giovedì 28 giugno 2012

OBAMACARE - IL VERDETTO



E così alla fine la fatidica sentenza è arrivata, e che botto ha fatto: "ObamaCare", la più importante delle riforme attuate dall'amministrazione Obama (anche a costo di lasciarne da parte altre di importanti sulle quali il presidente ha scelto di darle la priorità), è salva.
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha smentito clamorosamente tutti (ma proprio tutti) i pronostici (per tacere della "anticipazione" sbagliata della CNN, che resterà agli annali nella top ten delle gaffe giornalistiche), con un voto a maggioranza risicata 5 contro 4 nel quale - e questo è il dato veramente eclatante, che ha lasciato tutti i commentatori e gli "esperti" a dir poco in mutande - a fare da ago della bilancia per una volta non è stato il giudice Kennedy, eterna banderuola che invece stavolta ha votato con i tre conservatori Scalia, Alito e Thomas ed ha letto la propria opinione dissenziente, bensì il presidente della Corte John Roberts. Proprio lui: il conservatore nominato da Bush, che si è schierato con i quattro giudici dell'ala progressista.
Con questo insolito assetto, la Corte ha giudicato costituzionalmente legittima tutta la legge, inclusa la controversa obbligatorietà della assicurazione sanitaria per tutti i cittadini che è stata considerata legittima perché in fondo, secondo i giudici, basta considerarla come una sorta di tassa sul mancato acquisto della polizza: le tasse il parlamento federale ha tutto il potere di imporle, senza per questo travalicare i confini della autonomia dei singoli Stati membri.
Uno strano processo davvero quello conclusosi oggi, che  ha visto l'Amministrazione Obama difendere come un proprio caposaldo la riforma che Obama aveva fatto faticosamente approvare dopo aver detto in campagna elettorale che non l'avrebbe fatta... e mentre a tifare con tutte le forze per l'annullamento ci sono stati i repubblicani che, a loro volta, la detestano visceralmente ma contro Obama hanno pensato bene di candidare proprio il politico cui Obama si è ispirato per questa riforma. 
Facciamo un passo indietro. Nell'ottobre del 2006, TIME uscì con un'edizione incentrata su una sorta di consacrazione profetica: il titolo di copertina era “Why BarackObama could be THE NEXT PRESIDENT”, e il principale articolo su quella cover-story era un lungo reportage di Joe Klein, intitolato "The Fresh Face", tutto dedicato a quello che all'epoca era solo un giovane senatore dell'Illinois, che nel pezzo veniva intervistato in lungo e in largo. A un certo punto dell'intervista, Klein - pensa un po' gli scherzi del destino - pensò bene di chiedere ad Obama un parere sulla riforma del sistema sanitario locale che uno dei possibili candidati repubblicani alla Casa Bianca, Mitt Romney, aveva fatto approvare da  Governatore del Massachusetts. La riforma sanitaria di Romney ("RomneyCare", nel politichese USA) prevedeva (e prevede tutt'ora) che chi ha un reddito almeno triplo rispetto alla soglia di povertà sia tenuto per legge a dotarsi ()a proprie spese  di una polizza di assicurazione sanitaria a proprie spese, mentre chi ha un reddito al di sotto di quella soglia riceve dallo Stato un apposito sussidio. Questa obbligatorietà (mandate) della assicurazione veniva contestata come sopruso statalista da molti repubblicani, ma Romney, che governava dal centro uno Stato tradizionalmente liberal, la aveva voluta a tutti costi introdurre, d'accordo con il più illustre politico di là, il senatore democratico Ted Kennedy. Klein aveva pensato la domanda sul tema anche per questo: all'epoca Obama si era fatto notare soprattutto per uno stile notevolmente bipartisan, per una frequente ricerca di compromessi che trascendessero i tradizionali steccati ideologici tra democratici e repubblicani. Ma la domanda venne formulata andando a parare proprio sulla controversa questione della obbligatorietà, che secondo Klein era una buona idea. L'esito fu il seguente:
Obama non  mi ha seguito fino a lì. "Se esiste un modo per arrivarci volontariamente, ciò è più consono alla mentalità americana" mi ha detto. "Solo se proprio non riesci a risolvere il problema senza che la autorità statale si intrometta, allora ricorri ad un obbligo".
Nel 2008, in campagna elettorale per la conquista della Casa Bianca, il senatore dell'Illinois promise di imporre alle compagnie di assicurazione di accettare tutti gli aspiranti assicurati, e di creare una alternativa statale per fare concorrenza al ribasso e così far scendere il prezzo delle polizze (la famosa public option che il Congresso avrebbe infine bocciato); ma non smentì mai di non vedere di buon occhio un obbligo di assicurarsi. 
Ciò nondimeno, quando all'inizio del suo mandato presidenziale decise di prendere quel toro per le corna mandò i suoi consulenti a studiarsi proprio "RomneyCare" come prototipo per la riforma nazionale; e infatti anche "ObamaCare" (ufficialmente la legge di riforma del sistema sanitario nazionale si chiama "Affordable Care Act": ObamaCare all'inizio lo usavano solo i repubblicani ma con il tempo è divenuto di uso comune e quest'anno è stato "sdoganato" da David Axelrod, il guru elettorale di Obama, ed utilizzato nella campagna per la rielezione del presidentecontiene un mandate, l'obbligo per ciascun cittadino di assicurarsi (comunque presso compagnie di assicurazione private, non essendo mai stato introdotto un servizio sanitario nazionale statale per tutti: quello rimane riservato agli anziani e ai poveri). Ciò a proprie spese se si guadagna almeno il quadruplo del reddito assunto come soglia di povertà; altrimenti grazie a sussidi statali. Chi non si assicura si becca una multa (penalty) talmente salata da rendere più economico l'acquisto di una polizza. 

