Oggi su Linkiesta:
In teoria, la politica americana in queste ore dovrebbe ruotare attorno al risultato dello “straw poll” tenutosi sabato in Iowa, una sorta di simulazione delle primarie repubblicane che si terranno fra cinque mesi per scegliere il candidato che sfiderà Obama. E quindi attorno alla vittoria della signora dei “Tea Party” Michele Bachmann, alla sconfitta dell'ex governatore del Minnesota Tim Pawlenty (che oggi ha annunicato il ritiro della sua candidatura), e così via.
Domenica a Charleston, in South Carolina, Rick Perry, il governatore del Lone Star State, ha annunciato la propria candidatura, tardiva quanto carica di aspettative. Il che cambia tutto. Tanto per dare un'idea: l'ex governatore del Massachussetts
Mitt Romney, sino ad ora considerato il favorito, pur non partecipando ufficialmente alla consultazione ha preso 567 voti; Perry, che oltre ad essere anche lui formalmente fuori dalla votazione si era candidato da poche ore, ne ha presi 718.
Aveva ragione Paul Burka. Che non è un elettore di Rick Perry, né un suo ammiratore: è uno che ha cominciato a tenerlo d'occhio e a prenderlo sul serio molto prima degli altri, fin da quando mosse i primi passi in politica negli anni Ottanta. All'epoca Burka era un redattore del
Texas Monthly, il principale periodico texano, che oggi dirige; e Perry era un giovane deputato democratico del parlamento di Austin. Oggi Burka può vantarsi di essere stato un buon osservatore. Quando, nel febbraio del 2010, si capì che Perry si avviava a vincere delle altre primarie, quelle in cui si giocava la possibilità di candidarsi ad una terza rielezione come governatore,
il Texas Monthly fece una copertina con il titolo "Perry for President!?!" e un photoshop che lo ritraeva nel giardino della Casa Bianca al posto di
Barack Obama che vi si era appena insediato. “Credetemi” scriveva Burka “qui non si tratta del 2010, ma del 2012”.
Ma all'epoca nessuno era disposto a prendere sul serio quella ipotesi; nessuno dubitava che Perry, che secondo molti a malapena poteva sperare nella rielezione come governatore, facesse sul serio quando si schermiva dichiarando di non avere altre mire se non quella di continuare a fare quello che lui stesso definiva “il lavoro più bello del mondo”.
Certo, essere governatore del Texas non è cosa da poco.
Se fosse una nazione indipendente oggi sarebbe la dodicesima potenza economica del mondo, grosso modo alla pari con la Russia; e negli anni in cui il Massachussetts governato da Mitt Romney si piazzava al 47esimo posto su 50 nella classifica della creazione di posti di lavoro, il Lone Star State ha conquistato saldamente il primo posto. Si calcola che nell'ultimo decennio, mentre gli Usa nel loro complesso hanno perso più di due milioni di posti di lavoro nel settore privato, il Texas ne abbia guadagnati oltre settecentomila. Ma soprattutto dall'estate del 2009 ad oggi, da quando cioè si considera conclusa la Grande Recessione e partita la fase di “ripresa” che in questi giorni si teme stia precocemente esaurendosi, il Texas, da solo, ha prodotto più di metà dei nuovi posti di lavoro creati in tutti gli Usa. Lo scorso dicembre la democratica Brookings Institution ha sfornato la classifica delle “venti città che guidano la ripresa” in base alle nuove assunzioni: in una Top20 nella quale nessun altro Stato era presente con più di due città, sei erano texane. Ad identiche conclusioni giunge la rivista Forbes che ogni anno stila una classifica “The Best Cities for Jobs”: le prime postazioni sono esclusivo appannaggio delle città texane.
Questi risultati fanno la gioia dei fautori dello small government, perché il
“modello texano” è caratterizzato da pochissime tasse, welfare ridotto all'osso, spesa pubblica ai minimi termini, e sindacati quasi inesistenti. Peggio le cose vanno altrove, più le aziende spostano lì le loro sedi e i loro stabilimenti; di conseguenza, sempre più gente emigra in Texas in cerca di impiego. Secondo il censimento nazionale dell'anno scorso, il tasso di immigrazione interna del Texas è più che doppio rispetto alla media nazionale: la sua popolazione, in crescita di mezzo milione all'anno, è passata nell'ultimo decennio da 21 a 25 milioni di abitanti. Solo la California rimane per ora più popolosa – primato che detiene dal 1962 – ma la sua popolazione, che supera di poco i 37 milioni, non è cresciuta neanche di due rispetto al 2000. A questo ritmo, in meno di dieci anni i texani saranno più numerosi dei californiani. Il che determina la redistribuzione fra gli Stati dei seggi alla Camera dei Deputati, e quindi la riattribuzione di altrettanti “voti elettorali”, cioè del peso che ciascuno Stato avrà nell'elezione del presidente degli Stati Uniti a partire dal 2012. Il Texas, Stato conservatore per antonomasia (l'ultimo candidato democratico alla Casa Bianca a vincere laggiù fu
Jimmy Carter nel 1976), guadagna ora la bellezza di quattro nuovi seggi, mentre la liberal California per la prima volta da quando esiste come Stato (1850, l'epoca della Corsa all'Oro) non vede aumentare nemmeno di uno la sua attuale delegazione di 53 deputati.
