venerdì 29 aprile 2011

IL MONDO LIBERO NON E' UNA CARRIOLA

L’articolo della settimana è stato un lunghissimo e a tratti brillante pezzone sull’ultimo numero del New Yorker, dal titolo “Il Conseguenzialista”, nel quale Ryan Lizza ha spiegato che sotto la pressione delle rivolte nordafricane “forse Obama sta gradualmente avvicinandosi a qualcosa di simile ad una dottrina. Uno dei suoi consulenti ha descritto le azioni del Presidente in Libia come “leading from behind” (“guidare stando dietro”)”. Muovendo dal presupposto che “la potenza americana è in declino e quella di rivali come la Cina è in ascesa”, e che “in molte parti del mondo gli USA sono malvisti”, si dovrebbe ritenere necessario perseguire gli interessi nazionali e diffondere gli ideali americani “agendo furtivamente e con modestia”.
L'espressione "guidare stando dietro" (la cui paternità, gli addetti ai lavori lo sanno bene, appartiene alla bocca e alla testa di Nelson Mandela) ha scatenato una ridda di polemiche. Sono subito piovute aspre critiche soprattutto da commentatori neoconservatori: ad esempio John Podhoretz, che su Commentary ha scritto che la formula “leading from behind” è talmente screditante che non sarebbe sorprendente “se la casa Bianca si mettesse alla caccia della presona che l’ha pronunciata per defenestrarla prima che faccia altri colossali danni alle chance di rielezione del suo capo”; o Kori Shacke della Hoover Institution, che su Foreign Policy ha commentato: “chiedete a un giovane marine, e vi dirà che un leader che si tiene nelle retrovie non è altro che un codardo, perché lascia che siano i suoi uomini a correre i rischi cui il comandante non è disposto ad esporsi”… Schacke cita ad esempio l’impopolarità di Hillary Clinton tra i ribelli del Cairo (di cui l’articolo di Lizza da ampiamente atto), imputandola al fatto che dopo aver sostenuto Mubarak quando la rivolta era in corso, il Segretario di Stato ha poi spudoratamente cercato di metterci sopra il cappello facendosi un giretto in Piazza Tahrir a cose fatte. Sarebbe insomma un pacchiano e quindi controproducente tentativo di fare la mosca cocchiera, o di farsi belli con le penne del pavone (le due metafore di Fedro ovviamente sono una mia aggiunta, non credo che agli americani siano familiari me se lo fossero sospetto che le avrebbero usate).
Ryan Lizza ha ritenuto di dare maggiori spiegazioni nel blog collettivo della rivista:
al cuore dell’idea di “leading from behind” c’è il mettere altri al comando ma per portare avanti la trattativa che sta a cuore a te, oppure, come nel caso della Libia, per usarli come copertura per intraprendere una politica che risulterebbe sospetta agli occhi di altre nazioni se portasse il marchio di un’operazione puramente e semplicemente americana”. E intervistato in “chat” sempre sul sito del NewYorker, ha precisato di aver usato nel titolo il neologismo “conseguenzialista” nel senso che ad Obama “stanno molto più a cuore gli effetti che non i mezzi per realizzarli”.

Oggi su Europa Marilisa Palumbo intervista Lizza, e nonostante il titolo sulla "dottrina flessibile" (aehm), la lettura è consigliabile: alla cruciale domanda "a distanza di quattro mesi dall’inizio delle rivolte, l’amministrazione ha o sta definendo una strategia onnicomprensiva per il Medio Oriente?", l'intervistato risponde "credo siano decisi a trattare ciascun paese come un caso a sé" - cioé: no.
Sempre oggi, Charles Krauthammer sul Washingotn Post osserva che quello descritto da Lizza “è uno stile, non una dottrina”, perché una dottrina implica idee e qui non ce n’è traccia, e comunque fa presente che se al tempo della Guerra Fredda ci si fosse fatti intimidire dal diffuso antiamericanismo, chissà come sarebbe andata a finire.
Le chiacchiere stanno a zero: la "Dottrina Obama" non-e-si-ste.

venerdì 22 aprile 2011

AMICI SU FACEBOOK

Oggi su Notapolitica:

