In default gli USA non ci sono mai andati, se non nella rappresentazione fantapolitica di una profetica (?) puntata della mitica serie TV “The West Wing”.
Nel mondo reale la storica prima volta potrebbe arrivare martedì prossimo, se il braccio di ferro tra la Casa Bianca (e la maggioranza democratica alla Camera) e l’opposizione repubblicana (al Senato) non dovesse in queste ore disinnescarsi con con un qualche compromesso.
Certo, in caso di default la festa di compleanno del Presidente (mezzo secolo giovedì prossimo, auguri) sarebbe ancora meno allegra di quella dell’anno scorso; ma non sarebbe nemmeno la fine del mondo, posto che – come ha egregiamente spiegato il Prof. Bisin in un’analisi davvero cristallina uscita ieri su La Stampa – non si tratterebbe certo di una crisi determinata da fattori di mercato (come accade quando nessuno vuol più prestare soldi ad un soggetto ormai così indebitato da rendere troppo rischioso il fargli credito), bensì autoimposta volontariamente con una precisa scelta politica, cioé il rifiuto – da parte del Senato a maggioranza repubblicana – di autorizzare un innalzamento della soglia fissata dalla legge come tetto massimo di indebitamento consentito (una norma che esiste solo in America, e che nelle intenzioni serve proprio ad evitare di ridursi ad un vero default “di mercato”, in stile greco per intenderci).
Mal che vada ce la si caverà con qualche giorno o qualche ora di government shutdown, cioé di chiusura temporanea di tutti i servizi pubblici federali non essenziali, sino a nuovo compromesso e riapertura dei rubinetti. Questo sì è già successo, diverse volte, l'ultima nel 1995-96 quando al posto di Obama c'era Bill Clinton e al posto di Boehner quel Gingrich il cui fantasma in questi giorni si aggira sempre più evanescente nelle primarie repubblicane.
Mal che vada ce la si caverà con qualche giorno o qualche ora di government shutdown, cioé di chiusura temporanea di tutti i servizi pubblici federali non essenziali, sino a nuovo compromesso e riapertura dei rubinetti. Questo sì è già successo, diverse volte, l'ultima nel 1995-96 quando al posto di Obama c'era Bill Clinton e al posto di Boehner quel Gingrich il cui fantasma in questi giorni si aggira sempre più evanescente nelle primarie repubblicane.
E' dello stesso parere il Prof. Sandro Brusco, che oggi intervistato sempre su La Stampa (il quotidiano di Torino attinge a piene mani dal team di NoiseFromAmerika, e fa bene) spiega che in fondo non sarebbe nemmeno corretto parlare di default.
Trovo conferme anche nella analisi di Mario Seminerio su Il Fatto di oggi, dedicata alla (enorme) distanza tra la crisi del debito europea e quella americana.
Mario tiene ad enfatizzare la responsabilità di George W. Bush, e conti alla mano mi pare abbia le sue buone ragioni; mi convince meno (ma può essere un mio limite, essendo io un ingorante sesquipedale nelle scienze economiche) il vigore con cui scuote il capo di fronte alla posizione dei repubblicani di oggi "egemonizzati dai Tea parties", decisamente poco bushiana, fatta di "feroci tagli di spesa e nessun aumento di imposte" (da queste parti lo chiamiamo modello texano).
Il titolare di Phastidio la ritiene una posizione scellerata in un momento in cui "la pressione fiscale federale è ai minimi degli ultimi 60 anni (circa il 15 per cento del Pil), e gli stati si muovono in modo pro ciclico, licenziando personale pubblico per raggiungere il pareggio di bilancio". Come dire che è favorevole all'alternativa "meno tagli, più tasse", ad esempio lasciando scadere i mega tagli temporanei alle tasse introdotti da Bush, come suggeriva giusto ieri.
Certo, capisco (solo perché me lo ha spiegato Mario, intendiamoci) che tagliare drasticamente la spesa pubblica da un punto di vista "keynesiano" può significare togliere ossigeno ad un'economia con il fiato già troppo corto. Ma è pur vero che tra i tempi dell'amministrazione Bush e i giorni nostri c'è stata l'approvazione, da parte di un Congresso democratico ed obamiano (con zero voti repubblicani alla Camera ed appena 3 al senato) di una manovra obaimana anti-recessione da 787 miliardi di dollari, fatta per meno del 40% da tagli fiscali e per oltre il 60% da spese federali: la spesa pubblica più massiccia approvata dal Congresso dai tempi di Franklin Delano Roosevelt. Eppure la "ripresa" è quella che è, per cui mi pare lecito dubitare che le ricette "keynesiane" stiano dando buoni frutti.
Ma, lo ripeto, in economia sono un asino e quindi mi limiterò ad osservare umilmente gli eventi.
Ricordando però, a scanso di equivoci, che la dismissione dei tagli fiscali di Bush fu sì promessa da Obama in campagna elettorale, ma venne da lui prontamente accantonata non - attenzione - dopo il poderoso reflusso delle midterm 2010, sotto ricatto dei repubblicani "egemonizzati dai Tea parties", bensì pochi giorni dopo l'elezione, nel novembre del 2008, con il Congresso a super-maggioranza democratica e il vento in poppa (poi la questione venne callidamente messa in sordina, salvo poi rispolverata quando ormai il Congresso era caduto in mano ai Rep. e quindi la proroga poteva essere giustificata come estorta dai cattivi).