Proprio su questa questione della multa si è tanto dibattuto in questi due anni, e proprio su questo la Corte Suprema ha oggi chiuso la discussione: chiamiamola tassa e non multa, e facciamola finita. 
Il che implica un altro paradosso: nel 2009, era stato lo stesso presidente, intervistato in una popolare trasmissione televisiva, a smentire con molta fermezza la teoria della "tassa" ("anche l'assicurazione dell'auto è obbligatoria, eppure nessuno si sogna di chiamarla tassa... i miei avversari mi accusano di aumentare le tasse facendo approvare questa riforma, ma quelli mi accusano di aumentare le tasse qualunque cosa io faccia..."). Ancora adesso se andate sul blog ufficiale della Casa Bianca trovate un post del 16 dicembre 2009 intitolato "La verità sulla riforma sanitaria e le tasse", che spiegava come l'approvazione della riforma non avrebbe introdotto alcuna nuova tassa (se non quella su una piccolissima nicchia di superpolizze per miliardari, la casiddetta "Cadillac tax").

Con questa sentenza si è concluso quello che è stato un vero processo a tappe forzate: le udienze si erano tenute alla fine di marzo in appena tre giorni, a tempo di record, ed oggi è giunto il Giorno del Giudizio. Ufficialmente ha vinto Obama, ed hanno perso i ben ventisei dei cinquanta Stati dell’Unione che avevano "fatto causa" contro il governo federale avendo contestato la legittimità costituzionale della legge; il capofila fu la Florida, che figura come il titolare della causa decisa oggi (è formalmente protocollata come "Stato della Florida ed altri contro Ministero della Salute").

E Romney? Dal canto suo, lo sfidante repubblicano si è sempre rifiutato di rinnegare come un errore la riforma da lui fatta in Massachussetts; egli promette però di far abrogare, se eletto, quella nazionale voluta da Obama, benché di fatto pressoché identica alla sua- Per il più ovvio dei motivi: in questi due anni tutti i sondaggi hanno dato la maggioranza assoluta degli americani, quindi non solo i repubblicani ma anche gli indipendenti, ostile alla legge.
E così da oggi a quei cittadini americani che continuano a detestare questa riforma, a trovarla moralmente ingiusta ed economicamente insostenibile per le loro tasche in questi anni di recessione e di disoccupazione, non resta altra opzione, per tentare di sbarazzarsene, che votare - ironia della sorte - contro la rielezione di Obama e - ironia della sorte - a favore di quel candidato cui si deve la attuazione del caso-pilota di assicurazione obbligatoria, il quale però oggi più che mai potrà raccogliere consensi promettendo il repeal and replace” , la abrogazione della legge e la sua sostituzione con un'altra. Con quale, poi? Non è ben chiaro, per ora. A me però torna in mente la profezia che un redattore dell'Economist sparò giusto un anno fa sul suo blog:
La mia ipotesi è che [una presidenza Romney] renderebbe permanente la riforma sanitaria di Barack Obama, limitandosi a qualche modifica "foglia di fico" che consentirebbe a Romney di rivendicare di aver annullato l'odiata ObamaCare e di averla sostituita con una riforma alternativa repubblicana... che però in realtà sarebbe sostanzialmente uguale
Staremo a vedere. Intanto, il testo integrale della sentenza è online a questo link: buona lettura ai volonterosi ;)

UPDATE - Commento a caldo di Romney: "Se vogliamo sbarazzarci di questa legge, l'unico modo è rimpiazzare Obama". Ecchelollà.

martedì 26 giugno 2012

COMPIE 30 ANNI BLADE RUNNER, IL NOSTRO PEGGIOR SOGNO (O MIGLIOR INCUBO?)

“Guardavo l'inizio del film e non riuscivo a credere ai miei occhi. La scena è vista da un veicolo volante, che sta atterrando in cima a un palazzo della polizia alto quattrocento piani. Questo palazzo della polizia di quattrocento piani domina il paesaggio, e corrisponde esattamente a una mia idea del nostro futuro tra quarant'anni. Il film è ambientato fra quarant'anni. E il fatto che vi sia questa titanica sede della polizia a dominare l'intero paesaggio è precisamente come mi immagino il futuro fra quarant'anni. Milioni di piccole case e questo immenso palazzo della polizia”...