La prima domanda glie l’ha fatta direttamente Mark Zuckerberg, e a ben vedere non era neanche una domanda particolarmente friendly: "Dove possiamo tagliare per ridurre il debito?".
In un altro contesto si sarebbe potuto obiettare che non è scontato che il debito si riduca solo tagliando la spesa come sostengono i repubblicani, che non c’è ragione di dar per scontato che sul tavolo non ci sia anche l’altra opzione, quella più tipicamente di sinistra, ossia l’aumento delle tasse.
Ma nel contesto di mercoledì sera le domande e le risposte contavano pochissimo, quasi nulla. Era il contesto stesso l’oggetto dello show. Il presidente degli Stati Uniti intervistato in diretta video su Facebook, nel quartier generale di Facebook a Palo Alto, con il padrone di Facebook come moderatore e domande proposte dagli utenti di Facebook. So cool.
Nessun contesto, né reale né virtuale, poteva essergli più favorevole. Su questo potremmo dilungarci all’infinito. Potremmo risalire al novembre del 2007, quando in prossimità delle primarie Mark Penn, lo stratega della campagna per la candidatura di Hillary Clinton, disse che il rivale Barack “sembra Facebook”. Voleva essere uno sfottò: nel senso che l’Obama-mania era una moda effimera basata sul superficiale entusiasmo dei ragazzi attaccati ad internet, ma nel mondo reale, dove contano la strada, le strette di mano e il caucusing, il gioco di potere fatto di clientele, di scambi di favori con i finanziatori e di compromessi sottobanco con le clientele, la moda di Obama avrebbe fatto poca strada. E invece quella battuta venne subito reinterpretata dai più come un elogio, come un’allusione alla capacità di sfruttare come mai prima il social network per fare politica.

