venerdì 20 febbraio 2009

CLINTON GOES TO CHINA 2.0

"Sono sorpreso. Questo paese ha fatto un autentico movimento verso l' apertura e la libertà. Spero che continui".
Così il presidente Bill Clinton durante il suo viaggio ufficiale a Pechino e a Shangai nel luglio del 1998.
Clinton era giunto in Cina tra mille polemiche: il regime continuava ad arrestare i dissidenti, i repubblicani criticavano la strada del "confronto costruttivo" perseguita dalla Casa Bianca. Tuttavia, il presidente si mostrò determinato a chiudere il capitolo Tienanmen in modo a dir poco pragmatico, e ad aprire quello della "partnership strategica".
Da anni Clinton coltivava quella politica di distensione con la Cina, incentrata sulle buone relazioni commerciali. Si trattava, a ben vedere di un appeasement “furbo”, che muoveva dalla fiducia nella supremazia USA.
Segno dei tempi, e metafora cinematografica dell’atteggiamento americano di quei giorni, è la produzione di quell’anno della Disney: “Mulan”, una storia (messa in cantiere nel 1994) ambientata nella Cina medievale, e ispirata ad un'antica fiaba cinese. L'intento del colosso cinematografico statunitense era palesemente quello di poter penetrare più a fondo nel mercato cinese. La scelta dell'argomento era il risultato di lunghe trattative per la scelta di un argomento ritenuto "consono" da parte del governo della Repubblica Popolare Cinese e sufficientemente attrattivo da parte della Walt Disney Company. Tutte le opere cinematografiche in Cina devono infatti essere approvate dal governo prima di arrivare al pubblico. Il film della Disney fu però “approvato” solo tardi e limitatamente, e si rivelò un'azione commerciale meno brillante di quella sperata.
Analogamente, per molti versi a quella politica di Clinton.
L’appeasement paraculo di Bill di dieci anni fa, che sottendeva una alleanza commerciale tra gli USA incontrastata superpotenza golbale e una Cina potenza “regionale”, senza “super”, ha ceduto il passo ad una logica di partnership pericolosamente “alla pari”.

Oggi, colei che nel 1998 seguiva Bill come First Lady, non a caso ha scelto l’Asia come meta del suo primo viaggio ufficiale da Segretario di Stato, torna a Pechino.
Il giorno prima di partire, ha tenuto un discorso alla Asia Society di New York, il primo suo discorso di una certa importanza da quando ha assunto la carica. Un discorso tutto giocato su parole come “ascolto”, “collaborazione”, e carinerie del genere: “c’è chi pensa che una Cina in ascesa sia, per definizione, un avversario. Al contrario, noi crediamo che gli Stati Uniti e la Cina possano trarre un beneficio e un successo reciproco”…
Una Hillary ben diversa da quella che, lo scorso aprile, chiedeva al presidente Bush di disertare l’inaugurazione dei giochi olimpici di Pechino menzionando non solo la repressione dei diritti umani in Tibet, ma anche i legami tra il regime cinese e quello sudanese.

Certo, di mezzo c’è stato lo scoppio della crisi economica.

La Cina è da qualche anno il primo sottoscrittore al mondo di Buono del tesoro Usa. Quest’anno il deficit pubblico USA triplicherà, e la permanenza del ruolo di “finanziatore” di Pechino è letteralmente vitale per Washington. Se i cinesi smettessero di comprare titoli americani, farebbero crollare i mercati americani. In quel caso, però, gli americani potrebbero reagire con una guerra doganale che, privando la Cina del suo principale sbocco di esportazione di beni e servizi, la condannerebbero ad una iperinflazione che a propria volta porterebbe dritto dritto al tracollo economico del gigante asiatico. Quindi, in definitiva, simul stabunt, simul cadunt. Qualche analista paragona questa simbiosi a uno di quei matrimoni in crisi che non si risolvono in una separazione solo perché i coniugi non se lo possono permettere dal punto di vista dei rispettivi, egoistici interessi (ciao Bill, ciao Hillary). Più suggestiva la celebre immagine che coniò qualche anno fa ex ministro del Tesoro clintoniano Larry Summers, il quale definì questa situazione come “equilibrio del terrore finanziario” , mutuando il celebre concetto di “equilibrio del terrore” che, grazie al reciproco puntamento dei missili nucleari intercontinentali, evitò a lungo che la Guerra Fredda degenerasse in “calda”.
Lo stesso concetto è stato ripreso, di fatto, da André Glucksmann nei giorni scorsi, in un corsivo in cui descriveva “lo speciale rapporto fra grande risparmiatore e grande scialacquatore cui lo storico Neil Freguson dà il nome di Chimerica come un “G2 Washington-Pechino”, che di fatto “domina il mondo” e cui ci si deve affidare per “trovare un’intesa sull’orlo del baratro”. Glucksmann, appassionato accusatore delle nefandezze di Vladimir Putin, tiene a distinguere tra il regime russo, mero paravento per una cricca di malfattori che si arricchiscono sulle spalle del popolo approfittando di rendite di posizioni energetiche e lestamente imboscano i proventi del loro malaffare in lontani paradisi fiscali, lasciando andare alla malora il loro paese, e quello cinese, con il quale secondo lui non è invece immorale fare affari perche esso è semmai assimilabile al Brasile e all’India, cioè alle nascenti potenze che “non mirano al caos”, ma a costruire nel lungo periodo economie solide e stabili.

Probabilmente Glucksmann ha ragione: la Cina “non mira al caos”. Ma ciò non significa che non punti all’egemonia globale; e che non si tratterebbe affatto di una egemonia portatrice di logiche e di principi democratici. Ne accennavamo, nel nostro piccolo, qui, a gennaio. I movimenti in quella direzione continuano, e la crisi non fa che incentivarli, anche se le notizie al riguardo sono sempre poche e scarne.
Non ci resta che continuare a monitorare, pazientemente e non senza una certa inquietudine.

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