Era entusiasta come un ragazzino Philip K. Dick dopo aver visto l'anteprima di Blade Runner, il film tratto dal racconto“Do Androids Dream of Electric Sheep?” che egli aveva scritto tredici anni prima, nel 1968. Eppure quando aveva letto il copione aveva espresso tutto il suo dissenso: “non avrà nulla a che vedere con il mio racconto, verrà fuori una gigantesca schifosa collisione di androidi che esplodono, androidi che uccidono esseri umani, gconfusione generale e ammazzamenti…”. Invece quando nella primavera del 1981 gli mostrarono alcune sequenze di ciò che Ridley Scott stava producendo, se ne innamorò. Non avrebbe mai visto il film finito, in un cinema: morì di infarto nel marzo del 1982, appena cinquantaquattrenne. Il film uscì nelle sale poco dopo, nell'ultimo weekend di giugno: esattamente trent'anni fa. Lì per lì ebbe un successo discreto ma non enorme. Il pubblico gli preferì l' E.T. Di Spielberg, più in sintonia con il ritrovato ottimismo di quei nascenti anni Ottanta. Il film di Scott, così tetro ed inquietante, pareva più legato alle inquietudini ed al pessimismo degli anni Settanta che la gente non vedeva l'ora di lasciarsi alle spalle. Solo con il passare degli anni sarebbe divenuto sempre più una pellicola di culto.
Ray Bradbury, il recentemente scomparso geniale autore di Fahrenheit 451e di Cronache Marziane, sosteneva che la differenza tra il genere fantasy e la fantascienza è che quest'ultima è fatta di storie che potrebbero realmente accadere in un futuro non troppo remoto, mentre il fantasy non ha a che vedere con il futuro possibile. Ecco perché Guerre Stellari, nonostante i robot e i raggi laser, non è un vero film di fantascienza: e difatti dichiaratamente non è ambientato nel futuro, bensì in un mitico passato come le antiche saghe epiche e le fiabe della buonanotte («Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana.... »).
Blade Runner è invece proprio il nostro futuro: il futuro così come vogliamo che non sia. Perché questo è ciò che con rara maestria Philip Dick ha sempre narrato: la nostra paura, ciò che temiamo il nostro mondo divenga. Il futuro come incubo. La megalopoli disumanizzante, l'inquinamento, la decadenza, la tecnologia al servizio di qualcosa o qualcuno che non sei tu.
Hollywood avrebbe poi attinto molte volte dai suoi racconti terribili e meravigliosi: : con Atto di Forza (di cui sta per uscire un remake con Colin Farrel nel ruolo che fu di Arnold Schwarzenegger), con Screamers, conMinority Report e con molti altri. Ma quella fu la prima volta, e ne uscì un film perfetto. Non tanto per via della trama, per la verità: quella risultava poco chiara, e il fatto stesso che il protagonista, un poliziotto incaricato di “uccidere” i replicanti umanoidi che, ribellatisi, andavano ritirati come prodotti difettosi, alla fine si scoprisse essere lui stesso un replicante, si sarebbe compreso solo una volta uscito il “director's cut” nel 1992 e il “final cut” nel 2007. A decretarne il lento ma inesorabile successo sarebbe stato tutto il resto: gli effetti speciali mozzafiato (ancora senza l'ausilio del computer), la musica di Vangelis, le architetture avveniristiche (talvolta attinte dalla realtà, perché in un futuro credibile ci deve pur essere qualcosa di già visto da qualche parte), lo sguardo magnetico di Harrison Ford, il divo del momento reduce dal successo di Guerre Stellari e de I Predatori dell'Arca Perduta. E c'erano quei dialoghi rarefatti e quei monologhi surreali che suggerivano sensazioni di un altro mondo, di un'altra dimensione.
Una curiosità: il monologo più celebre, quello dell'androide morente interpretato dal glaciale Rutger Hauer (“io ne ho viste di cose che voi umani non potete nemmeno immaginare”), si deve in parte alla improvvisazione dell'attore. Nella sceneggiatura originale non era previsto perché il personaggio non veniva ucciso. Venne inserito in un secondo momento, ma era troppo lungo e l'attore provo a sintetizzarlo improvvisando. Solo l'ispirazione del momento gli mise in bocca la frase struggente e perfetta“tutti quei momenti andranno persi nel tempo, come lacrime nella pioggia”. 

martedì 19 giugno 2012

AARON SORKIN SU "NEWSROOM", SU TWITTER, SU OBAMA

Da non perdere assolutamente la lunga intervista che il mitico sceneggiatore Aaron Sorkin ha rilasciato a Mark Harris di Vulture in vista del debutto, domenica prossima, della sua nuova creatura: la serie "Newsroom", che segna il suo ritorno al piccolo schermo.