Andrew Sullivan fu tra i primi a descrivere questa innovativa capacità di mettere in moto, sia sul fronte della propaganda che su quello della raccolta di finanziamenti, una campagna elettorale in grado di “vivere di vita propria”. Presto fu fatto sapientemente notare come ciò fosse reso possibile anche dalla presenza nello staff del senatore dell’Illinois di uno dei cofondatori di Facebook, il 24enne Chris Hughes, il biondino compagno di stanza di Zuckerberg ad Harvard e suo compagno di avventura nell’impresa che anni dopo sarebbe stata immortalata nel film-capolavoro “The Social Network”. Era stato lui a concepire e dirigere il sito My.BarackObama.com, dove nuovi simpatizzanti confluivano spontaneamente con il passaparola telematico (consentendo al candidato di scavalcare il predominio degli insider sugli indirizzari dei “vecchi” volontari) e, oltre a tenersi in contatto con il quartier generale della campagna come tradizionalmente era sempre avvenuto, si tenevano in contatto anche fra di loro, costruendo a costo zero un nuovo tipo di militanza almeno in parte “orizzontale”.
Potremmo anche ricordare come persino qui in Italia qualcuno notò che la faccenda aveva anche un rovescio della medaglia: ad esempio Giuliano da Empoli, nel suo eccellente "Obama - la politica nell'era di Facebook", lo definì "il primo leader nato su Facebook" con riferimento al fatto che si trattava di "un uomo di 45 anni che ha già scritto più di 800 pagine di autobiografia. Invece di un programma, presenta all'elettorato una storia: la sua" e che "in questo è perfettamente in sintonia con una generazione di narcisisti che si raccontano su internet, filmano con i cellulari ogni loro gesto, partecipano ai reality show e hanno per massima aspirazione quella di apparire in televisione. La Me-Generation ha trovato il suo portabandiera".
E potremmo proseguire ricordando l'entusiasmo sfrenato di vari esponenti di spicco della Silicon Valley all'indomani dell'elezione di Obama, che da quelle parti qualcuno definì "il presidente Google" per enfatizzare quanto fosse "uno di loro".
Ma tutto questo passa in secondo piano di fronte al siparietto, sparato in streaming mercoledì sera, della "Persona dell'anno 2008" seduta accanto alla "Persona dell'anno 2010" , con l'aria complice di vecchi amici in vena di pacche sulle spalle. "Buonasera, mi chiamo Barack Obama e sono il tipo che è riuscito a far mettere a Mark in giacca e cravatta. E' una cosa di cui vado molto fiero"… e giù a gigioneggiare: dai Mark, caviamocela tutti e due 'sta giacca (così si nota meno che potrei essere tuo padre). Eccoli entrambi in maniche di camicia bianca, per di più arrotolate, a regalarsi il reciproco spot. E in uno spot, si sa, conta l'apparenza, non la sostanza.
Cosa vuoi che glie ne freghi "alla gente a casa" se questo sia o no un vero "townhall", come l'han voluto chiamare. Quell'espressione, che alludendo alla nobile tradizione delle assemblee dei cittadini nella sala municipale nelle prime cittadine del New England coloniale, definisce un dibattito in cui il pubblico non si limita a fare tappezzeria, ma dove al contrario il candidato risponde a domande a bruciapelo più o meno improvvisate dai presenti. Che poi sarebbe il "format" meno amato da Obama, il quale è molto bravo a recitare un discorso preparato ma non ad improvvisare. Tre anni fa in campagna elettorale il suo antagonista, il vecchio John McCain, che essendo un tipo dalla battuta pronta è notoriamente un campione dei "townhall", lo aveva sfidato a confrontarsi in questo modo in una decina di incontri, prima dei tre dibattiti televisivi "ufficiali"; ma lui si era ben guardato dal farsi trascinare su quel terreno minato. Ma mercoledì sera si girava uno spot: e allora ben venga il townhall, tanto le domande e le risposte erano un dettaglio.
A quella prima domanda di Zuckerberg, Obama ha risposto ricordando innanzitutto che il debito mica l'ha creato lui, l'ha ereditato dal suo predecessore ma anche da Reagan, da Bush padre e da Bill Clinton. Se l'oggetto dello show non fosse stato il contesto, magari qualcuno avrebbe speso due parole per commentare il fatto che ogni volta che deve scrivere sulla lavagna i nomi dei cattivi, Obama non perde occasione di infilare nella lista quello del marito di Hillary. Ma, per l'appunto, nessuno stava più di tanto ad ascoltare la risposta. Quando poi è passato a disquisire di come tagliare la spesa non basta, ma ci vogliono anche un po' più di tasse, gli è bastato far presente che "gli aumenti riguardano quelli come te Mark, ma so che a te non spiace"- e la sua spalla (il n.1 dei giovani miliardari americani) ha prontamente ribattuto "per me va bene", e tutti giù a ridere. Andata.
Per non parlare della domanda sulla riforma sanitaria: la materia è così complicata che si può domandare e rispondere tutto e il contrario di tutto, e in campagna elettorale - quella vera - se ne vedranno delle belle. Ma ieri sera non contava granché. Altrimenti qualche cronista avrebbe scritto qualcosa su come il presidente ha glissato sulla domanda finale, che guarda caso veniva dal Texas: "C'è una cosa che cambierebbe rispetto a quanto ha fatto in questi quattro anni alla Casa Bianca?". Sempre dal Texas le domande scomode, accidenti. Come l'altro giorno con quel rompiballe di quella TV locale. E' proprio destino che 'sto maledetto Texas sia la spina nel fianco del nostro. Che mercoledì sera però aveva licenza di glissare: "mica sono quattro anni, per ora sono solo due e mezzo. In cui ho certamente sbagliato a non spiegare abbastanza bene quanto stavo governando bene. E poi avrò sbagliato tante altre cose ma il giudizio starà agli elettori .Ma parliamo invece cosa mi resta da fare…".
Massì, tanto il vero finale non era la risposta all'ultima domanda. Il vero finale era il dono della felpa con il logo di Facebook, direttamente da parte dell'amico Mark ("casomai per qualche ragione ti venisse voglia di vestirti come me"). "E' bellissima". E lo è stato anche lo spot, davvero. Resta però da appurare quanti degli oltre 19 milioni di "fan" che il presidente ha su Facebook l'hanno guardato. E magari calcolare le dovute proporzioni con il precedente-pilota di cinque mesi fa, quando ospite di Mark fu l'innominabile predecessore - il quale di discepoli-amici su Facebook, poveretto, ne ha suppergiù un ventesimo.

martedì 19 aprile 2011

SI MOLTIPLICANO I GRANDI BLOG "BELLICI"

Non saprei dire se la cosa vada letta come sintomatica, ma è un fatto che le principali testate giornalistiche si stanno dotando, una dopo l’altra, di un blog esclusivamente dedicato alle faccende belliche e militari, solitamente affidato a firme di prestigio.

Era partito nel dicembre del 2007 il sito del New York Times con il blog collettivo “At War”, capitanato dal corrispondente Stephen Farrell che il NYT aveva appena strappato al britannico Times (curiosità: come corrispondente del Times, Farrel era sopravvissuto ad un rapimento in Iraq nel 2004; lavorando per il NYT avrebbe bissato la spassosa esperienza in Afghanistan, nel 2008). All’epoca parve tanto una cosa da “era Bush”; ma nella Nuova Era del Presidente-premio-Nobel-per-la-Pace questo genere di blog anziché sbaraccare ha preso sempre più piede.
Se infatti il Washington Post ha per ora scelto di non imitare il concorrente (benché sul suo sito girino molti blog tematici: ben sei -!- solo su temi di religione), altri l'hanno fatto: l'Economist, ad esempio, all'inizio dello scorso febbraio ha varato il suo Klausewitz, giusto in tempo per dilettarsi con l’impresa libica.

