Oggi su Notapolitica:
Sfidare Barack Obama nelle elezioni dell’anno prossimo significa sfidare decenni di storia: di solito al termine del primo mandato il presidente uscente viene “sempre” rieletto.
Ogni regola, si sa, ha le sue eccezioni. Ma per trovare un presidente silurato dopo un solo mandato dobbiamo andare indietro di vent’anni, quando Bush padre subì la quarta più grave sconfitta elettorale mai riportata da un presidente uscente (anche se parte della colpa fu di Ross Perot, il miliardario texano che candidandosi come indipendente fuori dai due grandi partiti dirottò su un binario morto diciannove milioni di voti in gran parte provenienti dall’elettorato “reaganiano”).
Quel precedente, però, lascia il tempo che trova, perché in quel caso il pendolo aveva oscillato dopo dodici anni consecutivi di presidenza repubblicana: Bush nell’88 era riuscito a succedere a San Ronald Reagan promettendo una diretta prosecuzione della presidenza del suo popolarissimo predecessore, di cui era stato il vice (e già la successione del vice uscente rappresenta un fatto eccezionale – ne sa qualcosa Al Gore, ma ci era passato anche Nixon).
Per trovare un precedente pertinente, tocca quindi risalire alla sconfitta di Jimmy Carter nel 1980, determinata dal carisma di Reagan ma anche dall’urgenza di far fronte a difficoltà, sia in campo economico che in politica estera, che rendevano oggettivamente insostenibile la prosecuzione di una presidenza fragile ed inconcludente.
L’ottimismo ostentato dal diabolico Karl Rove nell’argomentare la “battibilità” di Obama è quindi tutto giocato sul pronostico che dopo trent’anni si stia per ripetere una sconfitta alla Carter.
Non è probabile, ma non è del tutto impossibile. I dati sull’economia e sull’occupazione sono piuttosto sconfortanti, e che in giro per il mondo gli USA stanno combattendo quattro o cinque guerre nessuna delle quali sta regalando troppe soddisfazioni. La stagione primaverile dei sondaggi si è conclusa con la rilevazione da parte della Gallup del sorpasso su Obama da parte del “candidato repubblicano qualunque”, per la prima volta da quando il 44esimo presidente è stato eletto. E non è detto che l'estate porti notizie tanto più rosee.
Ma se Obama non può dormire sonni tranquilli, altrettanto può dirsi di colui che sarebbe in teoria il favorito nella competizione per sfidarlo.
L'alternativa pareva poter essere Tim Pawlenty, ma dopo la sua deludente performance nel dibattito televisivo in South Carolina resta l'impressione di un vuoto da colmare.
Martedì scorso ha tentato di occuparlo Jon Huntsman, fattosi avanti con il preannunciato comizio con la statua della libertà alle sue spalle - e con il resto dei contendenti repubblicani alla sua destra, come ha notato il corrispondente del Los Angeles Times Paul West. Hunstman è infatti senza dubbio il candidato più centrista e “per bene”; ed è anche il più elitario, provenendo al contempo dal mondo del big business (l’azienda di famiglia è il fornitore storico degli imballaggi per i panini della McDonald’s) e da quello della diplomazia (ambasciatore a Pechino fino a pochi mesi fa). Qualcuno lo ha definito il “candidato anti-TeaParty”. Per ora sembra aver raccolto grande entusiasmo tra i giornalisti e gli opinionisti, ma gli elettori sembrano di ben altro avviso: su questo sono ineccepibili, al solito, le istantanee scattate da Andrea Salvadore e da Andrea Mancia.
Resta dunque molto spazio da riempire, soprattutto sul versante più conservatore ed antiestablishmentarian. Tenterà di appropriarsene la pasionaria dei Tea Party Michele Bachmann, che ufficializza la sua candidatura lunedì prossimo. Ma il nome che circola con crescente insistenza è un altro. Se alla fine dell'estate nessuno dei candidati “ufficiali” avesse preso quota, il tavolo di gioco potrebbe venire scompaginato dall’irruzione di una “wild card”, un concorrente “speciale” che esca dall’ombra in extremis. Il nome sulla bocca di tutti è quello di Rick Perry, il governatore del Texas. Un personaggio tutto da scoprire: soprannominato dai suoi detrattori "Governor Goodhair" (Governatore Bellicapelli) per via dell’aspetto pacchianamente fotogenico, negli anni Ottanta era in politica tra le fila del partito Democratico (il che però in Texas non significava necessariamente essere “di sinistra”), fino al 1988 quando aveva persino fatto campagna per Al Gore alle primarie; dopodiché era passato ai repubblicani, ed infine era stato eletto vicegovernatore quando George W Bush fu eletto governatore (altra particolarità texana: le due cariche vengono decise separatamente, non in ticket). Quando nel 2000 W. è stato eletto presidente, Perry gli è subentrato come governatore, e di lì nessuno l’ha più schiodato. Al governo del Lone Star State da più di dieci anni – record assoluto nella storia dello Stato – è stato rieletto a novembre, dopo aver sbaragliato alle primarie sia la candidata dei Tea Party - dalla quale, complice l'appoggio di Sarah Palin ma anche un suo personale appeal populista, non si era fatto sfilare i consensi della base più conservatrice – sia la senatrice Kay Bailey Hutchinson, prima senatrice donna nella storia del Texas e sino ad allora detentrice del record di voti elettorali in quello Stato, appoggiata dall'establishment del partito ma percepita come troppo moderata e troppo addentro alla “casta” di Washington. In Texas per diventare governatorte basta la maggioranza relativa dei voti, e Perry nel 2006 era stato rieletto con appena il 39%; stavolta ha incassato il 55%.
