martedì 8 marzo 2011

LA LIBIA E' VI-CINA


Oggi su Libertiamo:

Non so se mi ha sorpreso di più la notizia che gli italiani in Libia, prima dell’evacuazione, erano appena 1.500, o piuttosto quella che i cinesi erano quasi 36mila. Direi che mi ha colpito l’insieme delle due. Le cronache di questi anni ci avevano abituati a pensare che la spregiudicata ed antica partenrship italo-libica avesse ormai assunto dimensioni elefantiache. Sono invece dimensioni microbiche, quanto meno in termini numerici, al cospetto di quella con la Cina; della quale però fino a qualche giorno fa non si era mai letta o sentita una parola. Abbiamo scoperto improvvisamente che quella cinese era la più grande comunità non-africana in questo Paese mediterraneo che credevamo di conoscere tanto bene. La Cina è entrata in Libia in silenzio e fuori dallo sguardo dei nostri media. Ma è entrata in massa, altroché. Nel 2000 i rapporti economici fra i due Paesi generavano un interscambio del volume di 10 miliardi di dollari; nel 2010 di 90 milioni, quasi decuplicato. Sabato scorso Marco Valerio Lo Prete ha radiografato questa sorprendente presenza sul sito web de Il Foglio, lanciando questo spunto: “la maggior parte dei cinesi evacuati, a differenza di quanto accaduto per tutti gli altri lavoratori stranieri, non è stata ancora rimpatriata, ma soltanto dislocata in paesi africani vicini, a partire dal Sudan. Forse ad attendere che Gheddafi “ridistribuisca” i pozzi di petrolio?”

L’interrogativo è ancor più penetrante se si considera che in questi anni quello che Reagan definì “cane rabbioso” (rabbioso, non “pazzo” come solitamente si sente tradurre: la sfumatura ha un peso perché un cane rabbioso va sempre abbattuto) aveva intessuto inediti rapporti di “amicizia” con diversi Paesi occidentali (il nostro in prima linea, come noto) e persino con la Russia, ma non certo con la Cina - paese che non visita dal 1982, e del quale non riceve visita di un capo di Stato da nove anni. Figuriamoci cosa potrà accadere ora che le “amicizie” di cui sopra sono irreparabilmente compromesse e tutto viene rimesso in discussione.
Non dimentichiamo che il petrolio libico, contrariamente al gas, viaggia lungo percorsi flessibili, che possono essere direzionati presso questo o quel compratore. Il compratore cinese, a quanto pare, ha già visto riaprire il rubinetto.

Il caso vuole che giusto in questi giorni ricorra il secondo anniversario della notificazione al sanguinario dittatore sudanese Omar Al Bashir del mandato di arresto emesso contro di lui dal Tribunale Penale Internazionale dell'Aja.
Quando ricevette quella notificazione, Bashir era intento ad inaugurare una mostruosa, gigantesca diga sul Nilo con annessa titanica centrale idroelettrica: opera progettata, realizzata e finanziata dai cinesi. Gli stessi cinesi che subito chiesero ufficialmente di sospendere il mandato di arresto, e che da anni ponevano il veto nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU contro le sanzioni per il genocidio in Darfur.
Per il resto del mondo la questione del Darfur aveva reso impraticabile qualsiasi partnership commerciale con il Sudan; la Cina ne aveva approfittato per porre in atto una sorta di crumiraggio antiumanitario, vendendo al regime anche le armi usate per massacrare i civili: ha del resto tutto l’interesse ad alimentare il più a lungo possibile l’inferno nel perdurare del quale ai concorrenti occidentali tocca rimanere alla larga da tutto quell'oro nero.
Due anni dopo Bashir è ancora al suo posto: è stato “democraticamente” rieletto un anno fa con tante sentite congratulazioni da parte del regime di Pechino.

Attualmente è la Cina a presiedere il Consiglio di Sicurezza dell'ONU, ed ha già fatto sapere che porrà il veto alla istituzione di una no fly zone sulla Libia.
Siamo di fronte ad un bivio: lavorare per un intervento militare quale quello che gli USA ed altri paesi NATO, sia pur riluttanti e balbettanti, si accingono a mettere in piedi; oppure, come suggerito dal nostro ministro degli Interni (e non solo, a quanto pare) darci una calmata e temporeggiare per via euro diplomatica, in attesa di eventi altrimenti favorevoli alla ripresa di forniture ed appalti.

“Liberissimi di stare alla finestra mentre le milizie gheddafiane aprono il fuoco perfino contro le ambulanze”, scrive giustamente il direttore del Tempo Mario Sechi, “ma poi bisogna avere il coraggio di guardarsi allo specchio la mattina, trovare le parole per spiegare che in Libano, Kosovo, Iraq e Afghanistan siamo l’avamposto dell’Occidente mentre della Libia – letteralmente creata dagli italiani – non ci importa un fico secco e se resta Gheddafi in fondo siamo pure contenti”.
Vero; ma anche a voler essere del tutto cinici ed iper-realisti, resta l’altro argomento, quello menzionato da Angelo Panebianco che osserva come “un vendicativo dittatore di nuovo in sella potrebbe decidere di spazzarci via a vantaggio di meno scrupolosi concorrenti. La Cina, soprattutto, un Paese che non ha problemi a trattare con i peggiori dittatori, sarebbe certo lieta di subentrare alle nostre e alle altre imprese occidentali”. Per l’appunto.

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