Poche ore fa l’ultimo arrivato: Battleland, sul sito di TIME, blogger in chief lo storico corrispondente Mark Thompson (uno che negli anni Ottanta appena 32enne aveva vinto un Pulitzer per un’inchiesta su un letale difetto progettuale in un certo tipo di elicotteri usati dal Pentagono), il quale giusto ieri si è guarda caso aperto anche un account su Twitter.
Qui in Italia per ora l’unico caso è rappresentato da “Risiko”, che Alberto Simoni, il più giovane fra i tre americanisti de La Stampa, cura sul sito del quotidiano torinese. Altri seguiranno?

lunedì 18 aprile 2011

DENTRO IL NUOVO WORLD TRADE CENTER

Assolutamente da non perdere il post con il quale Andrea Salvadore - regista ed autore televisivo, italiano residente a New York, che nel recente passato ha sfornato notevoli documentari sull'attualità americana, per la TV (ma non solo) - regala, sul suo pregevole blog principalmente dedicato alla televisione (ma non solo) a stelle e strisce, un fugace sguardo al soprendente progresso dei lavori nel cantiere di Ground Zero.
Salvadore, che ha avuto accesso al sito per un documentario cui sta lavorando per il decennale dell'Undici Settambre, pubblica foto impressionanti: la Freedom Tower, che quando ne scrivevo poco più di sette mesi fa era appena alle fondamenta, oggi è già al 62esimo piano (su 104).

Gli sviluppi possono essere osservati in tempo reale sul sito WTC Progress, e meglio ancora sul relativo account Twitter.

venerdì 15 aprile 2011

DOCTRINE CHANGE?

28 marzo, al principio:

“Ora, se da un lato alcuni hanno contestato la scelta stessa di intervenire in Libia, al contempo ci sono altri che hanno suggerito che la nostra missione militare avrebbe dovuto andare ben al di là del compito di proteggere il popolo libico, e fare tutto il necessario per abbattere Gheddafi e far nascere un nuovo governo. Naturalmente, non c'è dubbio che la Libia - e il mondo - sarebbe migliore senza Gheddafi al potere. Io e molti altri leader mondiali abbiamo fatto nostro tale obiettivo, e lo perseguiamo attivamente con mezzi non militari. Ma ampliare la nostra missione militare sino ad includere un cambiamento di regime sarebbe un errore. Il compito che ho assegnato alle nostre forze - proteggere il popolo libico dal pericolo immediato, e stabilire una no-fly zone - è sorretto da un mandato delle Nazioni Unite e dal sostegno internazionale. Ed è quello che l'opposizione libica ci ha chiesto di fare. Se cercassimo di rovesciare Gheddafi con la forza, la nostra coalizione si frantumerebbe. Dovremmo probabilmente ingaggiare truppe americane di terra per compiere questa missione, o rischiare di uccidere molti civili con i raid aerei. I pericoli cui andrebbero incontro i nostri uomini e donne in uniforme sarebbero molto maggiori. Altrettanto si accrescerebbero il costo dell’operazione e la nostra parte di responsabilità in quello che verrebbe dopo. Tanto per essere chiari: si tratterebbe del tipo di percorso che abbiamo già intrapreso Iraq. Grazie ai sacrifici straordinari delle nostre truppe e la determinazione dei nostri diplomatici, siamo oggi fiduciosi sul futuro dell'Iraq; ma per il regime change ci sono voluti otto anni, ed è costato migliaia di vite americane e irachene, e quasi mille miliardi di dollari. Questa cosa non possiamo permetterci di ripeterla in Libia”.


Oggi 15 aprile:

"Il nostro dovere e il nostro mandato in base alla Risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza dell'ONU è di proteggere i civili, e lo stiamo facendo. Non è quello di rimuovere Gheddafi con la forza. Ma è impossibile immaginare un futuro per la Libia con Gheddafi al potere. La Corte penale internazionale sta giustamente indagando sui crimini commessi contro i civili e le gravi violazioni del diritto internazionale. E' impensabile che qualcuno che ha tentato di massacrare il suo popolo possa svolgere un ruolo nel futuro governo di quel popolo. [...] Fin tanto che Gheddafi rimane al potere, la NATO deve mantenere le sue operazioni in modo che i civili siano protetti e la pressione sul regime cresca. Dopodiché potrà avviarsi una vera transizione dalla dittatura ad un processo costituzionale inclusivo, guidata da una nuova generazione di leader. Affinché questa transizione possa riuscire, Gheddafi deve andarsene e deve andarsene per sempre. [...] Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti non si fermeranno fino a quando le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU saranno state attuate e il popolo libico potrà scegliere il proprio futuro".