Se Jon Huntsman è per definizione il candidato che piace tanto ai giornalisti ma forse solo a loro, Perry è la sua perfetta antitesi. Per rendersene conto basta dare un'occhiata alla sua pagina biografica su Wikipedia in lingua inglese, un mattone di circa quarantamila battute (più o meno quanto quella di Barack Obama), e confrontarla con quella italiana, che sembra un biglietto da visita. Visto da qui verrebbe da dire che si tratta di “un altro George W. Bush”, ma non è così semplice. Perry non ha affatto un buon rapporto con il suo predecessore, e men che meno con il clan Bush in genere. Certo, osservandolo in azione (qui il filmato di una sua recente performance) si nota che esteticamente – sia per quanto riguarda lo stile oratorio e lessicale da “uomo del popolo”, sia quanto al “linguaggio del corpo”, fatto di movenze spavalde e (volutamente?) un po’ rozze – somiglia a W (e a volte anche alla macchietta che Josh Brolin ne ha fatto nell’omonimo film di Oliver Stone). E anche oltreoceano non manca chi ironizza sulla inverosimiglianza di un ritorno alla presidenza di un altro repubblicano così texano da “sembrare il protagonista di un vecchio western”, a così breve distanza dalla “crisi di rigetto” che ha segnato con un record di impopolarità l’uscita di scena di Bush. Ma è un fatto che in questi tempi di crisi economica il “modello texano” sembra essere l’unico funzionante, e Perry non perde un secondo per ricordarlo al mondo. Una cosa è certa: fino ad oggi tutte, ma proprio tutte le volte che si è candidato a qualcosa, ha vinto.
Certo, all’inizio dell’estate non si possono ancora azzardare pronostici che non siano scommesse alla cieca o riti voodoo. Se ne riparlerà dopo il Labor Day, la “festa del lavoro” americana che si tiene il primo lunedì di settembre e che nelle annate elettorali rappresenta una sorta di campanella di fine ricreazione, suonata la quale finiscono le partite amichevoli e si comincia a disputare il campionato vero. Fino ad allora, sarà una lunga, calda e faticosa estate – per i repubblicani, ma non solo.
Mitt Romney nei primi sondaggi ha la maggioranza relativa, ma non si avvicina nemmeno a quella assoluta. E non ha ancora mostrato di saper gestire lo scheletro nell’armadio rappresentato dalla riforma sanitaria che fece approvare quando governava il Massachusetts, troppo simile a quella nazionale obamiana che per i repubblicani rappresenta il male assoluto. Infine c’è qualcos’altro, un nonsoché nell’aria, una sensazione, indefinibile ma diffusa, “che si tratti di un candidato-fantoccio, destinato ad essere abbattuto quanto prima” per dirla con le parole di un esperto di primarie come Joe Klein. Perfino chi lo vede vincente lo definisce “un guscio vuoto senz’anima”, e di questi tempi gli elettori esigono la narrazione di una bella storia e un personaggio cui affezionarsi, prima ancora che un programma razionalmente credibile.
L'alternativa pareva poter essere Tim Pawlenty, ma dopo la sua deludente performance nel dibattito televisivo in South Carolina resta l'impressione di un vuoto da colmare.
Martedì scorso ha tentato di occuparlo Jon Huntsman, fattosi avanti con il preannunciato comizio con la statua della libertà alle sue spalle - e con il resto dei contendenti repubblicani alla sua destra, come ha notato il corrispondente del Los Angeles Times Paul West. Hunstman è infatti senza dubbio il candidato più centrista e “per bene”; ed è anche il più elitario, provenendo al contempo dal mondo del big business (l’azienda di famiglia è il fornitore storico degli imballaggi per i panini della McDonald’s) e da quello della diplomazia (ambasciatore a Pechino fino a pochi mesi fa). Qualcuno lo ha definito il “candidato anti-TeaParty”. Per ora sembra aver raccolto grande entusiasmo tra i giornalisti e gli opinionisti, ma gli elettori sembrano di ben altro avviso: su questo sono ineccepibili, al solito, le istantanee scattate da Andrea Salvadore e da Andrea Mancia.
