venerdì 6 febbraio 2009

PER OBAMA LA NOMINA PIU' DIFFICILE E' DIETRO L'ANGOLO


La signora Ruth Bader Ginsburg è uno dei membri più smaccatamente “progressisti” della Corte Suprema degli Stati Uniti, nonché l’unica donna a farne attualmente parte.
Ieri, la notizia del suo improvviso ricovero in ospedale per un cancro al pancreas ha sollevato tra gli addetti ai lavori una ulteriore dose di speculazioni sulle possibili scelte del nuovo presidente qualora egli fosse chiamato nel breve periodo a nominare un nuovo giudice costituzionale.
In effetti, è sorprendente quanto questa questione sia rimasta marginale durante la campagna elettorale, posto che da sempre le nomine alla Corte Suprema (che oltretutto sono vitalizie, quindi solitamente destinate a durare molto più della presidenza dalla quale sortiscono) lasciano il segno ed infuenzano la storia della politca e della società ben più di quelle ai vertici dei ministeri.
Tanto più che un altro membro liberal della Corte, il giudice John Paul Stevens, è 88enne, e da anni ormai si vocifera periodicamente di sue imminenti dimissioni.

Bush durante i suoi otto anni alla Casa Bianca ha sostituito con due giudici “conservatori” non solo il presidente della Corte, il mitico William Rehnquist, scomparso nel settembre del 2005, il quale era a sua volta un conservatore di ferro, ma anche Sandra Day O’Connor, che era stata la prima donna a far parte della Corte e, seguendo un orientamento liberal-moderato, aveva fatto da ago della bilancia tra membri progressisti e conservatori della Corte in molte decisioni delicate, propendendo per soluzioni pro-choiche in tema di aborto.
Tra l’altro, entrambi i “conservatori” nominati da Bush (il texano John Roberts, nuovo presidente della Corte, e l’italoamericano Samuel Alito) sono cattolici, con il che i giudici che seguono questa confessione religiosa sono divenuti maggioranza assoluta nella Corte (cinque su nove), per la prima volta nella storia di un Paese la cui popolazione è composta da cattolici in misura inferiore al 25%.
Poco dopo le nuove nomine, il 18 aprile del 2007, pur senza mettere in discussione i principi fondamentali fissati dalla famosa sentenza “Roe contro Wade” che nel 1973 impose come diritto costituzionale la libertà incondizionata di abortire fino al sesto mese di gravidanza (ma smentendo un proprio pronunciamento di otto anni fa su una legge del Nebraska praticamente identica), la Corte Suprema ha “salvato” una legge federale sostenuta dall’amministrazione Bush che aveva vietato il partial-birth abortion, la tecnica che serviva ad abortire “in extremis” aggirando il divieto di interrompere la gravidanza dopo il sesto mese senza motivi di salute.
È pure vero che nella decisione sul partial-birth abortion del 2007, uno dei cinque giudici cattolici della Corte Suprema aveva votato contro; per cui i nuovi due membri nominati da Bush non avrebbero potuto, “da soli”, determinare l’esito della causa. Se l’ago della bilancia si è spostato dalla loro parte, lo si deve al fatto che a loro si è associato il giudice Anthony Kennedy: cattolico anche lui ma, da buon californiano, tutt’altro che un reazionario (nel 2003 era stato lui l’estensore della sentenza con la quale la Corte decretò l’incostituzionalità della legge del Texas che vietava i rapporti omosessuali; nel 2005 aveva scritto lui la sentenza che stabilì l’incostituzionalità della condanna a morte di assassini che all’epoca del delitto erano sedicenni o diciassettenni; nel 2006 il suo voto aveva contribuito a decretare l’illegittimità costituzionale dei tribunali militari speciali allestiti per processare i detenuti di Guantanamo).

Barack Obama in campagna elettorale ha ostentato la propria religiosità ben più dell’avversario repubblicano (per non parlare della contesa con Hillary Clinton, a confronto della quale pareva un “teo-dem”); eppure, intervenendo nel 2007 (poco prima dell’inizio delle primarie) ad un convegno della potente lobby pro-choice Planned Parenthood, aveva dichiarato che, se fosse stato eletto, il suo primo atto come Presidente sarebbe stato quello di firmare il “Freedom of Choice Act”, ossia il disegno di legge che avrebbe eliminato tutte le restrizioni federali alla libertà di abortire sino ad oggi “ammesse” dalla giurisprudenza della Corte Suprema - ivi incluse la possibilità di obiezione di coscienza rispetto alle pratiche abortive negli ospedali cattolici, e lo stesso divieto di partial-birth abortion.

Nella medesima occasione, Obama aveva criticato duramente la sentenza sul partial-birth abortion del 2007, e aveva denigrato con buona dose di sarcasmo la nomina del presidente John Roberts (il quale poi, di fatto, si sarebbe vendicato facendogli toppare il giuramento nella cerimonia di inaugurazione), promettendo che se eletto avrebbe nominato giudici molto più sensibili al "diritto della donna di scegliere" ecc. ecc..
Il 22 gennaio 2008, una settimana dopo l’inizio delle primarie, in occasione del 35esimo anniversario di “Roe contro Wade”, il candidato Obama ha ribadito quell’impegno solenne ed ha deprecato la sentenza della Corte Suprema del 2007 che, a suo dire, “ha minato un principio importante della Roe contro Wade: quello della difesa della salute della donna”.
Un anno dopo, la dichiarazione del neo-presidente Obama insediatosi alla Casa Bianca da poche ore è stata molto più cauta, e molto più scaltra: “nel 36esimo anniversario di Roe contro Wade, ricordiamo che questa decisione non solo protegge la salute della donna e la libertà riproduttiva, ma al contempo difende un principio più generale: quello per cui il governo non deve intromettersi nelle questioni più intime della nostra vita privata”. Un tentativo, potremmo dire, di dare alla sua posizione pro-choice una sfumatura ideologica meno indigesta all’elettorato repubblicano.
Nel pomeriggio dello stesso giorno, il 44esimo presidente ha firmato un ordine esecutivo (insieme a una dozzina di altri, tra i quali quello che ha decretato la chiusura, entro un anno, del carcere di Guantanamo), con il quale ha abrogato il divieto - introdotto da Reagan un quarto di secolo fa, poi revocato da Clinton, e quindi ripristinato da Bush - di finanziare con fondi federali le organizzazioni non governative che promuovono l’aborto all’estero. Ma nel farlo ha voluto precisare: “È ora di farla finita con la politicizzazione di questo tema. Nelle prossime settimane, la mia amministrazione aprirà un dibattito molto franco sulla pianificazione familiare, lavorando per trovare un terreno comune per meglio venire incontro alle esigenze delle donne e delle famiglia sia in patria che nel mondo”.
Nessun accenno, invece, al “Freedom of Choice Act”.

Ora, il sopraggiungere della necessità di nominare un nuovo giudice costituzionale potrebbe presto costringerlo ad abbandonare la faticosa linea di compromesso che, dal giorno della sua elezione, sembra aver sostituito i toni radicaleggianti che usò durante le primarie.
Staremo a vedere.

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