Grassetti miei, tutto il resto è suo.

martedì 12 aprile 2011

L' "UOMO QUALUNQUE" CHE VENNE DAL MIDWEST

Oggi su Notapolitica:

“Oh, il mio nome è niente / la mia età è meno / il paese da cui vengo / si chiama Midwest”: l’urbanista-politologo Joel Kotkin ha recentemente ripescato questo amaro incipit della canzone pacifista “With God on Our Side” di Bob Dylan (il quale, non a caso, è cresciuto in Minnesota) per ricordare come il Midwest sia stato per oltre mezzo secolo “la regione sconfitta per definizione, un posto dal quale tutta la gente di talento se n’era andata in cerca di opportunità”. Kotkin non è il solo ad osservare come questa cattiva reputazione, dovuta all’ormai pluridecennale crisi dell’industria manifatturiera che a lungo aveva dato lavoro a milioni di midwestern, oggi strida con il fatto che nell’attuale fase di Grande Recessione, l’America polverosa e arrugginita del Midwest “se la sta cavando” sorprendentemente meglio di quella delle mitiche due “coste”, rispetto alla quale si è rivelata di gran lunga meno fragile. Forse anche per questo i repubblicani del Midwest sembrano i più attivi nell’affilare le armi per le prossime presidenziali; anzi: sembrano i soli pronti a partire. E’ di una decina di giorni fa la notizia che il primo dibattito tra i contendenti per le primarie, che avrebbe dovuto tenersi alla Reagan Library il 2 maggio, è stato rinviato al 14 settembre causa carenza di candidati. I “big” non si decidono a scendere in campo: Mitt Romney si è fatto avanti solo ieri sera, mentre gli altri grandi sconfitti delle primarie del 2008, a cominciare da Mike Huckabee, ancora latitano; altrettanto fanno gli astri nascenti dei tagli alla spesa pubblica come il tondeggiante governatore del New Jersey Chris Cristie e il vulcanico presidente della commissione Bilancio della Camera Paul Ryan, e per ora rimane insolitamente defilata persino la immancabile (ormai più in TV che nella politica reale) Sarah Palin. Evidentemente, nonostante le recenti elezioni di mezzo termine abbiano segnato una rimonta epocale per il Grand Old Party, e i sondaggi diano ancora il presidente in carica tutt’altro che in ripresa (complice la disoccupazione che stenta a schiodarsi da “livelli europei o più propriamente italiani”), sfrattare Obama dalla Casa Bianca nel 2012 viene ancora considerata un’impresa davvero ardua, sia perché a un presidente in carica solitamente basta pochissimo per ottenere una riconferma, sia perché scarseggiano ricette alternative per risollevare le sorti di un’economia col fiato cortissimo e di una politica estera ancora “in cerca d’autore” dopo il tramonto della Dottrina Bush, ma anche per reinventare una “coalizione” e ricucire i pezzi di un partito Repubblicano frammentato e sfaldato.
Sino a poche ore fa, prima che Romney rompesse gli indugi, solo tre ardimentosi avevano osato varare un “comitato esplorativo” per le prossime presidenziali: il magnate della pizza Herman Cain, la deputata pasionaria dei “Tea Party” Michelle Bachmann, e l’ex governatore del Minnesota Tim Pawlenty. Quest’ultimo è l’unico dei tre ad essere preso sul serio ma nemmeno lui è un frontrunner. Ecco il primo spot della sua campagna:





Non è un caso che due su tre vengano dal Minnesota: uno degli swing states cruciali (si pensi al conteggio all’ultimo sangue per l’elezione di Al Franken che nel 2008 fece la differenza per consegnare ai Democratici la “supermaggioranza” al Senato), ma anche e soprattutto lo Stato “cuore” del Midwest. Fu quel pezzo di America a decretare l’elezione di George W. Bush nel 2000, e la sua rielezione nel 2004 dopo uno scontro accanito proprio su quel fronte (la risicata vittoria di Bush in Ohio fu determinante nella sconfitta di John Kerry). Poi, nel 2008, con l’elezione di Barack Obama (che già durante le primarie aveva giocato lì la sua partita più significativa) i Democratici si erano ripresi Ohio, Indiana e Iowa. Alle ultime elezioni di mezzo termine, però, il pendolo è tornato ad oscillare: nonostante la “massacrante tournée di comizi” che il presidente aveva intrapreso in quei luoghi, i Democratici hanno perso cinque seggi alla Camera in Pennsylvania ed altrettanti in Ohio, e sono stati battuti nella sfida per il governo della Pennsylvania, dell’Ohio, del Michigan, del Wisconsin e dello Iowa - cioé praticamente in tutto il Midwest fuorché a “casa” di Obama in Illinois. La situazione del Minnesota, che ai tempi di Pawlenty era un’eccezione, si è così invertita: il che avrà importanti conseguenze anche nella imminente ridefinizione dei collegi elettorali. Anche a Washington, al Congresso, dopo le ultime midterm siedono in gran parte rappresentanti di quella regione, tra i quali spiccano l’attuale speaker della Camera John Boehner, che è eletto in Ohio, e lo stesso Paul Ryan che è deputato del Wisconsin. Torna così alla mente la profezia che David Brooks scrisse alla vigilia delle midterm del 2006: “nell’epoca liberal, è stato il Nordest urbano a dominare il paesaggio. Nell’epoca conservatrice, sono stati il Sud e le comunità-dormitorio come quelle della California meridionale. Nell’epoca prossima ventura, il centro di gravità si sposterà verso le pianure del West e del Midwest, e verso i pragmatici centri residenziali sparpagliati un po’ dappertutto lassù”. Lo stesso Brooks ha rilanciato il giorno dopo le midterm dello scorso novembre, notando che per i democratici “le vecchie città industriali del Midwest sono state l’epicentro del disastro”: “Se Balzac fosse vivo oggi, si stabilirebbe in quella regione d’America che comincia in mezzo allo Stato di New York e alla Pennsylvania e si estende attraverso l’Ohio e l’Indiana fino al Wiskonsin e all’Arkansas. Si stabilirebbe tra le famiglie della classe operaia di quest’area. Lo farebbe perché è quello il cuore pulsante della vita americana, il luogo in cui si va determinando la traiettoria della politica americana. se l’America riesce a inventarsi un modo per costruire un futuro decoroso per la classe operaia di questa regione, allora gli USA resteranno una superpotenza egemone. Altrimenti, no”.


Vista così, anche la candidatura incolore di Tim Pawlenty può assumere una luce più intensa. La sua biografia (prontamente esposta nell’immancabile libro pre-elettorale) è quella di un “uomo qualunque” del Midwest, e se le prossime presidenziali avranno la stessa andatura “narrativa” e “biografica” di quelle del 2008, questo fattore potrebbe pesare più dei programmi e degli slogan. E’ la storia del minore di una nidiata di cinque fratelli di una famiglia di origini tedesche-polacche, cresciuto nella periferia di St. Paul (la metropoli gemella siamese di Minneapolis), figlio di una casalinga che morì di cancro al seno quando lui aveva 16 anni, e di un camionista che di lì a poco rimase disoccupato. Di un ragazzo che al liceo riceveva insulti e sputi perché tifava per Reagan. Di uno studente in legge (il primo della famiglia ad andare all’università) che al college conobbe quella che sarebbe divenuta sua moglie e che lo spinse a convertirsi dal cattolicesimo al cristianesimo evangelico. E’ la storia di un uomo del popolo, di quel popolo del Midwest in gran parte composto, come lo stesso Obama ebbe malauguratamente a dire passando per intellettuale snob, da "lavoratori amareggiati che si aggrappano alle pistole e alla religione". Era il 2008, c’erano le primarie presidenziali. Per Pawlenty potevano essere la grande occasione: non appena John McCain si assicurò la candidatura alla Casa Bianca, il primo nome a circolare nel toto-vice per il ticket elettorale repubblicano fu il suo. Aveva tutte le carte in regola: “giovane” (aveva 47 anni) e giovanile, quindi adatto a controbilanciare l’età avanzata del senatore dell’Arizona (simmetricamente a quanto Joe Biden sarebbe stato chiamato a fare affiancando l’inesperto senatore dell’Illinois), con esperienza di governo (che McCain non aveva, essendo da sempre solo un parlamentare), in sintonia con l’elettorato indipendente, e competente in campo economico (cosa che McCain ammetteva candidamente di non essere, il che lo avrebbe condannato più di ogni altra cosa con il deflagrare della Grande Recessione). Alla vigilia della convention (che si teneva nella “sua” St. Paul) era dato come favorito. Poi, a sorpresa McCain scelse Sarah Palin spiazzando tutti, lui compreso. I tempi cambiano, ma in un modo o nell’altro Pawlenty resta sempre un buon candidato, anche se di seconda fila. Quando Obama si insediò alla Casa Bianca con un tasso stellare di popolarità, tutto induceva a ritenere che i repubblicani avrebbero dovuto ripartire dalla ricerca di un “Obama di destra”, ossia – per dirla con le parole di un cronista di Newsweek – un mix di “irriconoscibilità + fighetteria + ispanici + Twitter + “essere gentili con i gay” + Facebook”. Pawlenty si propose in questo senso, a cominciare dall’attenzione per il web, sbandierando l’ingaggio di consulenti di “tecnologia politica” come Patrick Ruffini, Mindy Finn, Patrick Hynes and Liz Mair. Ora che invece prevale la delusione nei confronti del presidente in carica, la tendenza dominante è quella di cercare qualcuno che sia diverso da Obama, soprattutto nel senso che deve risultare più semplice, più autentico, più vicino alla gente comune di provincia e lontano dall’accademia e dalle élite metropolitane e cosmopolite. Obama stesso è alla ricerca di un’immagine del genere: basta dare un’occhiata al primo spot della campagna per la sua rielezione: minimalista e ed iperrealista come non mai, tutto fattorie e chiesette e villette a schiera. Ecco: proprio su questa roba Tim Pawlenty ha costruito tutta la sua carriera, tanto da aver coniato un’etichetta per definirla: “Sam’s Club Republican”, con riferimento ad una catena di negozi a basso prezzo frequentati dalle fasce più popolari della classe media (intraducibile, giocando potremmo azzardare “Repubblicano da Oviesse”), ed in sarcastica contrapposizione con la formula “Country Club Republican” tradizionalmente utilizzata per sottolineare la matrice “upper class” del Grand Old Party.

