Il “Super Bowl” (la finalissima del campionato di football americano) non è solo un evento sportivo: è un rito collettivo, una vera festa nazionale. Con oltre 110 milioni di telespettatori, è lo spettacolo televisivo più visto d’America, ed uno degli eventi sportivi più visti al mondo (batte sia i Mondiali di calcio che il Gran Premio di Formula Uno di Montecarlo, e contende il primato alla finale di Champions League UEFA).Le grandi aziende sborsano quattro milioni di dollari (cioè quasi 3 milioni di euro) per comprare 30 secondi di spazio durante la partita, in cui mandare in onda spot televisivi fatti produrre appositamente per l’evento.
Perché proprio la finale del football - e non quella, ad esempio, del basket?
Che cos’ha di speciale questo sport, che in Europa è quasi inesistente?
Cosa lo ha portato a divenire in un certo senso una parte della “religione civile” americana?
VIOLENZA…
Il primo luogo comune da sfatare è quello che vede il football americano come uno sport basato quasi solo sulla forza bruta e sulla violenza, uno scontro fra due mandrie di bisonti in cui ha la meglio chi mena più duro. Senza dubbio però la violenza è, da sempre, una caratteristica saliente di questo sport. Non a caso i giocatori scendono in campo bardati con le ben note protezioni, e anche se stanno in undici come a calcio, la panchina ne ospita altri 42 e le sostituzioni sono illimitate. All’inizio del Novecento, non era raro che qualcuno ci lasciasse le penne. Nel 1905, dopo la morte di ben 18 giocatori, il Presidente Teddy Roosevelt (che era un tifoso ma non poteva giocare, perché portava gli occhiali), impose l’adozione di regole che attenuassero la violenza in campo. La principale fu il “forward pass”, cioè la possibilità di passare la palla anche in avanti anche se a certe condizioni (contrariamente a quanto accade nel rugby, dove si può passarla sempre e solo all’indietro): questo rese meno determinante l’ “abbattimento ad ogni costo” di chi sta portando la palla verso la meta. L’evoluzione delle regole per contenere la violenza del gioco non è mai cessata: negli ultimi anni, ad esempio, sono state inasprite le regole che vietano gli scontri casco contro casco e altri usi fallosi di quello che è una protezione per la propria testa ma se utilizzato come corpo contundente si trasforma in arma impropria.
Il problema però non è risolto, e da qualche anno si discute molto dell’alto tasso di gravi neuropatie tra i giocatori professionisti. “Non darei a mio figlio il permesso di diventare un giocatore professionista”, ha recentemente dichiarato il presidente Barack Obama intervistato dal direttore del New Yorker.
Il prossimo film di Ridely Scott (forse non a caso proprio il regista de “Il Gladiatore…”) sarà dedicato proprio a questo “lato oscuro” dello sport più amato d’America.
Se non altro va notato che la violenza è rigorosamente confinata nel campo di gioco, mentre sugli spalti dello stadio non ci si sogna nemmeno lontanamente di menare le mani come è tristemente consueto fare negli stadi del calcio europeo.
Non potendo contare sull’esperienza diretta, devono giocoforza basarsi molto su di un approccio “concettuale”: memorizzando (ma anche comprendendo a fondo) un “repertorio” di schemi di gioco astratti (codificati nel cosiddetto “playbook”), ed imparando a metterli in atto, e a cogliere quali stanno attuando gli avversari per regolarsi di conseguenza, nel furore della mischia. Questo richiede una “preparazione mentale” più simile a quella di uno scacchista che a quella, per intenderci, di un giocatore di boxe. Il fulcro di questo aspetto è il quarterback, vero e proprio “cervello della squadra”: è il giocatore che più di ogni altro deve di volta in volta decidere quale schema giocare.
Il problema però non è risolto, e da qualche anno si discute molto dell’alto tasso di gravi neuropatie tra i giocatori professionisti. “Non darei a mio figlio il permesso di diventare un giocatore professionista”, ha recentemente dichiarato il presidente Barack Obama intervistato dal direttore del New Yorker.
