giovedì 29 dicembre 2011

VOODOO 2012 / 5: LA PROFEZIA FINALE DI KARL ROVE


A tre giorni dal passaggio all'anno elettorale, il famigerato Karl Rove spara sulle colonne del Wall Street Journal una lunga ed articolata profezia sugli accadimenti politici del 2012.
Ovviamente, in cauda venenum:
"La ripresa economica continuerà ad essere anemica, lasciando sostanzialmente immutate al giorno delle elezioni sia la disoccupazione, sia i timori che il presidente non sia all'altezza di un compito tanto impegnativo. A causa di ciò, Obama perderà, subendo un calo di consensi in tutti i cinque gruppi elettorali che erano stati determinanti per la sua vittoria nel 2008 - indipendenti, donne, latinos, giovani ed ebrei. Riuscirà ad avere la maggioranza del voto di almeno tre di questi gruppi, ma non nella stessa misura in cui l'ebbe nella precedente elezione".

E quindi, chi vincerà?
Questo, non a caso, il malefico "boy genius" si guarda bene dall'azzardarlo.

sabato 24 dicembre 2011

giovedì 22 dicembre 2011

"GAME CHANGE" DIMEZZATO



Dopo mesi e mesi di astute anticipazioni sulla composizione del cast, delle quali avete letto anche qui, con l'appropinquarsi dell'anno elettorale ecco finalmente qualche prima sbirciatina alle immagini dell'attesissima miniserie Game Change, ispirata all'omonimo bestseller di Mike Halperin e John Heilemann che racconta i più scabrosi retroscena delle primarie e delle elezioni del 2008.
La serie andrà in onda negli USA a marzo su HBO (quindi poi presumibilmente anche qui in Italia su Sky); il primissimo trailer (anzi teaser, come dicono quelli bravi) è quello che vedete qui sopra.
Queste produzioni HBO solitamente sono eccellenti (basti ricordare come quest'anno hanno magistralmente trasposto in un film Too Big To Fail di Andrew Ross Sorkin, un piccolo capolavoro); stavolta però - a giudicare sia da questo primo teaser che dalle indiscrezioni sin qui uscite - viene il dubbio che abbiano preso un granchio clamoroso, scegliendo (per pudore filogovernativo?) di inscenare soltanto quella "metà" del libro che tratta di Sarah Palin e di John McCain, tralasciando clamorosamente quella che nel sottotitolo del libro viene addirittura prima, cioé quella che riguarda Obama e Clinton (intesa come Hillary ma non solo).
Peccato, si tratterebbe un'occasione clamorosamente sprecata: toccherebbe accontantarci della versione decaffeinata. Ma piacerebbe?

martedì 20 dicembre 2011

E' GIA' USA 2012, E ANCORA NON HO NIENTE DA METTERMI


Oggi su Notapolitica:

Mancano esattamente due settimane al caucus dell'Iowa con il quale il 3 gennaio avrà ufficialmente inizio la competizione per selezionare lo sfidante repubblicano per le elezioni presidenziali americane del 2012.
 
Solo due settimane; eppure la situazione non potrebbe essere più caotica e più imprevedibile.
L'exploit dell'ex speaker Newt Gingrich nei sondaggi sembra si stia già esaurendo, un po' troppo presto per un candidato che tutti gli analisti giudicano poco attrezzato per una lunga guerra di posizione, e che sarebbe quindi destinato ad avere la peggio se con Romney si innescasse un testa a testa come quello disegnato dai sondaggi più recenti.

Nella baraonda dell'ultim'ora persino il vecchio libertario Ron Paul, eterno candidato sulla cui eleggibilità nessuno è disposto a scommettere, sembra in procinto di vivere un suo piccolo "momentum"; mentre il governatore del Texas Rick Perry e la pasionaria dei Tea Party Michele Bachmann, pur avendo entrambi perso per strada gran parte dei propri consensi, non sono ancora ridotti a termini tanto minimi da poterli già dare aprioristicamente per perdenti.

In tutto ciò Mitt Romney, il grande sconfitto delle primarie del 2008 che stavolta molti avevano incautamente dato per favoritissimo, e che di fatto coltivava la sua candidatura da anni, rimane disperatamente inchiodato ben al di sotto di un terzo dei consensi - decisamente pochino per un frontrunner.

Per di più, stavolta la frammentazione nel campo repubblicano verrà gravemente amplificata dal fatto che il Grand Old Party ha deciso di tenere gran parte delle proprie primarie con un sistema di voto di tipo proporzionale. Nel 2008, se Romney avesse strappato appena tre punti percentuali in più nel voto popolare nelle primarie della Florida e in quelle del blocco del "supermartedì", sarebbe arrivato alla convention finale in sostanziale parità con John McCain; grazie al sistema maggioritario secco, si ritrovò invece indietro di ben trecento delegati. Ma quest'anno sarà molto diverso.

Paradossalmente, tutto ciò avviene a meno di un anno da un'elezione presidenziale straordinaria, nella quale il presidente uscente, contrariamente a quanto accade di consueto, rischierà seriamente di essere battuto.

Vediamo perché. Nel novembre del 2008 Obama venne eletto con il 53% del voto popolare. Vinse solo negli Stati nei quali la percentuale di elettori che esprimevano un giudizio favorevole sulla presidenza dell'uscente George W. Bush veniva rilevata al di sotto della soglia del 35%. data l'aria che tira, è difficile pensare che l'anno prossimo ne conquisti di nuovi.
Il "collegio elettorale" è composto da 538 "grandi elettori", quindi per vincere la Casa Bianca occorre il voto di almeno 270 di essi.
Nel 2008, gli Stati nei quali la maggioranza andò a John McCain ne esprimevano 173: se nel novembre del 2012 in quegli stessi Stati vincerà nuovamente il candidato repubblicano, quel bottino "facile" sarà aumentato a 180, perché in molti di quegli Stati il censimento del 2010 ha rilevato un aumento di popolazione che ha giocato in loro favore nella rassegnazione dei "voti elettorali" (caso estremo il Texas, che quest'anno conterà 4 voti in più).

Quindi, il candidato repubblicano si giocherà l'elezione su un cedimento di Obama che si traduca nella perdita di appena 90 voti elettorali.
Sono pochissimi, una miseria. Bush padre, l'ultimo presidente ad aver mancato la rielezione, quando nel 1992 al termine del suo primo mandato venne battuto da Bill Clinton, perse la bellezza di 258 dei voti elettorali con i quali era stato eletto. Prima di lui l'ultimo "single term president" era stato Jimmy Carter, che nel 1980 ne aveva persi 248.
Per rinvenire un precedente di un presidente che perde la rielezione per un margine di meno di cento voti elettorali, dobbiamo risalire indietro di un secolo tondo tondo prima della sconfitta di Bush padre: quando nel 1892 Benjamin Harrison mancò la rielezione per 88 voti elettorali.

A ciò si aggiunge il fatto che nel 2008 in alcuni Stati Obama vinse per un soffio. In South Carolina, ad esempio, vinse con un microscopico margine dello 0,4%; in Indiana dello 0,9. Basta un nonnulla per perdere simili vantaggi. Ma anche nella sempre cruciale Florida (che da sola quest'anno esprime ben 29 voti elettorali, due in più rispetto al 2008) vinse con un margine del 2,5%, non esattamente una valanga se si pensa che Bush nel 2004 aveva vinto nel Sunshine State con un margine del 4,2%.