Sorkin è un fenomeno di raro talento. Debuttò appena ventottenne scrivendo (sui tovagliolini di un bar, narra la leggenda) l'opera teatrale "A Few Good Men", poi trasfusa nell'omonimo film di Bob Reiner del 1992 con Tom Cruise, Demi Moore e Jack Nicholson (in Italia "Codice d'Onore"), ambientato in una base di Guantanamo pre-Undici Settembre (ma con qualche profetica premonizione). Già allora si capiva che il suo talento era non tanto quello di congegnare chissà quali trame, ma quello di svilupparle in dialoghi (e monologhi) dal fascino ipnotico. Il trionfo sarebbe arrivato nel decennio successivo con la serie televisiva "The West Wing", eterno oggetto di culto per gli appassionati di politica americana di tutto il mondo, che negli anni di Bush raccontò, con molto realismo ma anche con qualche sapiente pennellata di romanticismo, la presidenza "alternativa" di un immaginario illuminato statista democratico, vista dal "dietro le quinte" dei consulenti, degli assistenti e degli speechwriter che lavorano nella ormai celebre "Ala Ovest" della Casa Bianca.
Sorkin, che di quella serie di successo planetario (non di rado si ritiene che i "suoi" dialoghi abbiano finito per fungere da modello per la politica reale, la cui retorica si è di fatto "sorkinizzata") scrisse solo le prime quattro "stagioni", dopo "The West Wing" si era principalmente dedicato al cinema (nel 2007 "La guerra di Charlie Wilson" di Mike Nichols, con Tom Hanks e Julia Roberts; nel 2010 "The Social Network" di David Fincher, il film sull'invenzione di Facebook che gli è valso un meritato premio Oscar), è ora tornato alla televisione con  questa nuova serie dedicata al mondo dell'informazione televisiva. Il protagonista è Will McAvoy, interpretato da Jeff ­Daniels: un volto noto delle news televisive che improvvisamente si ribella al comodo conformismo della finta equidistanza e si improvvisa opinionista d'assalto, di quelli che raccontano alla gente senza giri di parole "le verità scomode che nessuno vi vuole dire". Il tema della verità, spiega Sorkin, è quello centrale per tutta la serie:
Nessuno usa più la parola "mentire". Improvvisamente, tutto è “diversità di opinione”. Se se l'intero gruppo parlamentare repubblicano un giorno entrasse in aula e dicesse "la Terra è piatta", il giorno dopo il titolo del New York Times sarebbe “I Democratici e i Repubblicani non trovano un accordo sulla forma della Terra”.
Per la prima volta Sorkin firma una serie che non andrà in onda in un normale network trasmesso in chiaro, bensì sul priocipale canale della Tv via cavo, la HBO. La Tv via cavo, che si riceve su abbonamento a "pacchetti" di canali, è una realtà per certi versi analoga a quella che in Italia e la Tv satellitare, ma moltom meno di nicchia posto che in America il 95% delle case è cablata e oltre il 70% delle famiglie è abbonato. Sorkin spiega di aver accettato l'ingaggio di HBO per poter finalmente scrivere senza il condizionamento delle pause pubblcitarie (che in America sui canali dei network in chiaro sono molto più frequanti che in Italia: circa ogni otto minuti), e senza il condizionamento delle reazioni del pubblico, poiché la serie, costituita da un numero di più ridotto di puntate, va in onda solo dopo essere stata interamente girata, e non "in corso d'opera" come avviene sui grandi network che di conseguenza chiedono agli autori vari aggiustanmenti alla trama e ai personaggi a seconda del gradimento manifestato dai telespettatori.
Una peculiarità del protagonista, anche rispetto alle creazioni passate di Sorkin che ha sempre lavorato su idealisti liberal, è che stavolta si tratta di un repubblicano, anche se di tendenza non conservatrice (“Io sono un elettore repubblicano. Sembro di sinistra solo perché credo che gli uragani siano causati dall'alta pressione e non dal matrimonio gay")"Se Josiah Bartlet, il Presdiente di The West Wing, era il Democratico che i Democratici vorrebbero tanto vedere, penso che Will McAvoy sia il Repubblicano che i Democratici vorrebbero tanto vedere", spiega. 
Ecco il primo trailer che ad aprile ha lanciato l'arrivo di "Newsroom":
Ed ecco l'ultimo, che un mese fa ha preannunciato il debutto del 24 giugno:
Nell'intervista Sorkin conferma di essere al lavoro sul prossimo biopic che la Sony sta producendo sulla vita di Steve Jobs, e conferma anche di aver trovato l'idea per trasformare in una sceneggiatura - titolo provvisorio: "The Comeback" - la storia vera del senatore Democratico John Edwards, già candidato alla vicepresidenza degli Stati Uniti nel 2004 a fianco di John Kerry e poi "terzo incomodo" fra Barack Obama ed Hillary Clinton nelle primarie del 2008, poi caduto in disgrazia per scabrose vicende di infedeltà coniugale e per un processo per corruzione e distrazione di finanziamenti elettorali, recentemente conclusosi un uma mezza assoluzione (Sorkin ha acquistato tempo fa i diritti del libro "The Politician", ex assistente di Edwards che poi sarebbe divenuto il teste chiave dell'accusa, e spiega di aver pensato di ambientare la narrazione nel contesto dell'interrogatorio di Young nei sotterranei di un edificio federale).
Sorkin, che conferma anche il suo scarso amore per le nuove comunicazionisocial ("per promuovere la nuova serie mi avevano chiesto di iscrivermi a Twitter, come fanno molti sceneggiatori. Ma non mi va. Non credo di essere capace di scrivere nulla in 140 caratteri"), verso la fine dell'intervista risponde anche a una domanda su sue fantasie di prestarsi a fare da speechwriter aggiunto per Obama:
Qualche volta ho desiderato di poter dare un suggerimento retorico. Per esempio: hai bisogno che i più ricchi paghino più tasse. Perché non inquadrarlo come un sacrificio patriottico? Perchè non dire: per generazioni, sono stati soprattutto i figli e le figlie delle famiglie di classe operaia a combattere le nostre guerre, e molti di loro hanno pagato con l'estremo sacrificio... e ora abbiamo un'emergenza nazionale per far fronte alla crisi scoppiata nel 2008, e dobbiamo chiedere un sacrificio ad un altro gruppo di americani?
Ma subito ha un lucido (o retorico?) guizzo di umiltà: "Semplicemente penso di non essere abbastanza intelligente per capire perché non funzionerebbe".

sabato 16 giugno 2012

I QUARANT'ANNI DEL WATERGATE, TRA STORIA E LEGGENDA

Sono passati quarant'anni. Alle due e mezza del mattino del 17 giugno del 1972, grazie alla segnalazione di un guardiano, cinque uomini vennero arrestati dalla polizia al quinto piano dell'Hotel Watergate a Washington DC, colti sul fatto mentre armeggiavano clandestinamente negli uffici della sede del Partito Democratico. Vennero trovati in possesso di microsipe, radio in grado di intercettare le frequenze della polizia ed altre diavolerie elettroniche per intercettazioni e registrazioni, e delle pistole a gas lacrimogeno. Uno di loro aveva il portafogli zeppo di banconote con numeri di serie in perfetta sequenza. Che non fossero semplici ladri era più che evidente. Ben presto si seppe che uno di loro era un ex dipendente della CIA che all'epoca lavorava nel comitato per la rielezione di Nixon, e che l'operazione di spionaggio che i cinque stavano conducendo era stata ordinata dallo staff del presidente. Di lì a poco si apprese anche che la Casa Bianca aveva tentato di insabbiare il tutto, e a quel punto la posizione del presidente, bel frattempo rieletto a gran maggioranza, risultò talmente compromessa da costringerlo alle dimissioni per scampare all'empeachement, primo ed unico caso nella storia degli Stati Uniti.


