“Sembra Facebook”. E' rimasta celebre questa dafinizione che Mark Penn, lo stratega della campagna per la candidatura presidenziale di Hillary Clinton, diede dell'allora rivale Barack Obama nel novembre del 2007. Voleva essere una definizione dispregiativa: nel senso che l’Obama poteva funzionare benissimo nel suscitare superficiale entusiasmo tra i ragazzi che passano il tempo a cincischiare su internet, ma la politica vera è un'altra cosa, e per vincere le elezioni serviva l'esperienza di un “usato sicuro” come Hillary.
Quella battuta venne invece percepita per lo più come un involontario elogio, perché la capacità di sfruttare come mai prima il social network per fare politica fu uno dei fattori che consentirono ad Obama di prevalere sulla rivale nelle primarie democratiche del 2008. Nello staff dell'allora senatore dell’Illinois era stato reclutato uno dei cofondatori di Facebook, l'allora appena24enne Chris Hughes, il biondino compagno di stanza di Mark Zuckerberg ad Harvard che pochi mesi fa è divenuto, fra l'altro il nuovo editore di The New Republic. Era lui il regista del sito My.BarackObama.com, dove i nuovi simpatizzanti confluivano spontaneamente con il passaparola telematico (consentendo al candidato di scavalcare il predominio degli insider sugli indirizzari dei “vecchi” volontari) e, oltre a tenersi in contatto con il quartier generale della campagna come tradizionalmente era sempre avvenuto, si tenevano in contatto anche fra di loro, costruendo a costo (quasi) zero un nuovo tipo di militanza almeno in parte “orizzontale”.
Oggi Hughes non lavora più nello staff di Obama, ma rientra tra i suoi sostenitori e finanziatori; così come Sheryl Sandberg, la chief operating officer di Facebook, la quale di recente ha ospitato a casa sua una serata di fundraising per la rielezione del presidente. Obama, dal canto suo, pur non essendone personalmente un appassionato utente (anzi), fa di tutto per mantenere una grande sintonia con il “mondo” di Facebook: poco più di un anno fa è stato il primo presidente in carica a prestarsi ad un dibattito in diretta streaming su Facebook, per l'appunto, facendosi intervistare da Zuckerberg in persona, con il quale ostentò confidenza al limite del cameratismo ("Buonasera, mi chiamo Barack Obama e sono il tipo che è riuscito a far mettere a Mark in giacca e cravatta. E' una cosa di cui vado molto fiero"…); e anche ora in campagna elettorale il nome del giovane Zuckerberg, viene abitualmente menzionato da Obama per esemplificare la capacità di innovazione degli Usa, accanto a quelli di Thomas Edison e di Bill Gates.
Ebbene: ieri Edward Luce, il capo della redazione di Washington del Financial Times, ha suggerito, nel suo editoriale domenicale (intitolato “Il presidente Facebook che ha bisogno di nuovi amici”), che il problema di immagine di Obama stia in parte qui: nel aver percorso una traiettoria troppo simile a quella di Facebook, nel senso che la sua candidatura fece sognare perchè aveva il fascino della assoluta novità, come la creatura di Zuckerberg quando era solo una “start-up”, ma poi una volta eletto si è attenuto ai cliché del politico di sistema, di establishment, ed ora, essendo a capo del “sistema” (analogamente a facebook che è ora una grande corporation quotata in borsa) non può può più contare sullo stesso appeal di quattro anni fa:
“Contrariamente a quanto accadde nel 2008, la campagna elettorale per la rielezione di Obama sta puntando sul fatto che quest'anno la sfida si vincerà con la mobilitazione più che con la persuasione. La sua priorità è quindi quella di compiacere alcuni determinati gruppi che stanno saldanmente bnela base dell'elettorato democratico, come i latinoamericani, i sindacati, i giovani e i gay – e presumibilmente ad un certo punto si aggiungeranno gli ambientalisti”.
La critica di Luce è che in questo modo Obama può anche riuscire a farsi rieleggere, ma solo nel modo in cui ci riuscì George Bush nel 2004, ossia con un mandato elettorale di corto respiro destinato ad un rapido logoramento. Non basta convincer edi essere il meno peggio ed ottenere una proroga: è necessario ispirare fiducia in una visione del futuro che per ora non riesce a convicere di avere. Ha scelto lo slogan “Forward” (Avanti), ma – scrive Luce - non è affatto chiaro verso cosa.
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