Gli ultimi sondaggi vedono il presidente sempre più in difficoltà. E' pensabile che da qui a dieci mesi recuperi? Nessun presidente dai tempi di Franklin Delano Roosevelt è stato rieletto con un tasso di disoccupazione superiore al 7,2%; e nulla lascia intendere che durante il primo mandato di Obama essa scenderà al di sotto dell'8%.
La settimana scorsa il sondaggio della Associated Press - GfK ha rilevato una maggioranza assoluta di elettori sfavorevoli alla rielezione, ed è la prima volta che accade da quando questo sondaggio viene condotto.

A questo punto l'unico pronostico che si possa azzardare, alla vigilia di questo anno elettorale anomalo ed imprevedibile, è che se qualcuno può regalare ad Obama una rielezione tanto ardua, quel qualcuno oggi come oggi pare essere proprio il partito repubblicano, se si impegnerà a scegliere l'uomo sbagliato.

lunedì 12 dicembre 2011

SCOMMETTIAMO CHE (OVVERO: L'UOMO DA DIECIMILA DOLLARI)


Nelle primarie i dibattiti contano, c'è poco da fare. Se quello di un mese fa in Michigan verrà ricordato come quello durante il quale Rick Perry si è politicamente suicidato, quello di sabato sera a Des Moines (Iowa) potrebbe aver fornito lo scorcio decisivo nel rivelare la inadeguatezza di Mitt Romney.
Il candidato più preparato, quello meglio organizzato, "l'unico che batterebbe Obama", ecc. ecc., si è lasciato sopraffare dallo zelo di scrollarsi di dosso il "suicida" di cui sopra, perdendo la calma di fronte non ad un inatteso "asso nella manica", bensì ad una provocazione banale e tutt'altro che nuova.
Incalzato da Perry sulla solita storia della riforma sanitaria da lui fatta approvare in Massachussetts (quella pressoché identica alla odiatissima riforma nazionale fatta approvare da Obama, al punto da essere stata usata come suo prototipo), e in particolare accusato di aver scritto che la sua riforma andava presa a modello a livello nazionale (e di aver poi fatto sparire quella frase nelle successive edizioni del libro - quindi esattamente la stessa punzecchiatura che Perry aveva usato a settembre nel dibattito in Florida), Romney stavolta ha reagito come un danaroso spaccone da bar sfidando l'avversario a scommettere diecimila dollari sulla questione. Perry, che in fondo tanto sprovveduto non è, ha garbatamente rifiutato di prestarsi al giochino spiegando di non essere "nel giro delle scommesse". Un simpatico siparietto, forse non del tutto adeguato alle circostanze ma certamente pane per i denti dei media.
Forse Romney intendeva sintonizzarsi con l'elettore medio dell'Iowa - cioé con un bifolco, agli occhi di un aristocratico come lui; peccato però che diecimila dollari equivalgano a quattro mesi di stipendio da quelle parti, e comunque ad una cifra che nessuna persona normale giocherebbe a scommettere in questi tempi di vacche magre.
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Per uno come lui, in lotta contro l'etichetta di "candidato di Wall Street" (vedasi il recente spot satirico del Partito Democratico nel quale si gioca a propagandare un suo ticket con il mitico Gordon Gekko di oliverstoniana memoria) e di personaggio troppo lontano dalla gente comune e troppo vicino all'odiato mondo dei miliardari e dei finanzieri (che in effetti, dati alla mano, sono propensi a finanziare lui più di chiunque altro), quel pacchiano sbattere un pacco di grana sul tavolo è stata la mossa più controproducente che la mente umana potesse concepire.
Di un dibattito come questo contano più che altro questi piccoli passaggi di cinquanta secondi destinati a rimanere impressi, ad essere ripresi dalle TV e fatti girare sul web, ad essere usati in spot avversari, ecc. L'immagine di quel signore troppo abbronzato pronto a mettere mano al portafogli per apparire potente, e quindi destinato ad apparire debole, difficilmente gli si scollerà di dosso.
La miglior narrazione in lingua italiana di questa gag la trovate, come spesso accade, sul blog di Andrea Salvadore: che oltre al racconto del magic moment ("terrificante Romney, figura da bimbo viziato, completamente out of touch con la middle class che vorrebbe rappresentare... roba da bulletto che paghera’ cara, paghera’ tutta") dà conto anche delle "infinite reazioni" l'indomani nei talk show politici e della "vetta nei tweet" tra gli spettatori in quel momento di "fessa volgarità in diretta".
Perfino sul sito della National Review, dove solitamente si leggono sperticati elogi per Romney, la recensione del dibattito di sabato decrive un Gingrich indiscusso vincitore  - ed un Perry miracolosamente riposizionatosi come potenziale riserva casomai la bolla del vecchio Newt dovesse esplodere prima di aver chiuso la partita.

Staremo a vedere i sondaggi successivi a questo dibattito; quelli immediatamente antecedenti parlano di un Gingrich in enorme vantaggio, e a questo punto c'è da aspettarsi che la musica non cambi.
E' un quadro che continua a destare irritazione e dincredulità non solo presso l'establishment del partito, ma anche presso gran parte dei commentatori ed opinionisti di area conservatrice (durante l'ultimo weekend Peggy Noonan ha descritto Newt come una mina vagante in quanto notoriamente incapace di non farsi dare alla testa dal successo, e David Brooks lo ha ritratto come troppo statalista anche per un moderato come lui).

Prossimo dibattito giovedì prossimo a Sioux City, cioé sempre lì, in Iowa, dove si apriranno le danze tra appena tre settimane.

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UPDATE - Come volevasi dimostare: stamane, puntuale como la muerte, è arrivato l'immancabile nuovo spot dei democratici, ricavato dalla figuraccia di sabato sera:

martedì 6 dicembre 2011

SOMETHING OLD, SOMETHING NEWT


Quindi sarà lui?
Davvero uno che divenne deputato quando Reagan non era ancora presidente ed Obama non aveva ancora finito il liceo, uno che ha già "fatto la rivoluzone" da speaker della Camera (e uomo dell'anno per TIME ) ai tempi di Bill Clinton, quando Obama era un ambizioso  community organizer 34enne alle prese con una precoce autobiografia, può essere "l'uomo nuovo" che tenterà di cambiare colore alla Casa Bianca nel 2012?
Possibile?
Dopo il suicidio di Rick Perry (anche se il potente Haley Barbour, che l'ha preceduto alla presidenza della associazione dei governatori repubblicani, pochi giorni fa invitava a non darlo ancora per morto) e il forfait di quello della pizza (i cui consensi sono destinati ad essere facilmente calamitati dal "prossimo in lista", trattandosi di elettorato di opinione non strutturato), non resta molto altro sul menu.
Mitt Romney, quello che doveva essere l'"inevitabile" trionfatore di queste primarie repubblicane, proprio non riesce a guadagnare terreno - ed anzi le sue azioni sono in netto calo non solo in Iowa, ma anche in Florida e in South Carolina, e cominciano a calare persino in New Hampshire - gli stati in cui si gioca tutta la partita dell'early vote.
Tutto, quindi, sembra giocare a favore del vecchio Newt.
Che è uno bravo, non c'è dubbio: ieri ad esempio, per battere il ferro finché è caldo, ha lanciato in Iowa uno spot TV che finalmente porta in questa campagna lo spirito ottimista e fiducioso di quella per la rielezione di Reagan ("Morning in America") di cui segnalavo la mancanza a settembre, quando pareva che il duello sarebbe stato Romney/Perry.
Ecco l'originale del 1984:


Ed ecco la riedizione modello "Newt 2012":


Certo, Gingrich ci sa fare. In primavera gli ottimi Mancia & Bressan avevano le loro ragioni per accendere i fumogeni sulla base della considerazione che in questo ciclo "servono idee"; e sotto questo profilo il vecchio "storico autodidatta" Newt è, indiscutibilmente, un vulcano in eruzione.