Tutto ciò lo sappiamo da quasi quarant'anni; quello che invece sappiamo solo da sette è che a far trapelare il coinvolgimento del presidente e del suo entoruage fu il numero due dell'FBI. Per decenni l'America e il mondo hanno creduto che il merito dell'indagine fosse principalmente di due aitanti reporter del Washington Post, Bob Woodward e Carl Bernstein, che conducendo una paziente e sagace inchiesta avrebbero intuito, scovato e portato alla luce la verità. All'inizio pareva avessero fatto tutto da soli: nei numerosi articoli che i due cofirmarono tra il 1972 e il 1974 sul Washington Post non si accennava ad alcuna fonte particolare. Poi, ad inchiesta conclusa, i due – insigniti del premio Pulitzer – pubblicarono un libro dal titolo“Tutti gli uomini del presidente” (che in un paio d'anni – giusto il tempo di girarlo - sarebbe stato prontamente trasfuso nelceleberrimo film interpretato da Robert redford e Dustin Hoffman), nel quale per la prima volta rivelevano l'esistenza di un informatore “chiave”, proteggendolo con l'anonimato ed individuandolo con il nomignolo “Gola Profonda”. Il soprannome veniva dal titolo di un famoso film porno che era uscito al cinema proprio in quel giugno del 1972. Woodward e Bernstein avrebbero pubblicato assieme un altro libro nel 1976, sempre sulla fine di Nixon, poi non avrebbero più scritto nulla a quattro mani - ed avrebbero fedelmente mantenuto il segreto sull'identità della loro fonte.
Fino al 31 maggio del 2005, quando la rivista Vanity Fair pubblicò sul suo sito web un articolo scritto direttamente dal legale del diretto interessato, nel quale si poneva fine ad “una delle grandi ossessioni del giornalismo del ventesimo secolo” rivelando che il misterioso informatore altri non era se non William Felt, il vicecapo del FBI all'epoca del Watergate. Non sapremo mai se le motivazioni di Felt siano state nobili (impedire che Nixon costringesse l'FBI a collaborare nell'insabbiamento) o meno (vendicarsi del presidente che non lo aveva nominato a capo del Bureau dopo la morte del mitico J. Hedgar Hoover del quale egli era stato a lungo un fedelissimo braccio destro – da notare che Hoover era morto appena sei settimane prima del Watergate, quindi in quell'estate del 1972 la frustrazione di Felt doveva essere bruciante). Gravemente malato (due ictus e l'Alzheimer), Felt dopo 33 anni aveva deciso di gettare la maschera, per non portarsi il suo segreto nella tomba e forse anche per regalare con i diritti per le interviste un po' di benessere economico ai suoi eredi (è morto 95enne nel dicembre del 2008).

Per il mito del Watergate come archetipo dell'impresa eroica del giornalista d'inchiesta quella rivelazione fu un duro colpo: Woodward (che anche sulla storia di Felt ha poi scritto un libro - “The Secret Man: The Story of Watergate's Deep Throat”) e Bernstein non avevano fatto che seguire le dritte di Felt, che dell'inchiesta era stato dall'inizio alla fine il deus ex machina. Da soli i due giornalisti non avrebbero fatto molta strada: il loro ruolo era stato principalmente quello di “buca delle lettere” per le soffiate di Felt, che li avevano messi a parte di quella che era, in realtà, l'indagine dell'FBI.

Inoltre, a costringere Nixon a rendere conto del suo operato scorretto era stato anche un altro personaggio, sconosciuto ai più anche perché non direttamente coinvolto nelle rivelazioni giornalistiche di Woodward e Bernstein e nelle relative mitizzazioni cinematografiche, ma determinante nella vicenda più di tanti articoli di giornale. Il suo nome era Alexander Butterfield , un giovane funzionario della West Wing dell'epoca, che testimoniando davanti alla commissione d'in chiesta del Senato nel luglio del 1973- e rispondendo alle domande di Fred Thompson, giovane senatore repubblicano del Tennessee nonché futura star della serie tv “Law & Order” e anche futuro aspirante candidato alla presidenza degli Stati Uniti, con pochissima fortuna - rivelò che Nixon alcuni mesi prima del Watergate aveva attivato un sistema di registrazione audio permanente in tutte le stanze della Casa Bianca

Ne scaturì un braccio di ferro per costringere la Casa Bianca a mettere a disposizione degli inquirenti le registrazioni dei giorni del Watergate, richiesta contro la quale Nixon e i suoi opposero una strenua resistenza invocando il segreto di stato, finché la Corte Suprema non lo costrinse a capitolare. Due settimane dopo che gli fu ingiunto di consegnare le registrazioni si dimise dalla presidenza degli Stati Uniti. Guarda caso, su quei nastri magnetici, proprio nel punto che documentava la discussione del presidente con i suoi assistenti sull'operazione Watergate, gli inquirenti avrebbero trovato 18 minuti e mezzo di fruscìo per una “accidentale” cancellazione.
Al netto di tutte le mitizzazioni eccessive e parziali, resta il fatto che quegli articoli del Washington Post fecero del bene, contribuirono alla resa dei conti persone che avevano passato il segno nell'esercitare il potere violando le regole, trasferendo a sproposito nella politica interna americana il metodo delle “operazioni coperte” che in quegli anni era divenuto usuale negli affari esteri per combattere la Guerra Fredda. Il ruolo della stampa come anticorpo, come parte integrante del sistema utile a curare da sé le proprie tossine, resta confermato. Woodward (che sta terminando il suo secondo libro sull'amministrazione Obama) e Bernstein per 36 anni non avevano più firmato niente a quattro mani; una settimana fa sono eccezionalmente “tornati assieme” per la ricorrenza, come in una di quelle reunion di vecchi gruppi rock, cofirmando sul loro vecchio Washington Post un lungo articolo con il quale hanno rievocato e rivendicato la loro impresa.
C'è un passaggio in questo loro scritto d'occasione, in cui si ripesca uno di quei dialoghi autointercettati di Nixon alla Casa Bianca. E' un nastro del 1971, il Presidentre parla con il capo di Stato Maggiore, l'ammiraglio Thomas Moorer. E gli spiega: “La stampa è il nemico. Il nemico, capisci? Ora, non devi darlo a vedere. Offri loro da bere, trattali bene, come se li adorassi, come uno che cerca di essere disponibile. Ma non dare aiuto a quei bastardi. Mai. Perché quello che stanno cercando di fare è di ficcarci un coltello dritto nell'inguine”. In un certo senso, aveva ragione.

giovedì 14 giugno 2012

FLAG DAY

Oggi la cara vecchia bandiera a stelle e strisce compie 235 anni.
Portati bene, direi.
Per saperne di più, basta leggere questo bel libro.

