Oggi Barack Obama compie 49 anni, ma non è tempo di festeggiare
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di Alessandro Tapparini
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Quando oggi Barack Obama soffierà le quarantanove candeline sulla sua seconda torta di compleanno presidenziale, i fotografi avranno il loro bel da fare per non inquadrare le fosche nubi che si addensano sullo sfondo. Mancano solo tre mesi dalle elezioni di medio termine, e pare che i repubblicani si accingano a riprendere il controllo di tutto il Congresso, non solo alla Camera ma anche al Senato.
Le mid-term elections servono ad eleggere tutti i deputati ed un terzo dei senatori. Di fatto, però, ad essere in gioco è soprattutto la Casa Bianca, sia perché il parlamento che ne esce stabilisce i limiti del suo potere nel biennio a seguire, sia perché l'esito delle urne è vissuto come un referendum per stabilire se a due anni dall'elezione del presidente la gente ritiene di star meglio o peggio. Va da sè, quindi, che quando l'economia va male la batosta è garantita per il partito al governo.
Larry J. Sabato, venerato politologo della Università della Virginia, sostiene che se si votasse oggi i democratici ne uscirebbero dissanguati da una emorragia di una trentina di seggi alla Camera e di sei-sette al Senato: come quella subita da George W. Bush al culmine della sua impopolarità, nel novembre del 2006. Obama si vedrebbe così trasformato, a tempo di record, da presidente più osannato degli ultimi decenni ad “anatra zoppa”.
Certo, anche Bill Clinton nel 1994, pur essendo stato eletto appena due anni prima con una maggioranza trionfale (aveva inflitto a Bush padre la quarta più grave sconfitta elettorale mai riportata da un presidente uscente, anche se in parte grazie alla candidatura terzista del miliardario texano Ross Perot), subì alle sue prime midterm una disfatta che ne segnò irreversibilmente la presidenza: i repubblicani conquistarono ben 54 seggi alla Camera ed otto al Senato. Clinton, però, se la vide con un'opposizione in forma smagliante, capitanata da un leader tostissimo (Newt Gingrich) e dotata di un programma preciso e coerente (il “Contract with America”), tant'è che quella campagna viene ricordata nientemeno che come Republican Revolution.
Obama invece beneficia di una opposizione divisa e sfaldata, e del tutto sprovvista di leadership: per la pronosticata debacle non avrebbe quindi attenuanti.
Secondo Sabato, i democratici hanno un unico precedente a cui potersi rifare. Nel 1982, Ronald Reagan testava la sua popolarità due anni dopo aver fatto riconquistare ai repubblicani non solo la Casa Bianca, ma anche molti seggi in parlamento e addirittura la maggioranza al Senato, dove erano stati all’opposizione da un quarto di secolo. La perdurante recessione economica (con disoccupazione attorno al 10%, proprio come oggi) lasciava presagire una catastrofe per il partito del presidente. I repubblicani puntarono su una campagna di spot televisivi giocati sullo slogan “e dài, diamogli una possibilità” (Let's give the Guy a chance), quasi si rivolgesse a dei ragazzini impazienti, rassicurandoli facendo leva sulla chiave di volta della retorica reaganiana: l'ottimismo. Il disastro fu scongiurato. A novembre i neoletti democratici furono ben cinquantasette, mentre quelli repubblicani furono solo ventiquattro; ma i repubblicani persero solo 26 seggi alla camera, meno della metà di quelli pronosticati; e miracolosamente non persero nemmeno un seggio al Senato, anzi addirittura ne conquistarono uno in più. E' questo “il solo caso in epoca moderna” – enfatizza Sabato – in cui in tempi di crisi economica il partito al governo ha ottenuto una “mezza vittoria” alle midterm.
Le mid-term elections servono ad eleggere tutti i deputati ed un terzo dei senatori. Di fatto, però, ad essere in gioco è soprattutto la Casa Bianca, sia perché il parlamento che ne esce stabilisce i limiti del suo potere nel biennio a seguire, sia perché l'esito delle urne è vissuto come un referendum per stabilire se a due anni dall'elezione del presidente la gente ritiene di star meglio o peggio. Va da sè, quindi, che quando l'economia va male la batosta è garantita per il partito al governo.
Larry J. Sabato, venerato politologo della Università della Virginia, sostiene che se si votasse oggi i democratici ne uscirebbero dissanguati da una emorragia di una trentina di seggi alla Camera e di sei-sette al Senato: come quella subita da George W. Bush al culmine della sua impopolarità, nel novembre del 2006. Obama si vedrebbe così trasformato, a tempo di record, da presidente più osannato degli ultimi decenni ad “anatra zoppa”.