Eppure, non è così semplice. Il vecchio Newt resta una minestra riscaldata, un arcinoto esponente di quella esecrata vecchia "casta" corrotta e spendacciona di politicanti di Washington che ultimamente sta tanto sulle palle un po' a tutti, Tea Partiers in primis. Ieri il Partito Democratico ha lanciato un nuovo, micidiale spot che relega in quell'odiata categoria il povero Romney, sbertucciandolo per il suo tentativo di spacciarsi  per outsider; ma se alla fine il candidato fosse Gingrich, quanti e quali spunti avrebbero per sfottò di questo genere?
A centrare il punto nelle scorse ore è stato Charles Krauthammer: Gingrich ha scarse chance con il decisivo elettorato "indipendente", non perché troppo conservatore o troppo poco moderato, ma perché troppo legato alla vecchia politica nei confornti della quale gli elettori, specialmente quelli non affiliati ad uno dei due grandi partiti, sono ora più che mai disillusi ed insofferenti.
Per di più, in oltre trent'anni di carriera ha collezionato moltissimi nemici anche dentro la galassia repubblicana. Secondo The Politico molti suoi detrattori in questi giorni si stanno mordendo la lingua, temendo che prossimamente dovranno ingoiare il rospo; non tutti però, visto che sul web circolano già svariate malignità da parte di suoi compagni di partito pronti a giurare che Obama pagherebbe pur di avere la fortuna di ritrovarsi lui come avversario.

Il debutto di questa nuova versione del fatidico "duello" sarà sabato prossimo proprio in Iowa, a Des Moines, in occasione del primo dibattito elettorale successivo all'uscita di scena di Cain. I sondaggi della settima prossima, dunque, ci diranno molte cose.

giovedì 10 novembre 2011

"OOPS": IL SUICIDIO DI RICK PERRY?


"Dunque: per circa 74 minuti, Rick Perry ha dato la sua prestazione migliore in un dibattito da quando ha annunciato la sua candidatura presidenziale il 13 agosto. La sua grammatica non era sempre perfetta, non aveva messo a segno tutti i suoi punti, ma era energico, dinamico e appariva ben saldo in sella. Ha sbandierato con maestria il successo delle sue politiche in Texas e ha spiegato meglio di quanto non avesse mai fatto prima come quei successi si applicherebbero a quello che sarebbe il suo operato come Presidente.
Poi è giunto il momento in cui praticamente ogni spettatore deve aver concluso che egli ha posto termine ad ogni ragionevole chance di essere un candidato credibile: quando non è riuscito a ricordare il terzo dei tre ministeri dei quali il suo programma elettorale prevede l'eliminazione. I miei colleghi più giovani qui al Washington Examiner hanno twittato che questo era il momento peggiore in un dibattito presidenziale che avessero mai visto. Beh, io i dibattiti presidenziali li ho visti tutti, fin dal primo dibattito Kennedy-Nixon nel 1960: e quello di ieri è stato di gran lunga il momento peggiore in un dibattito che io abbia mai visto".

Le parole di un analista autorevole come Michael Barone, solitamente cauto nei giudizi, basterebbero da sole a definire l'esito del dibattito di ieri sera in Michigan.
Ma per la eventualità che si tratti di un suo guizzo di malumore, vale la pena di scorrere i giudizi dei suoi colleghi.

Mark McKinnon, illustre spin doctor texano già al fianco di George W. Bush e di John McCain:
"Rick Perry è ora ufficialmente il Charlie Brown dei candidati presidenziali. Mi ricorda quel ripetente che c'era in classe con me al liceo. Anche se era lì da molto più tempo di tutti gli altri (come uno che è governatore da 10 anni), ancora non sa le risposte da dare.
Una cosa è avere una defianche sul proghramma economico in cinquentasei punti di Mitt Romney. O anche su un piano economico in dieci punti. Ma quando stai parlando din un programma in tre punti e non riesci ad andare oltre il secondo, sei finito. Squalificato.
Perry ormai è un morto che cammina. Proseguirà nelle primarie solo per salvare la faccia, ma non risucirà a guadagnare neanche un voto. Anzi, perderà rapidamente anche quelli che aveva. Quando ridono di te, sei finito. I sostenitori di Perry ieri sono corsi a nascondersi nel buio e a staccare i manifesti".

Roger Simon, commentatore di punta di The Politico:
"I texani se ne intendono di marchi. Hanno dimestichezza con quelli a fuoco per il bestiame. E dopo il dibattito di ieri sera, in cui Perry non è stato in grado di ricordarsi la terza di tre cose che aveva da dire - vabbé, due su tre se le è ricordate, dategli un po' di tregua! - si è marchiato per sempre come il “Candidato Oops”, perché “oops” è tutto ciò che è riuscito a rispondere dopo aver frugato inutilmente nel suo cervello alla vana ricerca di una risposta per svariati secondi di agonia in diretta TV".

Qualunque altro commentatore si consulti, il giudizio è unanime: sentenza di morte, per suicidio.
Eccolo qui il magic moment, giudicate voi stessi:


Se non si fosse trattato di un dibattito particolarmente cruciale, se non fosse stata l'occasione d'oro per giocare l'asso del "Miracolo Texano" (un confronto ufficialmente tutto incentrato sulla crisi economica e sulla disoccupazione - non a caso si dibatteva in Michigan, poco lontano da Detroit), se dopo le deludenti performance nella prima tornata di dibattiti Perry non fosse scivolato stabilmente al quarto posto nei sondaggi, se quella di ieri sera non fosse stata l'occasione d'oro per riprendersi i consensi spostatisi su quello della pizza dopo che quest'ultimo è stato inchiodato da ben quattro accuse di molestie sessuali, e soprattutto se oramai non mancassero appena due mesi alle prime votazioni (in primis i caucus dell'Iowa, il primo test di tenuta "a destra" nelle primarie repubblicane): in mancanza di tutte queste circostanze, quella di ieri sera sarebbe stata solo una brutta gaffe.
Siccome invece le circostanze erano esattamente quelle, è più che comprensibile che tutti ne traggano le più drastiche conseguenze: nulla sarà più come prima.

Se fosse vero, si andrebbe veramente a parare sulla candidatura di Romney - uno per non beccarsi il quale la maggioranza degli elettori era sino ad ora disposta a votare persino quello della pizza.
Condivido quindi solo in minor parte le motivazioni per le quali Lexington definisce quello di ieri "L' OOPS che cambiò la storia del mondo"-  anche se di per sè la definizione, bisogna dargliene atto, è splendida e molto azzeccata.

Comunque, pare che dopo il dibattito Perry si sia presentato in sala stampa (contrariamente alle proprie abitudini), ed abbia regalato ai cronisti questa pennellata di autoironia cowboy: "Meno male che calzavo i miei stivali, perché sono sicuro di averne pestata una".
Su questo non c'è dubbio.
Al contempo, Aaron Blake del Washington Post riferisce di un "fundraiser di massimo livello" che ieri sera gli avrebbe confidato: "la campagna presidenziale di Perry è finita. Farebbe meglio a tornare a concentrarsi sul governo del Texas".

venerdì 4 novembre 2011

OBAMA E' GIA' "TOSTATO"?