Resta dunque molto spazio da riempire, soprattutto sul versante più conservatore ed antiestablishmentarian. Tenterà di appropriarsene la pasionaria dei Tea Party Michele Bachmann, che ufficializza la sua candidatura lunedì prossimo. Ma il nome che circola con crescente insistenza è un altro. Se alla fine dell'estate nessuno dei candidati “ufficiali” avesse preso quota, il tavolo di gioco potrebbe venire scompaginato dall’irruzione di una “wild card”, un concorrente “speciale” che esca dall’ombra in extremis. Il nome sulla bocca di tutti è quello di Rick Perry, il governatore del Texas. Un personaggio tutto da scoprire: soprannominato dai suoi detrattori "Governor Goodhair" (Governatore Bellicapelli) per via dell’aspetto pacchianamente fotogenico, negli anni Ottanta era in politica tra le fila del partito Democratico (il che però in Texas non significava necessariamente essere “di sinistra”), fino al 1988 quando aveva persino fatto campagna per Al Gore alle primarie; dopodiché era passato ai repubblicani, ed infine era stato eletto vicegovernatore quando George W Bush fu eletto governatore (altra particolarità texana: le due cariche vengono decise separatamente, non in ticket). Quando nel 2000 W. è stato eletto presidente, Perry gli è subentrato come governatore, e di lì nessuno l’ha più schiodato. Al governo del Lone Star State da più di dieci anni – record assoluto nella storia dello Stato – è stato rieletto a novembre, dopo aver sbaragliato alle primarie sia la candidata dei Tea Party - dalla quale, complice l'appoggio di Sarah Palin ma anche un suo personale appeal populista, non si era fatto sfilare i consensi della base più conservatrice – sia la senatrice Kay Bailey Hutchinson, prima senatrice donna nella storia del Texas e sino ad allora detentrice del record di voti elettorali in quello Stato, appoggiata dall'establishment del partito ma percepita come troppo moderata e troppo addentro alla “casta” di Washington. In Texas per diventare governatorte basta la maggioranza relativa dei voti, e Perry nel 2006 era stato rieletto con appena il 39%; stavolta ha incassato il 55%.
Se Jon Huntsman è per definizione il candidato che piace tanto ai giornalisti ma forse solo a loro, Perry è la sua perfetta antitesi. Per rendersene conto basta dare un'occhiata alla sua pagina biografica su Wikipedia in lingua inglese, un mattone di circa quarantamila battute (più o meno quanto quella di Barack Obama), e confrontarla con quella italiana, che sembra un biglietto da visita. Visto da qui verrebbe da dire che si tratta di “un altro George W. Bush”, ma non è così semplice. Perry non ha affatto un buon rapporto con il suo predecessore, e men che meno con il clan Bush in genere. Certo, osservandolo in azione (qui il filmato di una sua recente performance) si nota che esteticamente – sia per quanto riguarda lo stile oratorio e lessicale da “uomo del popolo”, sia quanto al “linguaggio del corpo”, fatto di movenze spavalde e (volutamente?) un po’ rozze – somiglia a W (e a volte anche alla macchietta che Josh Brolin ne ha fatto nell’omonimo film di Oliver Stone). E anche oltreoceano non manca chi ironizza sulla inverosimiglianza di un ritorno alla presidenza di un altro repubblicano così texano da “sembrare il protagonista di un vecchio western”, a così breve distanza dalla “crisi di rigetto” che ha segnato con un record di impopolarità l’uscita di scena di Bush. Ma è un fatto che in questi tempi di crisi economica il “modello texano” sembra essere l’unico funzionante, e Perry non perde un secondo per ricordarlo al mondo. Una cosa è certa: fino ad oggi tutte, ma proprio tutte le volte che si è candidato a qualcosa, ha vinto.
Certo, all’inizio dell’estate non si possono ancora azzardare pronostici che non siano scommesse alla cieca o riti voodoo. Se ne riparlerà dopo il Labor Day, la “festa del lavoro” americana che si tiene il primo lunedì di settembre e che nelle annate elettorali rappresenta una sorta di campanella di fine ricreazione, suonata la quale finiscono le partite amichevoli e si comincia a disputare il campionato vero. Fino ad allora, sarà una lunga, calda e faticosa estate – per i repubblicani, ma non solo.
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