SHELDON ADELSON E IL FINANZIAMENTO FINE-DI-MONDO A ROMNEY

E così Mitt Romney ce l'ha fatta: al suo ricco paniere di grandi finanziatori ha finalmente acquisito il boccone più prelibato, il supermiliardario Sheldon Adelson, 79 enne magnate dei casinò che durante le primarie, con donazioni da capogiro per circa ventuno milioni di dollari, aveva tenuto in vita artificialmente la candidatura di Newt Gingrich, naufragata la quale si era rimesso su piazza pur non nascondendo il suo scarso entusiasmo per gli altri aspiranti candidati rimasti in lizza, Romney compreso.

Ieri mattina i media hanno diffuso l'indiscrezione di una mega-donazione di ben dieci milioni di dollari da Andelson per la campagna presidenziale di Romney: si tratta di una cifra impressionate, che rappresenta la singola donazione più grande sin qui ricevuta dal candidato repubblicano, e che da sola equivale a quasi un sesto di quanto sin qui registrato nei pur rosei bilanci di "Restore Our Future", il "SuperPAC" che raccoglie i grandi finanziamenti per la campagna elttorale di Romney. Dieci milioni sono il doppio di quanto il magnate della finanza filo-democratico George Soros donò nel 2008 per finanziare Barack Obama, e quasi la metà del suo storico mega-finanziamento per la candidatura di John Kerry nel 2004, nel vano tentativo di impedire la rielezione di Bush. 
Se si scorre la pur nutrita lista dei miliardari che sponsorizzano la campagna Romney for President, si può facilmente notare come questa donazione di Adelson faccia impallidire tutti gli altri contributi sin qui elargiti da quel genere di finanziatori, nessuno dei quali sino ad ora si era spinto a donare più di uno o due milioni. Del resto anche sul fronte avversario nessuno dei grandi sponsor di Obama si è sino ad ora sbilanciato oltre la soglia dei due milioni, che rappresenta ad oggi la vetta raggiunta dai superfinanziatori del presidente come lo stesso Soros e come Jeffrey Katzenberg, il presidente della DreamWorks da lui fondata con Steven Spielberg.
E' da tempo risaputo che Adleson, nato povero (figlio di un tramviere ebreo immigrato dalla Lituania) e divenuto uomo dalla ricchezza leggendaria - pare possegga la più grande flotta area privata del mondo, quattordici veivoli incluso un Boeing 747 - forte delle immense fortune della sua Las Vegas Sands Corporation (l'impero mondiale dei casinò che, tanto per dirne una, include il celeberrimo surreale hotel-casinò Venetian a Las Vegas il quale con le sue ottomila camere si fregia di essere "l'albergo più grande del mondo", e prossimamente, alla faccia della crisi, potrebbe avviare la costruzione nientemeno che di una "Las Vegas Eropea" in Spagna...), può permettersi questo ed altro - molto altro. 
Il fatto nuovo, che potrebbe scuotere dalle fondamenta la campagna elettorale, è che non solo Adelson può, ma anche, a quanto pare, vuole. A rilanciare la notizia su di un livello superiore è infatti sopraggiunta ieri sera un'indiscrezione pubblicata sul sito della rivista Forbes (che nel 2008 definì Adelson il terzo uomo più ricco degli Stati Uniti, e tutt'ora lo annovera tra i primi dieci con un patrimonio personale di oltre venti miliardi): questi dieci milioni sarebbero solo "la punta dell'iceberg", il primo acconto di un finanziamento a valanga ben più cospicuo, "potenzialmente illimitato". ", il primo acconto di un finanziamento a valanga ben più cospicuo, "potenzialmente illimitato". 
Per tentare di dare una dimensione a questa iperbolica immagine di "illimitatezza", confidata a Forbes da un ben informato collaboratore di Adelson, il cronista ha ripescato l'intervista rilasciata proprio a lui a febbraio, nella quale, da finanziatore di Gingrich, Adelson aveva dichiarato di essere talmente agguerrito nel voler evitare altri quattro anni delle politiche "socialiste" di Obama da essere disposto a mettere sul tavolo cento milioni (ne avevate letto anche qui).
Lasciando trapelare l'indiscrezione che questi dieci milioni potrebberon essere solo l'inizio, Adelson potrebbe aver voluto esercitare una qualche pressione sul team Romney per influenzare maggiormente la campagna in merito a questioni che notoriamente gli stanno a cuore, come ad esempio la linea filoisraeleiana in politica estera. C'è però da chiedersi se Romney avrebbe davvero convenienza ad accettare una donazione tanto spropositata, che inevitabilmente farebbe scaturire l'accusa di aver "venduto" la propria candidatura ad un singolo finanziatore, fatto senza precedenti nella storia americana. In ogni caso, notano i commentatori diThe Politico, questa sua "puntata" alla roulette delle presidenziali è solo una prima apertura del gioco.

martedì 12 giugno 2012

"TEAR DOWN THIS WALL", IL DISCORSO DI REAGAN A BERLINO COMPIE 25 ANNI

"Il testo del discorso alla Porta di Brandeburgo è ora migliore del precedente, ma lo staff resta all'unanimità dell'idea che anche così si tratta di un discorso mediocre, e di un'occasione sprecata". Così si legge nelmemorandum che il 2 giugno del 1987 gli analisti del Consiglio per la Sicurezza nazionale inviarono a Colin Powell, all'epoca viceconsigliere alla Sicurezza Nazionale, per prendere definitivamente le distanze dal testo del discorso che il Presidente Reagan si accingeva a pronunciare a Berlino, di fronte al famigerato Muro nel tratto che correva davanti alla Porta di Brandeburgo.