Con questo irriverente interrogativo il New York Times Magazine titola il lungo pezzo di cui alla altrettanto irriverente copertina del nuovo  numero. Nate Silver, enfant prodige dei sondaggi e dei pronostici, pesa a un anno esatto dal voto le chance di rielezione del 44esimo presidente. Qui da noi diremmo piuttosto "fritto" - o forse "bollito" - ma il senso è comunque chiaro.
Tra le interminabili premesse della profezia di Silver, questo frammento mi sembra degno di nota: i sondaggi di adesso lasciano il tempo che trovano, dopotutto "alla fine del settembre 1983 Ronald Reagan era diatro a Walter Mondale di due punti, e nell'ottobre del 1991 George Bush padre era avanti a Bill Clinton di 55 a 20".
Per il resto, il suo sforzo appassionato di mettere assieme un "modello" che partorisca una predizione attendibile è lodevole, ma il risultato non convince più di tanto anche perché si tratta di un giocattolone che difetta di distinguo in base ai gruppi etnici, a quelli anagrafici, alle aree geografiche, ecc.
Comunque, in estrema sintesi la predizione è quadruplice ed è la seguente:
a) Se l'economia NON si ripiglia e lo sfidante è Romney, la probabilità di rielezione di Obama è 17% contro 83;
b) Se l'economia si ripiglia e lo sfidante è Romney, la probabilità di rielezione di Obama è 60% contro 40;
c) Se l'economia si ripiglia e lo sfidante è Perry, la probabilità di rielezione di Obama è 83% contro 17;
d) Se l'economia NON si ripiglia e lo sfidante è Perry, la probabilità di rielezione di Obama è 41% contro 59.
Sintetizzando ancora più brutalmente, si potrebbe parafrasare anche così: se l'economia non si ripiglia, Obama è tostato/fritto/bollito a prescindere da chi sia lo sfidante, ma solo se lo sfindate è Romney rischia una debacle di proporzioni apocalittiche; se l'economia si ripiglia, è comunque salvo - e in tal caso vince contro Romney e stravince contro Perry.

Mi lascia sempre perplesso tutta questa fiducia nella maggior eleggibilità di Romney - tendenzialmente perché più moderato, più mainstream, più rassicurante, ecc. - che finisce per collimare con l'insipido miraggio di Mitt "l'inevitabile": a giudicare dalle prime prove generali, lo staff di Obama si divertirebbe non poco a fare a pezzi questo "imbattibile" sfidante.

Ma al contempo trovo molto saggio il fatto che tutta la elucrubazione del creatore di FiveThirtyEight dia per assodato un dato: i possibili veri sfidanti, gli unici "casi" sui quali vale la pena di concentrarsi, sono solo due - Romney e Perry.
Tutto il resto è rumore di fondo e passerà presto, vedrete.

mercoledì 2 novembre 2011

I SEE THE FREEDOM TOWER RISING / 6: SONO STATO A GROUND ZERO


Sono stato a Ground Zero, e ho trovato due monumenti. Oltre al monumento "ufficiale", quello alla memoria delle vittime, ce n'è un altro più grande e forse ancora più emblematico: il cantiere.
Chi come me avesse visitato il sito tra il 2001 e il 2010 lo ricorda recintato sì come un (immenso) cantiere, ma all'interno desolatamente inattivo, quasi abbandonato. Un po' come certi cantieri autostradali "incompiuti" della nostra misera Little Italy. Colpiva tristemente quell'enorme vuoto, quello stato di assurda inerzia, quasi a significare l'incapacità di reagire da parte di un'America in crisi di mezza età.
Adesso, invece, tutto è cambiato. Giungendo a Ground Zero ci si ritrova nel bel mezzo di un titanico cantiere febbrilmente e maestosamente attivo. Oltre alla Freedom Tower (che, oramai prossima al 90esimo piano, svetta già come l'edificio visibilmente più alto di tutta Lower Manhattan) stanno venendo su anche le altre torri "minori", e si ha già la percezione di un complesso che nel suo insieme celebrerà la stessa "idea" che era sottesa alle Torri Gemelle del vecchio WTC.

Il grattacielo è la quintessenza dell'americanismo in architettura. Quando un secolo fa i primissimi grattacieli cominciarono ad essere innalzati - proprio lì, a Lower Manhattan - quella parte di America che temeva un'America troppo americana si spaventò. A Washington i parlamentari si affrettarono ad inserire nel piano regolatore del District of Columbia dei limiti di altezza per gli edifici (tutt'ora vigenti) che garantissero che nessun palazzo privato potesse fare ombra al Campidoglio.
La ricostruzione di un WTC fatto di grattacieli, e di grattacieli privati e commerciali, è sacrosanta perché rappresenta la rivendicazione di ciò che l'attentato di dieci anni fa intese annientare. Mi ha però preso in contropiede il fatto che questo orgoglio che permeerà l'opera una volta compiuta, sia già espresso ora, dal cantiere. Un cantiere il più possibile aperto al pubblico, lambito dal traffico, vissuto ed esibito. Illuminato la notte faraonicamente, senza badare a spese. Un cantiere attorno al quale gli esercizi commerciali (l'hotel Hilton Millennium, uno degli hotel "W", svariati fast food e diner, l'outlet Century 21) prosperano già come il trambusto non li disturbasse, ma al contrario ravvivasse piacevolmente il sito. Il visitatore si trova immerso in questa disciplinata frenesia e se ne sente coinvolto, partecipe. in mezzo all'andirivieni di betoniere passa un camion dei pompieri che non è, non può (più) essere un "qualunque" camion dei pompieri:
Lì accanto sosta - accidentale omaggio al world trade - il camion del rifornimento della Coca-Cola, e anche quello non è, non può (più) essere un "qualunque" camion della Coca-Cola:
Bentornata, America.

venerdì 14 ottobre 2011

SOMEWHERE, BEYOND THE SEA

Caro lettore,

Quando leggerai questo post io sarò in volo verso un Paese lontano - vediamo se indovini quale.
Pausa fino a fine mese, al ritorno ti racconto.

giovedì 13 ottobre 2011

FATE IL VOSTRO GIOCO!