Di tutto questo Rick Perry non è l'artefice, ma può facilmente proporsi come l'uomo-simbolo. Può bastare per ambire alla carica di leader del Mondo Libero? Sono passati appena tre anni da quando l'America ha eletto Barack Obama. Allora parve quasi volesse redimersi dalla presidenza di un altro texano, del quale Perry è stato vice e poi successore. Ma attenzione: quella che Perry rappresenta non è una semplice riedizione di George W. Bush, magari un po' più fotogenica. Bush al confronto di Perry è un texano di cartapesta, il rampollo viziato di una dinastia di patrizi da country club trapiantatasi con successo dal New England a Houston, un figlio di papà dalla vita facile - il cui papà, oltre che petroliere, era stato capo della CIA, ambasciatore a Pechino, ed accidentalmente pure vicepresidente e poi presidente degli Stati Uniti.
Quella di Perry è tutta un'altra storia, e non solo perché quando si mise in politica il suo cognome era sconosciuto e i fondi per pagare la campagna elettorale non li procurava papà.
Per capire di chi stiamo parlando,
scrive Paul Burka nel suo blog, bisogna partire dal luogo in cui è nato e cresciuto, una località del Texas occidentale di nome Paint Creek: “non è una città, nemmeno un paese: è il letto asciutto di un corso d'acqua che corre attraverso i campi di cotone nel Sud della contea di Haskell. I suoi genitori erano contadini, e per di più contadini in una terra arida, che è la più dura tra le versioni possibili della vita contadina”. Lo stesso Perry racconta che “c'erano parti della casa in cui si poteva guardare fuori attraverso le crepe”, e che ci si lavava in una vasca esterna finché suo padre non installò dei tubi per l’acqua corrente.
Quando arrivò il momento degli studi universitari, Bush venne mandato a Boston per farsi la sua brava laurea ad Harvard, da buon aristocratico; Perry invece rimase in Texas e studiò alla “A&M University”, un college statale locale, dove si laureò in scienze zoologiche, da perfetto contadino. Poi si arruolò nell'aviazione militare e trascorse buona parte degli anni Settanta a pilotare i C-130 Hercules in Europa ed in Medio Oriente, per poi congedarsi con i gradi di capitano. Anche qui balza all'occhio il confronto con Bush che si era imboscato nell'aviazione della Guardia Nazionale per non andare in Vietnam.
Ma alla differenza biografica si somma quella politica: Bush, che preparò la propria ascesa sulla scena politica nazionale nell'epoca di vacche grasse della prosperità tardo clintoniana (e all'indomani della battuta d'arresto subita dall'antistatalismo duro e puro di
Newt Gingrich), professò e praticò una propensione all'intervento statale, dalla pubblica istruzione alla sanità, che non sarebbe ammissibile per i repubblicani di questi giorni. Se l'interventismo spendaccione di Bush veniva venduto come “conservatorismo compassionevole”, quello di Perry,
ha notato il direttore della National Review Rich Lowry, è un conservatorismo decisamente non compassionevole, disposto a tagliare con l'accetta non solo le tasse ma anche la spesa pubblica, tutto giocato sulla polemica antistatalista contro l'invadenza del governo negli affari dei privati cittadini e delle imprese e su quella federalista contro l'invadenza di Washington negli affari dei singoli Stati membri dell'Unione.
Inoltre Perry, a differenza di Bush, non ha mai perso una sola elezione in tutta la vita. Vinse nel 1989, quando semisconosciuto, subito dopo essere passato al Partito repubblicano, riuscì a farsi eleggere commissario per l'Agricoltura del Texas al posto del democratico Jim Higtower, uno talmente popolare che si fantasticava un giorno avrebbe potuto diventare presidente. Dieci anni dopo, anziché farsi rieleggere per la terza volta a quella carica, riuscì a battere il democratico John Sharp nell'elezione a vicegovernatore dello Stato, quando Bush venne eletto governatore (in Texas si tratta di due elezioni disgiunte, non in ticket). Ironia della sorte, lo stratega della campagna dello sconfitto Sharp era
David Axelrod, futuro guru delle vittorie elettorali di Barack Obama. Nel 2000, quando Bush divenne presidente, Perry gli subentrò come governatore; e poi venne eletto direttamente nel 2002, e poi ancora nel 2006.