Il prossimo film di Ridely Scott (forse non a caso proprio il regista de “Il Gladiatore…”) sarà dedicato proprio a questo “lato oscuro” dello sport più amato d’America.
Se non altro va notato che la violenza è rigorosamente confinata nel campo di gioco, mentre sugli spalti dello stadio non ci si sogna nemmeno lontanamente di menare le mani come è tristemente consueto fare negli stadi del calcio europeo.
…MA ANCHE INTELLIGENZA
Quello che non tutti sanno è che il football americano è anche uno sport dove conta moltissimo il cervello. Il campionato della National Football League è brevissimo: comincia a settembre e si conclude a dicembre, poi a gennaio si giocano i playoff e nell’ultima domenica di gennaio o nella prima di febbraio tutto si conclude con il “Super Bowl”. Quindi, contrariamente a quanto accade in Europa nel calcio (e negli USA nel baseball e nel basket) i giocatori sperimentano poco il “contatto diretto” con gli avversari, che conoscono più per aver visionato dei filmati che per averci effettivamente giocato contro.Non potendo contare sull’esperienza diretta, devono giocoforza basarsi molto su di un approccio “concettuale”: memorizzando (ma anche comprendendo a fondo) un “repertorio” di schemi di gioco astratti (codificati nel cosiddetto “playbook”), ed imparando a metterli in atto, e a cogliere quali stanno attuando gli avversari per regolarsi di conseguenza, nel furore della mischia. Questo richiede una “preparazione mentale” più simile a quella di uno scacchista che a quella, per intenderci, di un giocatore di boxe. Il fulcro di questo aspetto è il quarterback, vero e proprio “cervello della squadra”: è il giocatore che più di ogni altro deve di volta in volta decidere quale schema giocare.
LO SPORT “DI TUTTI” GLI AMERICANI
Dati alla mano, il football è in assoluto lo sport più seguito dagli americani: batte sia il baseball che il basket. Probabilmente questo ha a che vedere anche con il fatto che, più di ogni altro sport, questo è parimenti amato e praticato dai “bianchi” tanto quanto dagli afroamericani. Attualmente i giocatori “non bianchi” sono la maggioranza assoluta di quelli che giocano nella NFL. Inoltre, mentre fino alla fine degli anni Novanta del secolo scorso il prestigioso ruolo di quarterback veniva tendenzialmente riservato ai bianchi, mentre i giocatori di colore sin dall’università venivano solitamente “incanalati” verso ruoli più muscolari e meno intellettivi, nell’ultimo decennio questa barriera è caduta: attualmente nove delle 32 squadre della NFL hanno un quarterback di colore, e si pronostica che nei prossimi due-tre anni saranno più o meno una quindicina. E’ afroamericano anche Russell Wilson, il quarterback di una delle due squadre che domenica disputeranno il Super Bowl di quest’anno, i Seattle Seahawks.“Ogni maledetta domenica”, come recita il titolo del celebre film di Oliver Stone, si disputa la partita della NFL; ma altrettanto sentita è quella che si disputa ogni sabato, cioè quella del campionato universitario (NCAA, National Collegiate Athletic Association). Esso è anche una sorta di “Serie B” del football americano, ma non solo. E’ molto di più.
Ogni anno ottantamila appassionati si avventurano in un costoso pellegrinaggio verso lo stadio: il Super Bowl si disputa sempre in campo neutro (quest’anno nello stadio delle due squadre newyorkesi, che peraltro si trova in New Jersey, mentre le due squadre vengono dall’altra parte del Paese: da Denver e da Seattle). Alcuni sborsano più di tremila dollari (circa 2.500 euro – il triplo del prezzo del biglietto più caro per la finalissima del basket o del baseball) più il costo del viaggio e quello dell’hotel. Il problema più complicato è accaparrarsi un buon posto nel parcheggio: tradizionalmente lo si risolve arrivando al mattino, ed accampandosi tra le auto per ore improvvisando festini a base di birra e barbecue (è nato persino un apposito verbo: “tailgating”).