Racconta Jennifer Rubin, la blogger conservatrice del Washington Post, che cercando su Google "Romney inevitabile" si ottengono la bellezza di un milione e novecentoottantamila risultati. Ho verificato: è vero. Alla faccia. In effetti, da qualche giorno lo si legge un po' ovunque. La Rubin mette in guardia contro queste premature conclusioni, che definisce "sciocche" -  e non ha affatto torto.
Qui da noi la tesi della "inevitabilità" di Romney è stata recentemente raccontata da Christian Rocca sul Sole24Ore, accompagnandola con il parallelo con la vittoria di John Kerry alle primarie democratiche del 2004 (e con quello, già proposto oltreoceano da Ross Douthat sul suo blog targato New York Times, tra la candidatura di Rcik Perry e quella di Howard Dean).
E a proposito di Douthat: ieri si cimentava anche lui in questo esercizio di stile, tentando con la variante "Romney l'inesorabile".
Quanta fretta. Dopo un paio di settimane con Perry in brusco calo, sorpassato nei sondaggi non solo da Romney ma anche da quello della pizza, dopo l'endorsement di Chris Christie a Romney (preceduto da quello di Mel Martinez, pezzo grosso del partito in Florida che sedette sul seggio senatoriale oggi di Marco Rubio, e seguito a ruota dall'opt-out di Rudy Giuliani), e dopo che che martedì sera al dibattito in New Hampshire Perry non ha brillato ed anzi si è fatto rubare la scena da quello della pizza, questo brusìo si è fatto sempre più vivace.
Immotivatamente, a ben vedere.
Intendiamoci: che alla fine Romney vinca le primarie è possibilissimo, ci mancherebbe. Ma considerarlo scontato, e cercare di intravedere già oggi la ineluttabilità di quusto esito, mi pare campato in aria.
Basta considerare:
1) che siamo appena ad ottobre, ed in tre mesi basta poco per ribaltare tutto - ma proprio tutto.
Si pensi a come stavano messe le primarie repubblicane quattro anni fa, nell'ottobre del 2007: la palma di frontrunner secondo i sondaggi era contesa fra Fred Thompson, uno che di lì a due mesi evaporò senza motivo e nell'indifferenza generale, e Rudy Giuliani, che ben presto si sarebbe reso protagonista di uno dei più clamorosi flop nella storia delle primarie repubblicane; il futuro vincitore John McCain, per la cui candidatura tutti suonavano il requiem, stentava a tener testa anche a Romney (sempre lui).
2) che fino ad ora si è giocato quasi solo con i dibattiti, i quali in questa fase contano pochino amche perché l' "americano medio" non li sta seguendo.
Che Perry sia scarsetto in questo campo si sapeva sin da principio; ma si sa anche che storicamente questa debolezza non gli ha nociuto granché. Le ultime primarie da lui disputate, quelle per la ricandidatura a governatore del Texas, le ha vinte nonostante delle performance mediocri nei dibattiti, contro una avversaria molto più brava di lui e molto più supportata dall'establishment del partito (clan Bush in primis).
3) che contano parecchio anche i soldi, e Perry, del quale si discuteva se, essendo sceso in campo solo ad agosto inoltrato, sarebbe riuscito a raccogliere 10 milioni di dollari entro settembre, risulta averne raccolti 17.
4) che Romney appare aver già espresso quasi tutto il suo potenziale: l'unico candidato di un qualche peso a lui omogeneo, Pawlenty, è già confluito da tempo, ed il più influente dei non-candidati, Christie, ha ora fatto altrettanto. Inoltre Romney ha già squadernato praticamente tutto il suo programma elettorale, sia in politica economica che in politica estera.
Perry, al contrario, ha ancora da giocare quasi tutte le sue carte: ha da raccogliere ancora tutte le confluenze verosimilmente possibili, e non ha ancora cominciato a rivelare il suo programma.
Al contempo, Romney non riesce a raggiungere nei sondaggi nemmeno il 30%, neanche ora che Perry è sceso sotto il 20: allo sgonfiamento del secondo, non ha corrisposto una avanzata del primo. I consensi che Perry ha recentemente (temporanemanente?) perso appaiono confluiti su tutti, persino su quello della pizza, tranne che su Romney, che sembra quindi disperatamente isolato, eslcuso da questo sistema di vasi comunicanti.
5) che, infine, deve ancora cominciare il vero tiro al bersaglio contro Romney, essendo facile mirare ai suoi enormi talloni d'Achille - in primis la sua riforma sanitaria in Massachusetts, che - è ormai ufficiale - è servita da vero e proprio modello per quella nazionale di Obama, ma più in generale le sue affinità con il presidente in carica (chiedere a Jon Stewart), e la sua nota inclinazione al flip-flop più pacchiano (siamo arrivati al punto in cui il Team Obama sfotte Rick Perry per non aver ancora voluto tentare un vero affondo in questo senso).
Insomma: fare pronostici ora come ora è ancora una scommessa su una partita apertissima. Fate il vostro gioco e divertitevi, ma per carità non parlate di certezze o di inevitabilità.
A proposito: il prossimo dibattito - l'ultimo di questa stagione - si tiene martedì prossimo a Las Vegas.
Prendetelo come un monito.

giovedì 6 ottobre 2011

GAME OVER


Fine del bluff. Come volevasi dimostrare: non era un fuoco, ma solo un gioco. I tentennamenti, i cambi di staff e le finte agende simil-elettorali, le indiscrezioni, il tour con il torpedone truzzo, le velate minacce di lanciare un partito tutto suo, i pronostici farlocchi di Karl Rove (che di mestiere non fa davvero l'opinionista, quindi ovviamente parla con lingua biforcuta): tutta fuffa. Sarah Palin non si candida alle primarie presidenziali repubblicane.
Da ieri sera è ufficiale, anche se chi mi legge (e si fida) lo sapeva da anni. Non si poteva ragionevolmente dubitarne, anche a fronte della sua performance molto modesta alle pur trionfali midterm dello scorso novembre, e, da ultimo, di fronte alla sua reazione palesemente spiazzata di fronte alla discesa in campo di Rick Perry lo scorso agosto (per la serie: se l'avessi saputo, col cactus che ti davo l'endorsement per la rielezione a governatore).
Eppure in tanti nel circo mediatico hanno abboccato, e lei se li è portati al guanzaglio per mesi: il che dimostra che almeno in una cosa è bravissima, cioé a fare il personaggio televisivo. Il che è ciò che ora finalmente tornerà ad essere (persino per interposta fiction, volente o nolente). Così almeno la pianteranno di inserirla a vanvera nei sondaggi (in teoria il principale beneficiario dovrebbe essere Perry, così come il principale beneficiario dell'altro prevedibilissimo opt-out, quello di Chris Christie, dovrebbe essere Romney. Ma chissà).
Da Game Change a Game Over, quidi? Sì e no. Il fatto che non si candidi non significa che non avrà un ruolo nelle primarie: per lei la carriera mediatica e quella politica sono tutt'uno, quindi  a maggior ragione ora la vedremo volteggiare sui candidati cercando di farsi corteggiare mentre ostenta indecisione nella scelta del pistolero giusto sulla cui zucca appendere il cappello. You betcha.

giovedì 29 settembre 2011

ECCE BOMBO


"No, allora non mi candido.
Che dite, mi candido?
Mi si nota di più se aspetto ma faccio capire che forse sarei disponibile a candidarmi, o se non mi candido per niente?
Faccio un comizio. Faccio un comizio e mi faccio vedere, così, come se avessi deciso di candidarmi, su Fox News, in diretta dalla Reagan Library. Voi mi fate "Chris vieni candidati con gli altri, dai"; ed io: "lasciate, lasciate che vadano avanti loro, io magari li raggiungo dopo".
Mi candido, ci vediamo in New Hampshire.
No, non mi va, non mi candido - no".
Non ho resistito alla tentazione di parafrasare Nanni Moretti di fronte alla pantomima inscenata dal carismatico governatore "extralarge" del New Jersey Chris Christie, il quale ha volutamente riattizzato, con il suo comizio dell'altra sera alla Reagan Library, la leggenda di un suo ingresso più che tardivo nelle primarie repubblicane.
Un teatrino, della serie "ho-detto-che-non-mi-candido-ma-chiedetemolo-ancora-che-non-si-sa-mai", con il quale Christie non si limita a coltivare saggiamente la propria popolarità e visibilità.
E' vero che quanto a "stile", il governatore dello Stato natìo di Bruce Springsteen (di cui è un appassionato fan) è decisamente antitetico a Romney, e simile a Perry: pane al pane e vino al vino, ruvido quando serve, abbastanza schietto e diretto da apparire sempre sincero, energico e positivo ma anche ragionevolmente aggressivo perché passionale.
Ed è anche vero che sta tanto simpatico ai Tea Party, e a tribuni ultraconservatori come Rush Limbaugh ed Ann Coulter, non lo deve solo a questo: c'è anche della sostanza, la sua battaglia per tagliare la spesa di uno Stato devastato dal deficit, e la sua battaglia reaganiana contro i sindacati.
Ma nonostante queste battaglie, ed anzi a maggior ragione per controbilanciarle, egli rimane pur sempre - come fu Romney, ed al contrario di Perry - il governatore repubblicano di un feudo democratico, e quindi nel complesso la sua linea politica (sulla diffusione delle armi, sui diritti delle coppie gay, sull'immigrazione...) è quella di un moderato, di un centrista e di un pragmatico. Se si trascura questo fatto, ci si espone ad infiniti equivoci.
 
