mercoledì 25 luglio 2012

"L'AMERICA E' MORTA?" - FRANK RICH CONTRO IL PANICO DECLINISTA

“Dio è morto?” Nell'aprile del 1966 Time uscì con una copertina che scatenò grandi polemiche e sarebbe rimasta celebre: su di un fondale totalmente nero campeggiava, in rosso, questa scritta e nient'altro. Fu la prima volta in 43 anni che l'autorevole settimanale uscì con una cover sulla quale non appariva nessuna illustrazione ma solo una scritta. Il riferimento era ad un lungo pezzo che John T. Elson, il redattore del settimanale addetto alle questioni religiose, aveva elaborato nel corso di quasi un anno, sul tema della crisi dell'idea di Dio nella società contemporanea (il titolo, giocato sulla famosa frase di Nietzsche, fece scandalo; ma era in voga in quegli anni: persino nella cattolica Italia Francesco Guccini aveva già scritto la canzone “Dio è morto”, anche se i Nomadi l'avrebbero incisa solo nel '67).

Questa settimana il New York Magazine è uscito con una copertina che fa il verso a quella mitica di Time di 46 anni fa, solo che stavolta l'interrogativo è: “L'America è morta?”. La storia di copertina è un lungo pezzo di Frank Rich, uno dei più talentuosi ed influenti opinionisti della stampa di sinistra americana. Rich ha tenuto per molti anni una seguitissima rubrica settimanale sul New York Times, e da un paio d'anni è passato al New York magazine dove ne tiene una mensile. Stavolta la usa per inserirsi sul dibattito sullo scivolamento verso un mondo post-americano e sul tramonto dell'American Dream, che da mesi tiene banco nel dibattito pubblico non senza intersecare la campagna elettorale. Lui stesso lo descrive così:
Se c'è un grido di battaglia che oggigiorno riesce ad unire il nostro popolo tanto diviso, è l'invettiva secondo la quale il nostro Paese è andato all'inferno, e praticamente ogni fase dell'era moderna – forse con l'ecezione della Grande Depressione – è meglio dell'attuale picco negativo quanto ad armonia civile, patriottismo disinteressato e fermento di intraprendenza capitalistica. E' da ormai quattro anni – dal crack del 2008 e dall'ascesa di Barack Obama che lo ha accompagnato – che l'America si trova in pieno panico da declino. I libri di intellettuali, opinionisti e politici che proclamano il nostro imminente collasso sono stati una delle poche industrie solidamente in crescita in tempi difficili.
Rich non ci sta. La sua risposta all'inquietante interrogativo che campeggia sulla copertina della rivista è secca: no (sulla stesa copertina lo si può leggere in un apposito ironico rettangolino giallo). Egli, anzi, accusa “le molte Cassandre decliniste di destra, di sinistra e di centro”, da Pat Buchanan a Timothy Noah passando per Tom Friedman e Fareed Zakaria, di aver perso il senso della misura: “viviamo tempi difficili, ma dopotutto siamo un Paese che è sopravvissuto ad una guerra civile, a due guerre mondiali, alla Grande Depressione, all'Undici Settembre, al pantano del Vietnam e a quello dell'Iraq”.
Rich prende energicamente le distanze da questa ondata di disfattismo apocalittico, per spiegare la quale propone una sua teoria decisamente peculiare. Secondo lui l'America non sta affatto morendo, ma sta cambiando: l'America "di una volta" sta cedendo il passo ad un'America diversa, per via di cambiamenti etnici, sociali e culturali. I cambiamenti creano spesso disagio - specie in un periodo come questo in cui l'economia va male e ci sono molti problemi. Inoltre, secondo Rich, gli animi di molti americani sono ulteriormente turbati dal fatto di avere un presidente come Obama, giovane, di colore e cosmopolita. Obama vinse le elezioni quattro anni fa con lo slogan "il cambiamento in cui puoi credere", ma questo gli si ritorce contro perché, secondo la teoria di Rich, egli si ritrova ad incarnare nell'immaginario collettivo la perdita di vecchie certezze; gli umori pessimisti o nostalgici dei quali è pervasa l'america da lui governata altro non sarebbero, secondo Rich, che paura del cambiamento.
"Per quanto i problemi dell'America possano essere seri" scrive, "il panico declinista e' stato alimentato psicologicamente dall'avvento di Obama"; e l'establishment intellettuale, con tutto questo catastrofismo, non fa che alimentare "la voglia di un grande papa' bianco che riporti indietro i vecchi tempi".

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