Inoltre, per avere qualche chance alle prossime primarie repubblicane è vitale avere almeno un po’ di appeal verso il mondo dei Tea Party e più in generale verso la pancia antistatalista della Right Nation. Anche Pawlenty qualche argomento ce l’ha: quando venne eletto governatore per la prima volta nel 2002, il Minnesota – tradizionalmente uno dei più assistenzialisti fra i 50 Stati dell’Unione - stava affrontando il più grave dissesto finanziario della sua storia, e nel 2005 e nel 2007 lui chiuse il bilancio quasi in pareggio senza aver alzato le tasse - e sopravvivendo ad un braccio di ferro con i sindacati dei dipendenti pubblici (in particolare degli insegnanti) che preconizzavano quelli che in questi giorni stanno infiammando il Wisconsin e l’Ohio. Può quindi a buon titolo rivendicare l’etichetta di “fiscal conservative”, conservatore antitasse (uno dei quattro più rigorosi, e l’unico ad aver governato uno Stato “blu”, secondo una classifica stilata dai libertarian del Cato Institute); il che lo rende bene accetto alla principale fazione conservatrice del partito. E siccome è anche un cristiano “born again” e un antiabortista, benché senza fanatismi, non dovrebbe stare antipatico neanche alla destra “religiosa”. Al contempo Pawlenty è tutt’altro che “schiacciato a destra”: essendo stato eletto e rieletto mai con la maggioranza assoluta, e la seconda volta per un solo punto percentuale) come governatore di uno stato tradizionalmente molto di sinistra, ha imparato a piacere anche agli elettori non repubblicani; ma senza eccessivi camaleontismi - a differenza di Mitt Romney, che ha alle spalle un trascorso analogo ma lo ha percorso in modo molto più ondivago, per cui nel 2008 si trovò a combattere con il proprio passato di governatore pro-choice ed oggi è minato dal fantasma di “RomneyCare”.

L’unica pecca nel suo curriculum è l’essere stato fortemente favorevole alla politica ecologica del “cap and trade”, il contingentamento delle emissioni inquinanti sul modello europeo, che oggi lui stesso osteggia; ma questo è un difetto che lo accomuna alla quasi totalità dei concorrenti, e quindi non dovrebbe risultare troppo tossico. In definitiva, per gli addetti ai lavori “T-Paw” (come cerca di farsi chiamare con piglio vagamente hip hop, che addosso a lui suona un tantino ridicolo) è quello che si definisce un candidato altamente “eleggibile”, nel senso che non scontenterebbe nessuno. Un giornalista dell’Economist lo ha addirittura definito “un placebo”, non per denigrarlo ma per affermare che a nessuna delle rissose componenti della galassia repubblicana risulterebbe indigesto: “è un po’ Romney, ma non così scivoloso; un po’ Huckabee, ma non così religioso; un po’ Gingrich, ma non così aggressivo; un po’ Daniels, ma non così accademico; un po’ Palin, ma non così spaventoso. Non è il candidato ideale di nessuno, ma nemmeno l’incubo di nessuno”.