Quanto all’allenatore, nel 2003 la NFL si è data una regola che impone alle squadre che ne vogliono ingaggiare uno di intervistare anche candidati afroamericani: la cosiddetta “Regola Rooney”, dal nome del proprietario dei Pittsburgh Steelers Dan Rooney che ne è stato il principale sponsor. Per questa ragione “politica” Obama (che invece nel basket e nel baseball tifa per squadre della “sua” Chicago, rispettivamente i Bulls e i White Sox), nel football tifa per gli Steelers. Ed è contraccambiato: Rooney è dal 2008 un suo generoso fundraiser (ed è stato da lui ricompensato con la nomina ad ambasciatore USA in Irlanda dal 2009 al 2012).
’IMPORTANZA DEL FOOTBALL UNIVERSITARIO
Trentadue squadre per un Paese di estensione quasi continentale sono veramente poche. Per di più, tutte le squadre che giocano nella NFL (tranne una: i Green Bay Packers) hanno sede in una grande città, mentre la maggioranza assoluta degli americani abita nella più vivibile “provincia”.
La squadra “locale”, quella “di casa”, quella che la gente sente come “più vicina”, è quindi molto spesso quella del campionato universitario. Lì le squadre sono più di un migliaio, ben distribuite sul territorio. Inoltre, posto che negli USA è normale spostare ripetutamente la propria vita da una parte all’altra del Paese, spesso la laurea gli ex-studenti continuano a tifare per la squadra della propria alma mater anche se non rimangono a vivere nel luogo dove hanno studiato.
IL SUPER BOWL COME “FESTA NAZIONALE”
Ma il pubblico dello stadio non è che un frammento del popolo del Super Bowl. Il “Super Bowl Sunday”, o più semplicemente “Super Sunday”, è ormai considerato una festa nazionale, quasi al pari del Quattro Luglio: tra l’altro, pare che sia seconda solo all’Independence Day quanto a mole di cibo consumata (batterebbe quindi il Natale!).
Che si sia tifosi o meno, la partita la si guarda comunque, in televisione. Fino agli anni Settanta la visione del football in TV era noiosissima, perché la partita procede a singhiozzo con pause frequenti e spesso non brevi; poi, proprio per questo, vennero elaborate delle tecniche di regia hollywoodiane, che oggi sono state in parte mutuate anche per altri sport, grazie alle quali hanno il tutto è divenuto talmente spettacolare da risultare divertente anche per chi non sia un fanatico dello sport in sé. Per le riprese del Super Bowl le telecamere in campo sono più di sessanta.
E’ uno show, insomma, che “tutti” guardano a casa di amici: la partita – che si gioca a partire dalle sei e mezza del pomeriggio, e dura circa tre ore – è anche un pretesto per organizzare un bel festino. C'è poi uno show nello show: quello dell'halftime, l'intervallo di metà partita (tra il secondo e il terzo tempo: formalmente sono quattro tempi da 15 minuti ciascuno, anche se intervallati da molte soste). Negli anni Ottanta, quando gli ascolti televisivi hanno cominciato a diventare vertiginosi, gli organizzatori hanno abbandonato gli intrattenimenti musicali più tradizionali (bande e fanfare) ed hanno cominciato ad organizzare spettacoli pop con artisti di grido. Da allora si sono avvicendati Sting e Bruce Springsteen, Michael Jackson e Paul McCartney, Prince i Rolling Stones.
Lo show più visto è stato quello di Madonna nel 2012. Quello che ha suscitato più scalpore, però, rimane quello di Janet Jackson che nel 2004, proprio nell’ultimo istante della sua esibizione con Justin Timberlake, si trovò per un istante (per un “malfunzionamento del costume”, si giustificò poi – ma nessuno la ha mai creduto) ad esibire un seno scoperto con tanto di capezzolo corazzato. Uno degli inventori di YouTube sostiene di aver avuto l’ideona proprio allora, ispirato dalla frustrazione per la difficoltà di trovare il video online. Di necessità virtù, insomma. Quest'anno il quarto d'ora di super-ribalta sarà del giovane Bruno Mars, ma con il rinforzo non trascurabile dei Red Hot Chili Peppers
Uscito su America24
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