Quando nel 2009 si dichiarò intenzionato a proporsi per una terza rielezione, sembrava avere poche chance nelle primarie repubblicane, nelle quali si era candidata la potentissima Kay Bailey Hutchinson: prima senatrice donna nella storia del Texas, fortemente appoggiata dall'establishment del partito e sino ad allora detentrice del record di voti elettorali in quello Stato (era stata eletta al Senato quattro volte, sempre con più del 60%). Come se non bastasse, sull'ala destra correva la candidata dei Tea Party Debra Medina, una libertarian vicina a Ron Paul. Eppure Perry, pur essendo al potere da dieci anni, riuscì ad imporsi con una campagna populista, accaparrandosi il sostegno di
Sarah Palin e facendo apparire la Hutchinson come troppo moderata e troppo legata alla ormai odiatissima “casta” di Washington.
Quando a marzo stravinse le primarie, Paul Burka ribadì quello che aveva scritto il mese prima: che in ballo c'era molto di più del governatorato del Texas, che stavolta veniva usato come trampolino. “Chi meglio di lui sarebbe un perfetto candidato repubblicano alla presidenza? Mitt Romney è probabilmente il migliore sul piano dell'armamentario intellettuale, ma non è in grado di ispirare nulla alla gente. Tutti parlano dell'inconveniente legato al fatto che è di religione mormone, ma il suo problema maggiore è che non riesce ad apparire come uno normale con cui vorresti andare a caccia. Sarah Palin, al contrario, ha le qualità comunicative per essere presidente, ma non quelle intellettuali. Ed è troppo di parte per vincere un'elezione generale. Perry invece è perfetto. Ha vinto le primarie espandendo la base del Partito repubblicano. Lui e i suoi hanno appreso il potere dei social media da come Obama li aveva usati nella campagna del 2008. Non ha appeso manifesti, non ha bussato a nessuna porta. Ha puntato tutto su apparizioni personali e sul contatto diretto con gli elettori tramite i media elettronici... Lo sfidante democratico per il governatorato del Texas farebbe bene a non sottovalutarlo: sarà anche più intelligente di lui, ma deve considerarsi come un principiante contro un professionista. Altrimenti farà la stessa fine della Hutchinson”.
Lo sfidante democratico era Bill White, già sottosegretario all’energia nell'amministrazione Clinton e poi sindaco di Houston. Ne uscì con le ossa rotte. In Texas per diventare governatore basta la maggioranza relativa dei voti, e Perry nel 2006 era stato rieletto con appena il 39%; nel 2010 ha incassato il 55%. L'elezione si è tenuta assieme a quella di mid-term con la quale i repubblicani hanno ripreso il controllo del Congresso a Washington e in quasi tutti i parlamenti locali, e in Texas la rimonta è avvenuta all'ennesima potenza. Dopo le elezioni del 2008, concomitanti con l’elezione di Obama alla Casa Bianca, i centocinquanta seggi della Camera dei Deputati di Austin erano perfettamente ripartiti fra 75 Repubblicani e 75 Democratici; lo scorso novembre 99 sono andati ai Repubblicani e 51 ai Democratici.
A gennaio Perry – che nel frattempo è stato messo a capo anche della associazione dei governatori repubblicani - si era (re)insediato per la quarta volta, con un discorso spavaldo tutto giocato sull'
antagonismo verso la democratica ed indebitata California: «Un domani gli storici guarderanno indietro a questo come al secolo texano. Un tempo gli americani in cerca opportunità ed inspirazione guardavano alla East Coast; poi si sono rivolti alla West Coast; oggi guardano alla Costa del Golfo, guardano al Texas».
Domenica con il suo discorso in South Carolina, ha fatto il salto di qualità vaticinato da Burka, invitando Obama a farsi da parte perché «il cambiamento che vogliamo non verrà emanato da Washington: verrà dalle ventose praterie nel cuore dell'America, dalle fattorie e dalle fabbriche sparse per questa grande terra, dai cuori e dalle menti degli americani timorati di Dio che non accetteranno un futuro che sia qualcosa di meno del nostro passato, che non si arrenderanno ad un destino di meno libertà in cambio di più Stato».
Perry ha già mostrato una abilità non comune saltando a pie’ pari non solo lo “straw poll” dell'Iowa, ma tutta la tradizionale trafila del comitato esplorativo, dei primi dibattiti televisivi e delle comparsate primaverili alle sagre paesane del Midwest. Mentre i candidati della prima ora si sfinivano zelanti in quel rituale, gli elettori avevano ben altro di cui preoccuparsi: la disoccupazione, il debito pubblico fuori controllo, e infine persino l'incubo della ricaduta in una Seconda Grande Recessione. Mai come ora la profezia di Paul Burka sembra in procinto di avverarsi: “se guardate alla sua carriera, pare che il destino stia sempre combinando l'universo in modo da consentirgli di trovarsi sempre nel posto giusto al momento giusto”.