Il suo vero punto debole è che rimane sconosciuto ai più nonostante sia spesso in televisione: per quanto si sforzi non è e non sarà mai un tipo carismatico né particolarmente interessante (quando un anno fa l’ex speechwriter di Bush Michael Gerson scrisse sul Washington Post che Pawlenty potrebbe essere un nuovo Reagan, ci fu subito chi lo sfotté pronosticando che l’unica cosa ad accomunarli sarà che nessuno dei due sarà presidente nel 2013). Delle due l’una: quella sua aria da bravo ragazzo di provincia sarà la sua principale forza, o il suo limite fatale.

venerdì 1 aprile 2011

IL PRESIDENTE SDOTTRINATO / 2

C'è ormai unanimità galattica (anche Lexington sulla carta ha dovuto fare marcia indietro rispetto a quanto aveva inizialmente bloggato in preda ad un guizzo di incauta eccitazione) nel ritenere che con il suo discorso di lunedì sera sulla guerra libica Obama, a ormai due anni dal suo insediamento, ha dimostrato di non avere ancora una sua "dottrina", un insieme organico e coerente di grandi principi che guidino la sua politica estera, e di essere invece propenso a tenersi le mani libere riservandosi di decretare di volta in volta delle soluzioni ad hoc per ogni specifica circostanza.

In molti nell'immediatezza avevano provato a gingillarsi con il miraggio di una neonata "Dottrina Obama" da leggere tra le righe del discorso di lunedì, ma l'indomani è stato lo stesso presidente a stroncarli senza mezzi termini in un'intervista a Brian Williams della NBC, nella quale ha puntualizzato che "è importante non prendere questa situazione particolare e cercare di proiettarne una sorta di "Dottrina Obama" che noi saremmo in procinto di applicare un po' dappertutto, come con uno stampino per i biscotti. Ogni Paese in questa regione è diverso".

Da non perdere il post di The Politico che il giorno seguente ha sbertucciato tutti i gonzi che non se n'erano accorti ed erano andati avanti a titolare sulla fantomatica dottrina.

Tutt'al più, quindi, i suoi apologeti riescono ora a teorizzare che ciò non sia poi un male, che tenersi alla larga dai vincoli più o meno ideologici di una "Grande Strategia" potrebbe rivelarsi una scelta prudente, saggia ed opportuna: vedasi ad esempio Steven Clemons intervistato ieri su Europa da Marilisa Palumbo.

Sarà; va però comunque considerato - quanto meno per prendere nota della giravolta - che lo stesso Obama (quello che oggi sfotte con la metafora dello "stampino per i biscotti"), nel suo bestseller elettorale auto-agiografico del 2007 The Audacity of Hope (in Italia "L'audacia della speranza. Il sogno americano per un mondo nuovo", Rizzoli 2007, prefazione di Uòlter "Si-può-fare" Veltroni), deprecò (lo nota Crowley sul nuovo numero di TIME, ma il primo a sgamarlo è stato l'impietoso fact-checker del Washington Post) come una grave falla di sistema che urge colmare il fatto che agli USA, a tanti anni dall'Undici Settembre e a distanza ancor più lunga dal crollo dell'Unione Sovietica,

"manca ancora una strategia coerente sulla "sicurezza nazionale". Invece di principi-guida, abbiamo solo quel che appare essere una serie di decisioni ad hoc, con dubbi risultati. Perché invadere l'Iraq e non la Corea del Nord o la Birmania? Perché intervenire in Bosnia e non in Darfur? ... Forse alla Casa Bianca qualcuno ha risposte chiare per simili risposte; ma i nostri alleati - e, per quel che conta, i nostri nemici - di certo non le conoscono. E, soprattutto, non le conosce il popolo americano. Senza una strategia ben articolata che l'opinione pubblica possa condividere e il mondo possa comprendere, all'America continuerà a mancare la legittimazione - ed in ultima istanza il potere - di cui ha bisogno per rendere il mondo un posto più sicuro di com'è oggi".

Amen.

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