Oggi su Libertiamo:
Quando lunedì mattina l'America si è svegliata, come da copione, salvata con un accordo in extremis dal default per sfondamento del tetto legale al debito pubblico, il clima era più che altro isterico.
L'accordo, per ora - una parte andrà definita a novembre - è fatto esattamente come i repubblicani hanno preteso con una insistenza di fronte alla quale Obama (del quale è risaputo il passato di provetto giocatore di poker) due settimane fa aveva fatto inutilmente la faccia feroce diffidandoli anon sfidarlo per vedere se stava bluffando: solo tagli alla spesa pubblica e nessuna nuova tassa (la principale concessione da parte del GOP è la messa in discussione della spesa militare, ma solo in termini eventuali, nella parte della manovra da ridiscutere in autunno).
Ma va anche detto che sono tagli spalmati nel prossimo decennio: fin tanto che è in carica questo congresso – e questo presidente - entreranno in vigore in misura a dir poco marginale. Difficile intravedere una svolta epocale, in positivo o in negativo.
Ciò nondimeno, lunedì l'editoriale del Wall Street Journal, intitolato euforicamente “Un trionfo del Tea Party”, gongolava per la "vittoria per la causa dello "small government”, la più grande dalla riforma del welfare dal 1996”. “Se i tagli reggono” commentava il WSJ "questo provvedimento potrebbe riuscire a cancellare il danno arrecato dallo stimulus Obama-Nancy Pelosi. Il che non è poco, considerato che i repubblicani non controllano né il Senato né la Casa Bianca”. Merito dei teapartier, che "hanno costretto i due grandi partiti ad attuare i più importanti tagli degli ultimi 15 anni" (da notare la ripetuta rievocazione del ridimensionamento del welfare che il Congresso a maggioranza repubblicana impose a Bill Clinton al termine del suo primo mandato).
Sul fronte opposto, il New York Times ha affidato la lamentazione ad un Paul Krugman ormai sempre più ideologo e sempre meno economista, il quale ha maledetto l'accordo raggiunto come "una catastrofe, su più piani": sul piano economico, perché (dato per sottinteso che la spesa pubblica era – secondo lui - l'unico espediente in grado di combattere la recessione) "quelli che in questa fase vogliono tagliare la spesa sono come i medici del medio evo che trattavano i malati con il salasso, e così li rendevano ancora più malati"; e sul piano politico, perche' stabilendo questo precedente si e' dimostrato che il sistema fa vincere chi e' più spregiudicatamente disposto a generare una grave crisi pur di imporre la propria linea, e quindi si sono declassati gli USA a “repubblica delle banane”. Colpa di Obama, ha tenuto a sottolineare Krugman sin dal titolo: il presidente "si e' mosso troppo tardi", "ha ceduto al ricatto", eccetera.
Tempo qualche ora, l'isteria ha ceduto il passo alla depressione. Nessun vincitore: non Obama, che ha portato a casa l'accordo solo concedendo alla controparte praticamente tutto; non i Tea Party, che pretendevano quasi il doppio dei tagli concordati (e l'introduzione dell'obbligo legale di portare il bilancio in pareggio); e neanche l'establishment repubblicano, considerato che nel negoziato lo speaker della camera Boehner ha mostrato scarsa capacità di governare le divisioni interne al partito ed è apparso non leader ma trascinato dalla corrente (lui stesso appena approvata la legge si è affrettato a commentare su Twitter che “non c'è niente da festeggiare”), e che tutti i candidati alle primarie del GOP (unica eccezione, che conferma la regola, l'ultra-centrista Huntsman, sempre più minuscolo nei sondaggi) hanno fatto a gara nel prendere le distanze manifestando dissenso.
Alla Camera la legge è passata lunedì con il voto favorevole di quasi tre quarti dei repubblicani, 174 contro 66 (32 contro 28 nell'ambito del “Tea Party Caucus”), e la metà secca di quelli democratici, 95 contro 95. L'indomani al Senato, quando ormai il voto contrario aveva valenza meramente simbolica, si sono schierati per il “no” ben 19 repubblicani (tra i quali l'astro nascente Marco Rubio), contro appena 6 democratici e un indipendente.
Oggi il dato politico più pesante è l'ulteriore azzoppamento della presidenza Obama.
Già prima dell'epilogo dello psicodramma del debito, la Gallup aveva rilevato che il consenso verso l'operato del presidente era precipitato al 40% (ai primi di giugno era al 50), segnando un record negativo, e che gli elettori registrati inclini a votare alle presidenziali dell'anno prossimo per “un candidato repubblicano qualunque” sono saliti al 47% contro il 39% di propensi a votare per la rielezione di Obama (altro record).
A seguire, sono arrivati i dati sulla crescita del PIL, tragicamente più miseri rispetto alle stime iniziali che pure erano piuttosto anemiche: la ripresa anziché ingranare sembra stia già perdendo quota, e c'è chi comincia a paventare una ricaduta nella recessione. Difficile venir rieletti con questi numeri, perché, si sa, “it's the economy, stupid”.
Infine domenica, il giorno del sospirato accordo, Rasmussen ha rilevato che la percentuale degli elettori che trovano Obama “troppo incline allo scontro” è schizzata al 30% (un mese fa era al 21).
Un anno fa, in occasione del compleanno di Barack Obama, facevo il punto sulle pessime prospettive per le elezioni di mezzo termine rilevando pessime previsioni, a meno di grossi cambiamenti. Si sono avverate.
Oggi tirerà un'aria ancora meno spensierata quando il presidente soffierà le sue 50 candeline, ad un party nella sua sweet home Chicago che più che cool si preannuncia tristemente cold, a dispetto del concerto di Herbie Hancock. Il biglietto costa fino a 35.800 dollari a coppia: serve per finanziare una campagna di rielezione che si preannuncia a dir poco in salita. A meno di grossi cambiamenti.
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