Il sondaggio più negativo per Rick Perry tra quelli pubblicati dopo la sua discesa in campo, ossia quello di FoxNews condotto dopo lo stallo dell'ultimo dibattito in Florida ed uscito poche ore fa, dice che da agosto Perry sarebbe crollato di dieci punti percentuali; ma dice anche che, nonostante ciò, Romney sarebbe cresciuto di un solo punto. Niente vasi comunicanti, quindi: i delusi dalla performanche di Perry votano piuttosto per personaggi come Herman Cain (uscito eccentricamente vincitore dallo strawpoll di Orlando), o Newt Gingrich. Di adattarsi a Romney proprio non ne vogliono sapere.
Ma non è solo alla "base" che Romney non va giù. Oggi il New York Times racconta che la ingombrante presenza di Christie a bordocampo, suscitando aspettative di una candidatura establishmentarian più appetibile, sta trattenendo importanti finanziatori repubblicani dal firmare assegni per la campagna di Romney E ieri lo stesso quotidiano riferiva di un gruppo di pezzi grossi intenti a finanziare la "mossa" di Christie.
Se a questo aggiungiamo i ragionamenti che Andrea Salvadore ha egregiamente sintetizzato sul contributo di un protagonista dell'establishment repubblicano come il boss di Fox News Richard Ailes, il quadro è abbastanza chiaro: Christie non si candiderà, ma il suo protagonismo è un diversivo che nuoce soprattutto a Romney, e rivela la fragilità della sua candidatura (considerato che essa è nata un secolo prima di quella di Perry).

martedì 27 settembre 2011

VOODOO 2012 / 4: RICK PERRY COME BARRY GOLDWATER?


Il pezzo della settimana è senza dubbio quello di Frank Rich uscito domenica sul sito del New York Magazine. Merita, non tanto per la tirata "contro la bipartisanship", quanto per la apocalittica profezia sulle prossime elezioni: 

"Perry non è una faccenda della serie "lo svitato del giorno", tipo Michele Bachmann. E' un affare molto serio. Non è inverosimile che possa vincere la candidatura del suo partito e vincere in abbastanza Stati di quelli che ogni volta fanno da ago della bilancia con conteggio al cardiopalma da strappare la presidenza.
Ce la può fare, perché la congiuntura che viviamo è quella giusta per un politico come lui. Un Paese disperato ed arrabbiato ha di fronte una recessione "double dip" ed ha zero prospettive di ricevere aiuto da una Washington ormai defunta.
Tra i candidati in lizza, Perry è l'unico candidato efficace - stando al suo curriculum di governatore abile nell'organizzazione e nella raccolta di finanziamenti, ai suoi sondaggi e elle sue elezioni vinte senza fare prigionieri - che affermi da "falco" una alternativa senza mezzi termini a questo fallimenare status quo.  [...]
Che Perry ce la faccia o no a centrare la posta in gioco finale, può comunque provocare uno shock al sistema paragonabile a quello di Barry Goldwater* nel 1964 - e sottovalutato quanto lo fu allora quello di Goldwater.
Nel suo capolavoro Before the Storm (2001) sulle origini e il trionfo della rivoluzione conservatrice, Rick Perlstein ricorda come all'epoca i grandi esperti di Washington pensavano che la sconfitta disastrosa di Goldwater avesse segnato la fine del suo movimento. James Reston, l'editorialista principe del New York Times, parlò a nome di tutti loro quando decretò che Goldwater aveva "mandato fuori strada il suo partito per un lungo tempo a venire, e non pare nemmeno che sapranno anche solo gestire l'uscita di strada". Ma come nota Perlstein, "in esito alle elezioni immediatamente successive, appena un paio d'anni dopo, i conservatori dominavano già il Congresso al punto tale che Lyndon Johnson non era nemmeno in grado di far stanziare i fondi per la derattizzazioni dei bassifondi". Quei prematuri necrologi per la destra, secondo Perlstein, rappresentarono "uno dei più gravi casi di errore di valutazione collettivo nella storia del giornalismo americano".
Quello che i giornalisti, da dentro la loro "bolla" di Washington, non seppero vedere era che il consenso trasversale a livello nazionale per la centralità dell'intervento statale - che aveva retto attraverso le amministrazioni Roosevelt, Truman, Eisenhower, Kennedy e Johnson  - era kaputt. La Reagan revolution era lì dietro le quinte pronta ad entrare in scena.
Se Perry riesce ad ottenere la candidatura vincendo le primarie, può anche darsi che poi alle elezioni generali finisca a gambe all'aria, come Goldwater. E' questo il pronostico di tutti i Reston d'oggi. Ma potrebbe anche non andare così. Perry avrebbe da sfruttare lo scenario di una economia disastrata, al contrario di Goldwater che si candidò in tempi di boom con la disoccupazione inferiore al 6% e il PIL al 5,8 da un anno. Quale che sia il destino elettorale di Perry nel 2012, la sua ascesa-lampo è la prova definitiva, ove mai ve ne fosse bisogno in tempi in cui il Partito Repubblicano ruota attorno ai Tea Party, del fatto che oggi in America il consenso trasversale è impraticabile, così come lo era nel 1964".
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[*] Nota per i neofiti: Barry Goldwater, senatore dell'Arizona "a vita" da quando l'Arizona divenne uno Stato (alla sua morte gli succedette John McCain), fu lo sfidante repubblicano alle presidenziali del  1964, protagonista di un assalto alla baionetta contro il welfarismo kennedyano. Vinse le primarie repubblicane contro il governatore di New York, l'aristocratico ipercentrista Nelson Rockefeller, anche grazie ad un carisma condito di citazioni ad effetto (clebre il suo discorso di accettazione della candidatura, in cui, parafrasando Cicerone, proclamò: "vi ricordo che l'estremismo nella difesa della libertà non è un vizio, e la moderazione nella ricerca della giustizia non è una virtù"). L'elezione contro Lyndon Johnson la straperse, ce la fece solo in sei Stati su cinquanta e tutti marginali: un record negativo nella storia delle presidenziali. Ma al contempo gettò le basi di quell’alleanza anticomunista tra la destra “religiosa” e i libertari antistatalisti che costituì, con sedici anni di anticipo, la premessa della rimonta della quale si sarebbe reso protagonista, una generazione dopo, Ronald Reagan - il quale non a caso aveva esordito come militante repubblicano proprio nella campagna per Goldwater. Il commentatore del Washington Post George Will ha riassunto il concetto meglio di chiunque altro: «Goldwater le vinse le elezioni del 1964. Solo che ci vollero sedici anni per contare i voti».

sabato 24 settembre 2011

QUANDO C'ERA LUI


Di sondaggi nefasti negli ultimi mesi Barack Obama ne ha dovuti ingoiare parecchi, ma quello divulgato ieri dalla Gallup in un certo senso è il più amaro di tutti: alla domanda "pensi che Barack Obama sia stato un presidente migliore, più o meno uguale, o peggiore di Bill Clinton?" il 50% degli intervistati ha risposto "peggiore", il 35% "più o meno uguale" ed appena un misero, imbarazzante 12% - dicesi: do-di-ci-per-cen-to - "migliore".
Un giudizio decisamente umiliante per almeno un paio di ragioni: una è che Bill prima di essere il marito del Segretario di Stato dell'amministrazione Obama era stato il marito/socio della strenua avversaria di Obama alle primarie, picchiando duro come solo lui sa fare e lasciando trapelare un viscerale disprezzo verso il "pivello" di Chicago (memorabile la battuta, spifferata dai retroscenisti del bestseller "Game Change", "quel ragazzino qualche anno fa ci avrebbe servito il caffé"). La vittoria alle primarie del 2008 aveva consacrato Obama come "rottamatore" del clintonismo inteso come corrotto ed obsoleto ancien régime del Partito Democratico: tutta questa nostalgia sa di ripensamento per la base, di rivincita per il fu detronizzato Bill, e di sconfessamento per Obama.