Certo, anche Bill Clinton nel 1994, pur essendo stato eletto appena due anni prima con una maggioranza trionfale (aveva inflitto a Bush padre la quarta più grave sconfitta elettorale mai riportata da un presidente uscente, anche se in parte grazie alla candidatura terzista del miliardario texano Ross Perot), subì alle sue prime midterm una disfatta che ne segnò irreversibilmente la presidenza: i repubblicani conquistarono ben 54 seggi alla Camera ed otto al Senato. Clinton, però, se la vide con un'opposizione in forma smagliante, capitanata da un leader tostissimo (Newt Gingrich) e dotata di un programma preciso e coerente (il “Contract with America”), tant'è che quella campagna viene ricordata nientemeno che come Republican Revolution.
Obama invece beneficia di una opposizione divisa e sfaldata, e del tutto sprovvista di leadership: per la pronosticata debacle non avrebbe quindi attenuanti.
Secondo Sabato, i democratici hanno un unico precedente a cui potersi rifare. Nel 1982, Ronald Reagan testava la sua popolarità due anni dopo aver fatto riconquistare ai repubblicani non solo la Casa Bianca, ma anche molti seggi in parlamento e addirittura la maggioranza al Senato, dove erano stati all’opposizione da un quarto di secolo. La perdurante recessione economica (con disoccupazione attorno al 10%, proprio come oggi) lasciava presagire una catastrofe per il partito del presidente. I repubblicani puntarono su una campagna di spot televisivi giocati sullo slogan “e dài, diamogli una possibilità” (Let's give the Guy a chance), quasi si rivolgesse a dei ragazzini impazienti, rassicurandoli facendo leva sulla chiave di volta della retorica reaganiana: l'ottimismo. Il disastro fu scongiurato. A novembre i neoletti democratici furono ben cinquantasette, mentre quelli repubblicani furono solo ventiquattro; ma i repubblicani persero solo 26 seggi alla camera, meno della metà di quelli pronosticati; e miracolosamente non persero nemmeno un seggio al Senato, anzi addirittura ne conquistarono uno in più. E' questo “il solo caso in epoca moderna” – enfatizza Sabato – in cui in tempi di crisi economica il partito al governo ha ottenuto una “mezza vittoria” alle midterm.
L'attuale strategia di Obama non sembra però orientata su quel modello. Pare semmai basata sulla considerazione che i sondaggi attribuiscono un alto tasso di impopolarità anche all'opposizione repubblicana.
A maggio, Howard Fineman di Newsweek (testata più che benevola nei confronti del presidente) notava che mentre la campagna con la quale Obama ha conquistato la presidenza era positivamente incentrata sul futuro (speranza, cambiamento, ottimismo, superamento delle divisioni), quella per le elezioni di medio termine è negativamente incentrata sul passato recente, sullo spauracchio di un ritorno a ciò di cui due anni fa la maggioranza degli elettori decise di sbarazzarsi. Per rendere l'idea, Fineman citava un comizio newyorkese in cui il presidente aveva paragonato il proprio compito al “rimettere in strada l'automobile finita in un fosso” solo per ricordare che erano i repubblicani a tenere il volante quando l'auto era finita fuori strada.
Concorda Michael Scherer, corrispondente dalla Casa Bianca per TIME, secondo il quale il messaggio di Obama è: non chiedetevi se state meglio di due anni fa, ma quanto peggio potreste stare se non aveste scelto me. Cita un suo comizio in Winscosin lo scorso giugno : “lo so, a volte la gente non ricorda quanto male andavano le cose e quanto male avrebbero potuto andare”. Il risultato che il presidente rivendica non è quello di aver prodotto un miglioramento, bensì di aver impedito un peggioramento: “Invece di dare una cosa, avrebbe garantito una non-cosa”.
Scontato il rincaro del conservatore Wall Street Journal: “ 'lo sappiamo che state peggio di due anni fa, ma non è colpa nostra' non è un argomento granché seducente, anche a voler concedere che possa essere fondato. In questo modo, la campagna del 2008 'Hope' (speranza) cede il passo nel 2010 ad una della serie 'Fear' (paura)”.
La conferma è giunta venerdì scorso, quando Obama, affiancato da Sergio Marchionne, ha tenuto un comizio presso lo stabilimento di Jefferson North (appena fuori Detroit) della Chrysler, una delle due case automobilistiche – l'altra è la GM – salvate da un mega intervento statale da 60 miliardi di dollari, duramente contestato dall'opposizione repubblicana. Parlando agli operai scampati al licenziamento, e rivendicando il fatto che nel settore dell'auto sono riprese le assunzioni (peraltro anche presso la Ford, che non ha beneficiato di quel “salvataggio” statale...), il presidente ha voluto “ricordare che se al governo fosse andata certa gente, tutto ciò non sarebbe accaduto. Questa fabbrica, ed il vostro posto di lavoro, oggi forse non esisterebbero”.
Gli operai della Chrysler lo hanno applaudito entusiasticamente. Presto sapremo se l'argomento avrà fatto breccia nella platea, ben più vasta e composita, dei contribuenti dalle cui tasche sono usciti quei 60 miliardi.
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