Paradossalmente, la viva insoddisfazione che gli "esperti" ribadivano era dovuta proprio a quel passaggio che avrebbe fatto di quel discorso un momento storico, forse il più emblematico di tutta la presidenza Reagan. l'invito/sfida a Mikail Gorbachov a "buttare giù" il Muro di Berlino per dimostrare la sincerità delle proprie prese di distanza dal tradizionale totalitarismo sovietico. Il National Security Council aveva vanamente tentato di depennare integralmente tutta quella parte del discorso, come si vede nell'originale della bozza.
E invece quel passaggio "incriminato" rimase, per volontà dello stesso Reagan che decise di fregarsene delle remore dei cervelloni della realpolitik e seguì il suo istinto di leader, di statista... e di attore. Quale delle due visioni fosse realmente "mediocre", la Storia non avrebbe tardato a mostrarlo. Ecco la bozza del testo definitivo, leggermente scarabocchiata da Reagan stesso per prendere nota delle pause nel pronunciarlo:

Ed ecco il filmato di quel fatidico momento del comizio:

Quel mitico discorso compie proprio oggi esattamente un quarto di secolo: venne pronunciato da Reagan il 12 giugno del 1987, nell'ultima tappa del suo ultimo viaggio in Europa da presidente, dopo aver vinto le ostinate resistenze di tutto l'establishment che lo circondava (non solo al NSC, ma anche al Dipartimento di Stato). Gli "esperti" ritenevano che quella frase di sfida potesse generare se non un incidente diplomatico quanto meno un raffreddamento nei negoziati con l'Unione Sovietica, all'epoca in corso per concordare la fine della corsa agli armamenti nucleari. Più in generale, ritenevano che in quel momento fosse opportuno praticare una linea realista di distensione, e quello era invece un discorso aggressivo tipico del Reagan "cowboy". 
L'autore del discorso era Peter Robinson, un neolaureato che aveva fatto pratica come giornalista alla prestigiosa rivista conservatrice National Review, ed era stato da poco assunto alla Casa Bianca. Seguendo la propria formazione giornalistica, Robinson ad aprile aveva lavorato sul campo, al seguito della missione dei Servizi Segreti addetta a preparare il viaggio del presidente. Aveva parlato con la gente, aveva colto lo spirito che aleggava tra i berlinesi. Quando aveva incontrato John Kornblum, il più alto diplomatico americano a Berlino, si era visto consigliare di tenersi ben alla larga dall’argomento del Muro; ma avrebbe deciso di disobbedire, ed altrettanto avrebbe fatto il presidente.
Quattro giorni fa Robins ha rievocato quella vicenda sulle colonne del Wall Street Journal, rivendicando l'impatto che quel discorso ebbe per i dissidenti che a Est della Cortina di Ferro sentirono di non essere soli. Quest'oggi sulla testata antagonista New York Times il suo collega Ted Widmer, anche luispeechwriter per la Casa Bianca ma per l'amministrazione democratica di Bill Clinton, rievocando il 25ennale di quell'evento gle ne dà atto, osservando che il Muro cadde non solo ma anche grazie al "presidente che ebbe il buon senso di ignorare i consigli dei suoi consulenti". Chi voglia conoscere i dettagli della storia travagliata di quel discorso di Robins e di Reagan, la può leggere in forma godibilissima nel libro “The Rebellion of Ronald Reagan – a History of the End of the Cold War”, purtroppo mai tradotto in italiano, uscito tre anni fa in occasione del ventennale della caduta del Muro, scritto dal corrispondente del Los Angeles Times James Mann che cinque anni prima si era fatto notare con “The rise of the Vulcans”, una monografia sull’entourage di George W. Bush, e del quale esce proprio in questi giorni il nuovissimo "The Obamians", inchiesta sull'entourage del suo successore.
Quando Reagan lesse la bozza scritta da Robins, capì al volo che quella trovata era perfetta per scippare a Gorbaciov, che quell’anno aveva pubblicato il libro Perestroika per il quale veniva osannato dai media di mezzo mondo, la parte in commedia di “uomo del cambiamento”, e al contempo per mostrare che il Mondo Libero aveva ancora un leader ben intenzionato a vincere, del quale quindi poteva fidarsi anche se lo vedeva negoziare. Frank Carlucci, il National Security Adviser del presidente, anni dopo avrebbe ricordato quel momento storico ricordando di aver pensato: "Bella frase per un discorso. Ma non accadrà mai". Lo stesso Gorbaciov, destinatario diretto della frase cruciale, ha recentemente raccontato di non essersi scomposto: "sapevamo che come primo mestiere Reagan era stato un attore... non ci lasciammo impressionare". L'indomani, quel discorso non era una storia da prima pagina nè per il New York Times nè per il Washinton Post. Ma dall'altra parte del "Checkpoint Charlie", per i cittadini di Berlino Est che lo avevano potuto seguire tramite le emittenti radio e Tv dell'Ovest, quel discorso fu un raggio di sole e di speranza. E nel novembre del 1989, quando il Muro collassò sotto le loro picconate, le Tv di tutto il mondo lo avrebbero ripescato e rimandato in onda ad oltranza.

lunedì 11 giugno 2012

COME E PERCHE' LA CRISI EUROPEA PUO' COSTARE LA RIELEZIONE AD OBAMA

Niall Ferguson, illustre e popolare storico inglese che insegna ad Harvard, specializzato in studi sulla moderna civiltà occidentale, è da tempo convinto che gli Usa possano ancora rappresentare "il Mac, e non l'MSDos, del computer Europa", ma che per riuscirci debbano al più presto ritrovare la propria capacità di primeggiare: nei suoi interventi degli ultimi mesi ha spiegato che il rischio che la potenza americana corre non è quello di un lento quanto inesorabile declino (“non chiamatemi declinista!”), ma semmai quello di un repentino collasso, che si puo' e si deve evitare con un urgente "riavvio del sistema America".