L'altro risvolto che contribuisce ad acuire la tossicità di questo sondaggio è rappresentato dal fatto che il vecchio Bill sta per uscire con un libro, dal titolo "Back to Work", in cui spiega come fare ciò che apparentemente Obama non sta riuscendo a fare, ossia far ripartire l'economia e l'occupazione. Il contenuto grosso modo è già noto, perché presumibilmente sarà quello che era sintetizzato in un lungo intervento di Clinton su Newsweek tre mesi fa. Guarda caso, il 42esimo presidente si troverà a girare l'America illustrando il suo piano proprio negli stessi mesi in cui il 44esimo starà facendo altrettanto per illustrare il suo agli elettori.

E non è finita; il sondaggio Gallup è stato formulato anche ponendo l'alternativa fra Obama e George W. Bush. Risultato: l'attuale presidente sarebbe "migliore" del suo predecessore solo per il 43% degli intervistati, "più o meno uguale" per il 22% e "peggiore" per il 34%. Se si pensa che quando W. uscì di scena il 34% era grossomodo il suo tasso di popolarità, anche questo è un bello smacco.

venerdì 23 settembre 2011

IL DUELLO - INTERVALLO


Andrea Salvadore, immolandosi eroicamente, ieri sera ha rinunciato alla prima puntata del nuovo serial di J.J Abrams per sciropparsi il terzo dibattito delle pre-primarie repubblicane - quello di Orlando - e conferma l'impressione di "un duello Perry-Romney con una serie di irrilevanti valletti", anche se a lui non gli piace o' presepe (donde una coda sulle leggende di interventi ulteriori a primarie già iniziate, leggetela pure ma non credeteci, not gonna happen).
Anche su Nomfup troviamo conferma di un gioco ormai definitamente assestato in termini di "duello", anzi di "derby", con Hunstman relegato al frustrante ruolo di "testimone involontario" e la Bachmann sostanzialmente sparita (gli altri non pervenuti).
Tra i commentatori d'oltreoceano, stessa conferma: è una corsa a due, come qui avete potuto leggere e rileggere fin dal principio di questa stagione di dibattiti post-estivi.

Per il resto, non c'è che da prendere atto dell'esaurimento di questa primissima fase: Perry è frontrunner in tutti i sondaggi nazionali ma ha anche smesso di crescere, si è assestato e presto, se non vuole cominciare a calare, dovrà decidersi a scrivere il secondo capitolo di questa storia apertasi con il suo "botto" estivo; Romney, dal canto suo, continua ad essere molto più bravo di lui nei dibattiti ma questo, giustamente, non gli sta bastando, perché anche lui è fermo al suo personaggio iniziale, quello del candidato abbastanza asettico da evitare cazzate e vincere per inerzia grazie alla crisi di rigetto nei confronti di Obama.
Per questo motivo, e non per inettitudine dei candidati, il dabattito si sta facendo noioso, ripetitivo - sempre gli stessi battibecchi sui soliti quattro argomenti.

Quelli di The Politico, che nei confronti di Perry si sono mostrati sin da principio tutt'altro che simpatizzanti, oggi propongono un pastone di commenti di addetti ai lavori del tipo comincia a deludere, non è all'altezza, è impreparato, ecc. Un giudizio più equilibrato è quello di Michael Barone: evidenzia il divide tra uno come Perry che sta affrontando la sua prima campagna fuori dai confini del Texas e per di più essendoci entrato in extremis, e uno come Romney che non fa altro da quattro anni e quindi dibattiti come questo se li spara "con il pilota automatico".
Ne riparleremo fra almeno una settimana sondaggi alla mano; il punto, secono me, è però un altro.
La mia modestissima opinione è che in un futuro non remoto uno dei due dovrà decidersi a sganciarsi dalla narrativa tutta rabbia-frustrazione-paura-protesta e lanciare una campagna autenticamente reaganiana, cioé positiva, intrisa di fiducia e ottimismo.
Il prossimo dibattito è l'11 ottobre in New Hampshire: il tempo non manca, e il luogo sarebbe perfetto.
"Morning in America", l'ho detto e lo ripeto.
Per spiegarmi meglio, suggerisco la visione dello spot che ieri mattina Perry ha lanciato sul web in vista del dibattito

e di quello che sempre ieri mattina è stato lanciato Romney

a confronto con quella del mitico spot che riassumeva l'essenza della campagna Reagan 1984:


Ho reso l'idea?

giovedì 22 settembre 2011

ANCORA IN FLORIDA

Alla fine è sempre sulla Florida che si va a parare. Non è un caso se il terzo dibattito delle pre-primarie repubblicane, in programma per stasera ad Orlando con la regìa di Fox News in collaborazione con Google, si terrà li, come il precedente di dieci giorni fa - unico caso di due dibattiti consecutivi in uno statto Stato.

Il Sunshine State, che ospiterà anche la convention estiva che incoronerà il vincitore, è infatti notoriamente lo swing-state numero uno, per popolazione e quindi per numero di grandi elettori che manda al collegio elettorale (da quasi un secolo a questa parte nessuno è diventato presidente senza vincere in quello Stato - se non ci ceredete chiedete agli avvocati di George W. Bush e a quelli di Al Gore), ma anche per composizione strategica dei gruppi che ne compongono l'elettorato.

Innanzitutto la comunità ebraica, che lì è molto numerosa - la concentrazione in quello Stato e in quello di New York è una delle ragioni per cui i sette milioni di ebrei americani, pur rappresentando solo il 2,5% della popolazione nazionale, sono uno dei gruppi chiave per aggiudicarsi la Casa Bianca.
In Florida l'elettorato ebraico ha tradizionalmente una inclinazione a votare per i democratici, essendo diretta derivazione di quella newyorkese e comunque non diverso dall'elettorato ebraico-americano in genere, che nel 2008 votò all’82% per Obama (nel 2004 aveva votato per Kerry al 77%); ma di questi tempi la "relazione complicata" tra la Casa Bianca e il governo israeliano lo fanno apparire agli occhi degli aspiranti sfidanti repubblicani come un terreno di caccia lussureggiante.

Poi ci sono i latinoamericani, che invece in Florida sono un gruppo piuttosto eccentrico perché composto in gran parte da cubani (esuli, si diceva un tempo; oggi più che altro figli o nipoti di) ed in secondo luogo da portoricani: due gruppi che, a differenza dei messicani che a livello nazionale rappresentano la stragrande maggioranza dei latinos, tendono a non essere troppo sensibili ai problemi dell'immigrazione, i primi perché più interessati alle questioni di "sicurezza nazionale" (non a caso la superstar cubanoamericana del momento, Marco Rubio, è un repubblicano che studia da esperto di politica estera in salsa neoconservatrice), i secondi perché tutti cittadini americani dalla nascita.

A quei due gruppi etnici se ne aggiunge uno, non meno strategico, anagrafico: gli anziani, perché la Florida, con il suo clima subtropicale, è da decenni la casa di riposo d'America - lo Stato in cui ritirarsi negli anni della pensione, a curarsi i reumi con le sabbiature e ad ammazzare il tempo con i molti svaghi balneari e non. L'elettorato senior è una delle componenti più impoirtanti dello zoccolo duro repubblicano, e la questione delle pensioni in tempi di ristrettezze economiche è a dir poco scottante, come si è già visto anche nei precedenti dibattiti di queste primarie repubblicane.

Poi il discorso andrebbe differenziato sul territorio, con il nordovest dello Stato molto più conservatore, omogeneo al confinate Alabama, il centro e la costa a nord di di Miami più liberal, perché popolati per lo più da pensionati provenienti da New York o dal Midwest, e l'estremo sud nuovamente conservatore per via dell'altissima concentrazione di cubanoamericani.

