C’è un proverbio cinese che recita: “è difficile diventare amici in un anno, ma è molto facile offendere un amico in un’ora”.
Potremmo usarlo per riassumere l’improvvisa escalation nei rapporti USA-Cina di questi giorni.
Prima il sostegno a Google nella disputa con il governo cinese sulla questione degli “hacker di regime”; poi le scintille sulla vendita di armi a Taiwan, che l’amministrazione Bush aveva effettuato nel 2008, quando il mandato presidenziale volgeva al termine, mentre quella attuale ha voluto esibire così precocemente; infine la reazione “a schiena dritta” alla diffida di Pechino sull’incontro con il Dalai Lama (incontro che la Casa Bianca ha in queste ore ufficialmente confermato di voler tenere fra un paio di settimane, anche se non è ancora precisata una data precisa).
L’ appeasement ostentato per tutto il primo anno della presidenza Obama sembra in questi giorni in procinto di essere soppiantato quantomeno da una parvenza di containment. Dopo un anno passato a servire docilmente in tavola succulente carote, che i cinesi si sono pappati ostentando prepotente ingratitudine (basti pensare alle manovre con le quali lo scorso dicembre la delegazione cinese – alla quale peraltro il premier Wen Jiabao non si è degnato di prender parte – è riuscita a far fallire miserevolmente il vertice di Copenhagen sul clima; o alla resistenza, guarda caso rinnovata in queste ore , che i cinesi stanno opponendo rispetto all’ipotesi di nuove sanzioni contro il nucleare iraniano), la Casa Bianca pare finalmente intenzionata ad agitare qualche bastone.
In parte, come suggerisce un blogger di Huffington Post, si tratta di gesti dimostrativi, per convincere gli elettori americani (con i quali urge un recupero, dopo la batosta delle elezioni suppletive in Massachusetts e in vista di quelle di mid-term che si terranno a fine anno) e gli alleati che “la Cina sarà anche proprietaria del nostro debito pubblico, ma non della nostra politica estera”.
Ma c’è anche della sostanza sul piano delle relazioni internazionali. Non solo perché, come osserva Peter Foster, corrispondente da Pechino del Telegraph, più la Cina diventa una superpotenza globale e meno l’Occidente (ove i governi debbono pur sempre rispondere di fronte all’opinione pubblica…) è disposto a giustificare e tollerare certe cose; ma anche perché le recenti pessime notizie sul debito pubblico USA rendono urgente ridefinire i rapporti di forza prima che l’indebitamento renda i cinesi troppo potenti. Non a caso, dopo aver deliberatamente gonfiato la polemica sul Dalai Lama, la Casa Bianca ha fatto trapelare la propria intenzione di tornare all’attacco sulla questione dello yuan, la valuta cinese che secondo Washington viene artificialmente sottovalutata per “dopare” le esportazioni cinesi a discapito delle importazioni dall’estero. In questo quadro, è interessante ricordare che pochi giorni fa, nel suo primo “Discorso sullo Stato dell’Unione” davanti al Congresso, Obama ha promesso che raddoppierà le esportazioni americane entro i prossimi cinque anni.
E così accade che l’Economist, che appena due mesi fa rimproverava al 44esimo presidente di apparire troppo “tranquillo” nel fronteggiare i suoi antagonisti sulla scacchiera mondiale, oggi si prodighi in raccomandazioni di cautela e sangue freddo, temendo che gli USA si lascino prendere la mano nell’optare per il containment.
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