L'AUSTERO MODELLO TEXANO E' DIVENTATO LA BESTIA NERA DEI LIBERAL
Poche tasse e pochi sindacati. L'america alle prese con deficit e tagli è divisa tra Austin e San Francisco
"Il Texas è il luogo in cui la moderna teoria conservatrice di bilancio - la convinzione che non si debba mai in nessun caso aumentare le tasse, e che il pareggio di bilancio vada perseguito sempre e solo tagliando la spesa in eccesso - è stata attuata in modo più integrale. Se questa teoria non regge lì, vuol dire che non può reggere da nessuna parte". Quando a gennaio l'economista liberal Paul Krugman ha lanciato
questo proclama dalle colonne del New York Times, era chiaro che dava per scontato che i cowboy di Austin, assaliti dalla realtà, si sarebbero decisi ad alzare la pressione fiscale per tamponare il buco di oltre venti miliardi di dollari nel bilancio del prossimo biennio. I texani invece non mollano, e si accingono ad approvare drastici tagli senza nuove tasse. Krugman non l'ha presa bene: due settimane fa
ha denunciato che il Texas ha un tasso altissimo di abbandono scolastico e un numero molto elevato di bambini sprovvisti di assicurazione sanitaria: "Quello che mi colpisce non è la crudeltà - quella ormai me l'aspetto - ma la miopia": se per non tassare si è disposti a questo, dice Krugman, allora la sfida "win the future", su cui il presidente Obama insiste tanto, sarà persa.
Su questa sfida si gioca il futuro dell'America, quanto meno da qui al 2012. Il governatore del Texas Rick Perry, al potere ormai da dieci anni e ora nominato presidente dell'associazione dei governatori repubblicani, rappresenta la punta di lancia della rimonta conservatrice.
I dati sembrano dargli ragione: stando all'ultimo censimento la California - che a novembre si è confermata, assieme a New York, l'ultima grande roccaforte democratica - per la prima volta nella storia ha cessato di crescere demograficamente, e di questo passo da qui a dieci anni sarebbe sorpassata dal Texas, che cresce a un ritmo più che doppio rispetto alla media nazionale. A dicembre la Brookings Institution ha sfornato la
classifica delle "venti città che guidano la ripresa": sei si trovano in Texas. Nella classifica delle
"venti città più povere d'America" pubblicata da Forbes la California occupa otto posti.
Sembra incredibile, se si pensa che alla fine degli anni Settanta il reddito medio pro capite californiano era il più alto del pianeta. I posti di lavoro persi - oltre 90 mila solo nel 2009 - non stanno evaporando: stanno emigrando in Texas, dove è stata creata la metà dei posti di lavoro di tutti gli Stati Uniti. La rivista Chief Executive ha messo la California all'ultimo posto della classifica dei "posti migliori in cui fare affari", definendola "il Venezuela del nord America". Inutile dire che il primo in classifica era il Texas.
"La lotta a livello nazionale fra repubblicani e democratici -
ha scritto il direttore della National Review Rich Lowry - è per decidere se l'America adotterà una versione del modello texano o una del modello newyorkese o californiano". Quello texano significa innanzitutto poche tasse (nessuna imposta sul reddito personale, né sui redditi d'impresa) e poca spesa pubblica; quindi poco welfare e servizi statali modesti, ma questo, dati alla mano, non dissuade la gente dal "votare con i piedi" in massa per il modello texano.
Il problema del deficit assilla tutti gli stati americani, facendo emergere soprattutto i privilegi dei dipendenti statali. La questione è deflagrata quando in Wisconsin il neoeletto governatore repubblicano Scott Walker ha stroncato la contrattazione collettiva con i sindacati del pubblico impiego. Contro quella legge, che Obama ha definito "un assalto al sindacato", l'opposizione democratica sta dando battaglia e in molti, non solo a sinistra, ritengono che Walker sia "un morto che cammina". Lo scontro
si sta allargando nel Midwest - in Ohio soprattutto - e potrebbe avere rilevanza nazionale nella prospettiva delle prossime presidenziali. Anche per questo il Texas è emblematico: è uno dei pochi stati che non prevede la contrattazione collettiva. Lì i lavoratori iscritti a un sindacato sono il 6 per cento, il che fa da magnete per le imprese americane ed estere. In più la legislazione texana vieta la concessione di benefici previdenziali ai dipendenti pubblici senza garanzie di solvibilità dei fondi pensione nel lungo periodo e senza un contributo pari ad almeno il 6 per cento della busta paga.
Esattamente il contrario della California, dove le Union rappresentano la forza politica meglio organizzata dello stato e tengono in scacco il locale Partito democratico, impedendo drastici tagli in mancanza dei quali è impensabile che il Golden State riesca a controllare il suo debito pubblico: per far quadrare i conti delle pensioni dei dipendenti statali, secondo un recente studio dell'Università di Stanford, mancano all'appello 535 miliardi di dollari.
Infine c'è l'ecologismo, religione prettamente californiana che annovera tra gli adepti il governatore repubblicano uscente Arnold Schwarzenegger, il quale
promise di fare della California "la nuova Sparta e anche la nuova Atene", ma ha lasciato una situazione più simile a quella dell'Atene di oggi che a quella di Pericle. Le limitazioni all'edificabilità dei terreni hanno drogato i prezzi degli immobili, portandoli a costare anche 16 volte quelli del Texas. Ma il problema è stato l'apparato di sanzioni e sussidi volti a imporre "l'inizio della fine dell'era del petrolio", abbattendo le emissioni del 30 per cento entro il 2020 e dell'80 entro il 2050. Secondo il Wall Street Journal rischia di tradursi in uno "smantellamento dell'economia energetica esistente sostituita da un sistema medievale di mulini a vento e pannelli solari". Non è chiaro se i costi saranno davvero compensati dai "green job" promessi dalla lobby verde; certo la maggior parte di quelli a oggi creati è made in California, ma anche questo primato è conteso dal Texas che, nonostante il petrolio, è terra fertile per soluzioni ecologiche, purché convenienti. Un anno fa è divenuto il più grande produttore di energia elettrica del paese: lo deve sempre meno all'oro nero e sempre più
alle turbine eoliche. La più grande "wind farm" del mondo, inaugurata nel 2009, si trova a Roscoe, nel desertico Texas occidentale ("l'Arabia Saudita del vento", secondo la definizione di Thomas Friedman). Un primato (il sorpasso sulla California è del 2006) dovuto anche all'individualismo texano: scarso territorio demaniale, e quasi nessuna restrizione all'utilizzo del suolo privato, dove puoi mettere tutte le turbine che ti pare. Non è solo questione di laissez-faire: nel 1999 una legge voluta
dall'allora governatore George W. Bush obbligò le imprese elettriche a produrre, di li a dieci anni, duemila megawatt in più dalle rinnovabili, in cambio di sconti fiscali.