A tutte queste considerazioni legate all'elezione generale dell'anno prossimo, se ne aggiunge una che invece nasce dal quadro delle primarie così come lo vediamo in questi primi giorni di ottobre. I sondaggi attuali ci parlano di una corsa a due tra Rick Perry e Mitt Romney. L'anno prissimo i primi Stati a tenere le primarie saranno l'Iowa, la South Carolina, il Nevada e il New Hampshire. Se, come ora pare assai probabile, Perry si aggiudicherà i primi due e Romney vincerà a man bassanegli altri due, si arriverà in condizione di sostanziale parità al voto nel quinto, che è appunto la Florida (per la data si parla del 21 febbraio). In questo caso il Sunshine State si troverebbe a fare da ago della bilancia una volta di più. Oggi come oggi i sondaggi danno anche lì sfavorito Romney, che già alle primarie del 2008 proprio in Florida dovette dire addio ai sogni di gloria. Quest'anno la partita sarà più complessa perché la Florida è uno dei tanti stati in cui il partito ha optato per il passaggio dal voto winner-take-all al proporzionale. Ma su questo ci sarà occasione di tornare.

mercoledì 21 settembre 2011

HOOVER SECONDO EASTWOOD



In arrivo il prossimo film di Clint Eastwood, che come regista ultimamente non ne sbaglia una (e pensare che c’ha ottant’anni suonati). Questo in uscita – qui sopra il trailer, appena uscito – sarà probabilmente il film più “politico” che il vecchio Clint (il quale con l’occasione ha ribadito di essere un libertarian alla Ron Paul) abbia mai girato: una biografia di Hoover.
Inteso non come l’Herbert Hoover sfortunatissimo presidente USA in carica quando deflagrò la mitica Grande Depressione del 1929 (ed ovviamente travolto dalla stessa) cui ciclicamente capita di veder paragonare il suo attuale successore (cito, anzi linko a caso un pezzo uscito su Harper’s Magazine nel primo anno dell’Era Obama, uno coevo di Christian Rocca per Il Foglio, uno del New Republic dell’anno scorso a firma del direttore John Judis, ed un lungo post pubblicato quest’anno dallo storico Walter Russel Mead sul suo blog nel sito di The American Interest), bensì del John Edgar Hoover, non parente, potentissimo capo dell’FBI a vita, dalla fondazione del Bureau nel 1924 per ben mezzo secolo, fino alla morte nel 1972 (!).
La storia di Edgar Hoover è una grossa fetta della storia dell'America del Novecento, poiché da quella particolare postazione egli ha attraversato da protagonista tutta l’era di Roosevelt, poi tutta quella di Eisenhower e di Truman, quindi tutta quella di Kennedy, e infine buona parte di quella di Nixon, uscendo di scena subito prima dello scoppio dello scandalo Watergate - non senza aver combattuto contro la mafia di Chicago, il Ku Klux Klan, le Black Panthers, le spie comuniste della Guerra Fredda e praticamente ogni altra entità “sovversiva” che abbia fatto capolino nell’America del Novecento.
Protagonista del film (che inizialmente doveva intitolarsi Hoover ma poi, a scanso di equivoci, è stato opportunamente re intitolato J. Edgar) sarà Leonardo Di Caprio, che per l’occasione avrà dovuto passare da un lungo trucco per abbruttirsi.
Le prime indiscrezioni si sono inevitabilmente concentrate sul fatto che il film racconterà anche la lungamente celata omosessualità del “padre” dell’FBI.
Ne sentirete molto parlare, contateci.

venerdì 16 settembre 2011

L'ANTIDOTO

Quella qui sopra è la copertina del nuovo numero di TIME in edicola oggi. Contiene una lunga dissertazione sul personaggio, della sua storia e del suo futuro, nonché un'intervista esclusiva rilasciata tre giorni fa dal governatore del Texas al famigerato Mark Halperin e al direttore Rick Stengel, che ci ha fatto su anche il suo editoriale. Sul sito della rivista ci si può financo deliziare con un patinato retroscena su come gli hanno scattato la fotografia.
Ove mai ce ne fosse stato bisogno, è una conferma del fatto che, ad appena un mese dalla sua discesa in campo, Rick Perry è l'uomo del momento, il personaggio attorno al quale ruota il grande show della politica a stelle e strisce. Magli articoli di questo TIME, francamente, non sono memorabili; piuttosto, se davvero si vuole capirne di più (in un certo senso: se davvero si vuol capire perché oggi Perry è sulla copertina di TIME) conviene per una volta leggere un pezzo nostrano, quello del sempre ispirato Stefano Pistolini che il Foglio ha pubblicato mercoledì.
Alcuni estratti:
"Rick Perry “è” il candidato: Romney istantaneamente si riduce a sparring partner. Lo scontro fatale a cui l’America ora si prepara è quello tra due visioni del mondo opposte, con Obama e Perry degnamente agli antipodi. [...]
Candidato perforabile, attaccabile. Pieno di incongruenze, contraddizioni, inciampi: da mal di testa per le teste d’uovo che credono nella possibilità d’assemblare il tipo-alpha per la Casa Bianca. Ma anche colui che rende superflui simili esperimenti. [...]
E' così che nasce un candidato forte, ben prima dei suoi argomenti e dello screening della sua biografia. E' cos' che si conquista il mandato per il tentativo dei tentativi - prendere in mano il destino della nazione. Seguiranno gli esami, arriveranno i capi d'accusa, sarà necessario spalmare la credibilità su una piattaforma reale: ma è in quel momento, tutto emotivo, consumato nel giro di pochi giorni, come ogni colpo di fulmine che si rispetti, è lì che scocca la scintilla tra il cuore-pensiero di metà nazione e il suo improvviso beniamino. Il resto saranno aggiustamenti: ma c’è da scommettere che milioni di quei voti – se arriverà in fondo – Perry li ha già conquistati e difficilmente li perderà. Perché l’alternativa è Mitt Romney e quella di Romney è un’America che interessa a una minoranza del paese. [...]
Non è difficile ricordare cosa accadde nell’anno 2008 allo sfavorito Barack Obama, nero e di middle name Hussein, con tanti coni d’ombra nella sua storia. Vinse il mandato emotivamente, pronunciando slogan e promesse, incarnando una positività presidenziale, che nel suo caso rasentò la mistica. Gli argomenti, arrivati a rimorchio nei mesi successivi, non avrebbero modificato quel formidabile atto d’amore. Se solo, poi, non fossero trascorsi quattro anni di sostanziali insuccessi, giocati tutti in difesa, a resistere, a mettere pezze, a tentare sortire riformistiche, dotate di senno, ma non di tempismo. L’Obama ai minimi storici di popolarità verso cui rivolge i suoi eserciti il candidato repubblicano del 2012 è un candidato battibile. A patto di rappresentarne l’antidoto, di porsi come incarnazione del la ripartenza, l’alternativa secca, lo U-turn. Si cambia, a ritroso ma con forza, perché soltanto con forza l’America può tentare la risalita. [...]
L’altra America, quella “vino, formaggio e Jonathan Franzen”, ha smesso di dire che Perry è l’avversario augurabile, in quanto battibile. Il texano potrebbe diventare il loro incubo".

Neanche due settimane fa, scrivevo che l'elezione del 2012 somiglierà a quella del 1979, nel senso che si giocherà sulla delusione nei confronti di un presidente democratico eletto per voltare pagina rispetto ad un ciclo repubblicano impopolarissimo e non mostratosi in grado di far partire un nuovo ciclo, e sulla voglia di ritrovare un leader in grado di reagire e rimettere in moto le cose.
Forse non dovrò rimangiarmelo, quel pronostico.