del nuovo saggio dell'antideclinista neoconservatore Bob Kagan (che ha trovato nel Presidente Obama uno sponsor inatteso).
L'ultimo intervento sul tema è il pezzo che Adrian Wooldridge ha firmato (si fa per dire, perché come da tradizione la firma non c'è – ma la paternità è certa perché è uscito nella sua rubrica economica “Schumpeter”) sull'ultimo numero dell'Economist, con il titolo “Stavolta è una cosa seria”.
Wooldridge è uno che se ne intende come pochi. Per tredici lunghi anni, dal 1996 al 2009 è stato a capo della redazione dell’Economist a Washington e titolare della mitica rubrica “Lexington” che segue i temi salienti della politica americana; nel 2004 è stato coautore (a quattro mani con John Micklethwait che dell'Economist è ora il direttore) dell'imprescindibile saggio“The Right Nation" sulla storia della destra statunitense. Il suo articolo di commiato, nel luglio del 2009, fu una rassegna degli elementi di crisi e decadenza – economica e geopolitica – degli USA, seguita però da un monito a non sottovalutare la proverbiale capacità dell'America di rialzarsi e tornare a difendere il suo primato.
Il suo nuovo pezzo non è molto diverso. “L'America si sta spegnendo?” si domanda in esordio, subito ammettendo che “Sembra strano dire questo di un Paese che domina in modo tanto forte le industrie del futuro. Dove altro Facebook avrebbe potuto evolvere da scherzo di uno studente a una società da 100 miliardi in meno di un decennio?”
Eppure, ammonisce Wooldridge, la questione potrebbe essere grave.
La sua analisi è in sostanza una recensione del nuovo numero della Harvard Business Review, dedicato alla “competitività dell'America”. Per un verso, molti dei saggi contenuti nella rivista dipingono gli Stati Uniti come un Paese in crisi, che sta perdendo la propria capacità di creare posti di lavoro di qualità, mentre la sua classe dirigente appare da anni più interessata ad incrementare i propri privilegi che a perseguire la crescita.
Al contempo, però, altri interventi tendono a spiegare “che, come disse Bill Clinton nel suo primo discorso inaugurale, non c'è niente di sbagliato in America che non possa essere curato con ciò che c'è di giusto in America. Il paese ha enormi punti di forza, dalle sue strepitose università alla sua sopportazione per l'assunzione di rischi. Ha un mercato molto diversificato: le imprese che cercanomanodopera a basso costo possono sempre spostarsi in Mississippi, dove i salari sono inferiori di un terzo rispetto a quelli del Massachusetts...”
Nel complesso, però, la sensazione complessiva espressa dagli studiosi di Harvard è, secondo Wooldridge, quella di un presagio funesto, a causa del cattivo stato della politica di Washington: imprevedibile, instabile, incapace di ragionevoli compromessi: “Intanto il deficit vegeta e la spesa dello stato sociale continua a lievitare, mentre le strade d'America si screpolano. Questa non è una ricetta per il dinamismo.”

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