Ora con un lungo pezzo sul nuovo numero di NewsweekFerguson affronta in un certo senso il percorso inverso, ossia spiega al lettore americano “Come l'Europa potrebbe costare ad Obama la rielezione”. L'incipit è molto chiaro:
A prima vista sembra un interrogativo folle. L'elezione di novembre non dovrebbe giocarsi negli “swing states” come la Fllorida e l'Ohio, piuttosto che in paesi stranieri come la Grecia e la Spagna? Certo. Ma vi è ora una possibilità estremamente concreta che una doppia recessione in Europa possa uccidere le speranze di una consistente ripresa negli Stati Uniti.
Il pezzo di Ferguson merita davvero, perché oltre a chiarire le recenti accorate prese di posizione di Obama rispetto alla crisi dell'Eurozona, da ultimo espresse nella conferenza stampa di venerdì scorso nella quale ha invitato pubblicamente i governi Europei ad adottare misure per favorire la ripresa perché “tutto quello che avviene nel mondo può avere ripercussioni negli Stati Uniti”, è utilissimo anche per il lettore europeo (che pure non ne è il destinatario principale) per capire meglio i termini della attuale crisi.
Per capire come funziona l'Unione Europea e come essa si trova alle prese della crisi immaginate, spiega Ferguson, che gli Stati Uniti non abbiano mai ratificato la costituzione federalista del 1787 e funzionino ancora come confederazione di Stati indipendenti in base agli originari Articoli del 1781. Se così fosse, anche gli Usa avrebbero un governo centrale debolissimo, privo ad esempio del potere di imporre tasse che resterebbe esclusiva prerogativa di ogni singolo Stato membro. Bene: ora immaginate che il Nevada abbia un debito che ecceda del 150% del suo PIL, che in California sia in atto un collasso del sistema bancario, e che in quei due Stati la disoccupazione sia al venti per cento, e quella giovanile al quaranta: disordini a a Las Vegas e sciopero generale a Los Angeles. Ecco: se in un simole contesto l'unica via d'uscita per il Nevada e la California fosse quella di andare col cappello in mano da Stati molto più in salute come la Virginia e il Texas, lo scenario sarebbe quello di negoziati per un piano di salvataggio fra i governatori di tutti i 50 Stati americani, con intervento di funzionari del Fondo Monetario Internazionale che arrivano in California per negoziare un programma di austerity.
Questo semplice ma brillante gioco intellettuale fa toccare con mano al lettore americano le ragioni della attuale situazione europea, ma può anche spiegare al lettore europeo come mai gli Usa non si trovino nella stessa situazione: perché il loro sistema federale ha fatto sì che il peso della crisi sia stato sopportato da tutti e spalmato sul complesso degli Stati membri praticamente senza questioni, mentre in Europa, dove le istituzioni centrali controllano circa l'1% del PIL e non esiste un debito pubblico “federale”, la mancanza di simili meccanismi rende questo tipo di “partecipazione” quesi impossibile. Ferguson, che come si è capito è un convinto federalista, rivendica il fatto di essere stato fra coloro che 13 anni fa avvertirono che avere una banca centrale e una moneta unica senza il resto di una unione federale si sarebbe rivelato insufficiente.
“In privato” racconta Ferguson, il quale è di ritorno da un viaggio di quattro settimane nella vecchia Europa durante il quale ha incontrato personalmente capi di governo e pezzi grossi della finanza, “politici di lungo corso e uomini d'affari europei ammettono che oggi l'Europa starebbe meglio se l'unione monetaria non si fosse mai fatta: senza l'Euro non ci sarebbe stato l'indebitamento allegro nei paesi più periferici, né la bolla immobiliare in Spagna; e le economie europee più deboli potrebbero uscire dalla recessione come avevano sempre fatto in passato, ossia svalutando le loro monete nazionali, anziché tentare di ridurre i salari, tagliare la spesa ed alzare le tasse”.

Il pezzo, come si diceva, è mirato prevalentemente al lettore americano e perciò passa poi a spiegare perché la questione è tanto importante anche per gli Usa: Ferguson richiama il precedente dell'estate del1931, quando andò in onda il “secondo tempo della Grande Depressione”, imperniata non più sul crash del sistema finanziario americano, ma da una crisi bancaria europea a partire dal fallimento della banca austriaca CreditAnstalt che innescò un devastante effetto domino, contribuendo in modo determinante al collasso delle democrazie europee e all'ascesa dei movimenti politici totalitari di estrama destra e di estrema sinistra: l'America in definitiva venne trascinata dall'Europa prima in una seconda fase di Grande Depressione, e poi nella Seconda Guerra Mondiale.
Dal punto di vista del lettore europeo, il passaggio sul quale vale la pena di riflettere maggiormente è probabilmente questo: “il problema è che oggi il costo di una rottura dell'unione monetaria sarebbe verosimilmente persino maggiore dei costi di una transizione verso un sistema federale di tipo americano”.
Ma al lettore americano Ferguson propone ovviamente una considerazione finale di taglio ben diverso, ossia la messa a fioco del perché Barack Obama deve essere terrorizzato da quello che sta accadendo in Grecia, in Spagna e a Bruxelles: la disintegrazione dell'Europa potrebbe, ironia della sorte, uccidere le speranze di rielezione del presidente americano di cui gli europeio si innamorarono quattro anni fa.
Nel frattempo Mark McKinnon, uno degli styrateghi repubblicani meno faziosi nei confronti del 44esimo presidente, sabato sera twittava: “fino a poche settimane fa il Partito Repubblicano faceva campagna elettorale perRomney solo perché gli era toccato lui come candidato; adesso invece hanno cominciato a fargli campagna perché ritengono che possa davvero vincere”.

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