venerdì 30 marzo 2012

IL SOLDATO RYAN IN SOCCORSO DI ROMNEY


Quando all'indomani delle elezioni di mezzo termine del 2010 venne messo a capo della Commissione Bilancio della Camera, il giovane e aitante deputato del Wisconsin Paul Ryan aveva già stabilito la sua missione: far approvare una manovra finanziaria che ponesse freno al debito pubblico senza aumentare le tasse, anzi al contrario diminuendole; e ciò grazie ad una serie di drastici tagli alla spesa, di tipo "thatcheriano", per così dire (o "texano", se preferite).
Quando un paio d'anni fa i repubblicani venivano accusati di essere "il partito del NO" nel senso che sapevano solo opporsi a qualunque iniziativa della Casa Bianca senza mai proporre alcuna vera alternativa, il giovane Ryan seppe emergere proponendone una: coraggiosa, magari impopolare, ma seria e precisa.
Che si condivida o meno il merito del suo piano finanziario (che lui aveva lanciato con lo slogan "Roadmap for America’s Future"), bisogna dargli atto quanto meno di una cosa: con la sua aria da secchione allegro e la sua faccia da bravo ragazzo del MidWest, ha combattuto la sua battaglia con rara maestria sul piano della comunicazione, superando la difficoltà di spiegare in termini semplici questioni tecnicamente complesse, anche grazie a trovate geniali di questo tipo:


Ieri il soldato Ryan ha vinto la sua battaglia: con 228 voti a favore -di cui nessuno dai Democratici - e 191 voti contrari - di cui 10 Repubblicani - la camera dei Deputati ha approvato per il 2013 una legge finanziaria costruita in base al suo progetto. Si tratta di un atto puramente politico, perché al Senato i Democratici hanno ancora la maggioranza e quindi alla fine la legge non passerà; ma intanto Ryan ha portato il partito sulle sue posizioni e ha dimostrato che dove i repubblicani sono in maggioranza la roadmap da lui sostenuta è percorribile.
E ora? Ora a quanto pare il soldato Ryan è intenzionato a fare il suo dovere dando una mano a quello che ormai si da per scontato sarà il candidato alle prossime presidenziali. Stando ad indiscrezioni circolate nelle ultime ore su alcuni siti web (ad esempio su BuzzFeed, o sul blog di un  beneinformato come Matt Lewis), lo staff di Ryan avrebbe contattato quello di Rick Santorum per anticipargli che quest'oggi il giovane Paul darà il suo endorsement a Mitt Romney.
Questo appoggio è destinato a fare il paio con quello che Romney ha ricevuto da Marco Rubio: tardivo e quindi dettato più dalla rassegnazione che dall'entusiasmo, ma pur sempre destinato a confermare che Mitt ha "concluso l'affare" non solo con il vecchio establishment, ma anche con gli "astri nascenti" che rappresentano il futuro del partito - e che molti pronosticano già in prima linea per il 2016.

giovedì 29 marzo 2012

LA "MAPPA DELLA RELIGIOSITA'" NEI 50 STATI USA

"One Nation, Under God": questa celeberrima frase che Abraham Lincoln pronunciò quasi un secolo e mezzo fa (e che tutt'ora qui da noi si esita a tradurre letteralmente, tanto è forte la sua carica semantica), riflette ancora oggi una realtà che però non è mai stata e continua a non essere per nulla omogenea sul territorio degli Stati Uniti.
Per "mappare" questa varietà, la Gallup da anni conduce una intervista periodica in ognuno dei 50 Stati dell'Unione verificando la percentuale di cittadini che si auto-definisce più o meno "religioso" (lasciando chiuso, per evidenti esigenze di semplicità, il vaso di Pandora delle dozzine di diverse religioni e confessioni). 
Ne risulta una sorta di classifica, della quale è stata appena pubblicata la versione aggiornata; il che è tanto più interessante ove si consideri che siamo in un anno elettorale - e la religiosità influisce parecchio anche sugli orientamenti politici.
Primo in classifica, cioè "più religioso" di tutti, è il Mississippi, che non a caso era in vetta anche nell'ultima classifica degli "Stati più conservatori" che la stessa Gallup aveva pubblicato meno di due mesi fa. Al secondo posto non uno Stato del Sud, bensì lo Utah (lo "Stato dei Mormoni"), seguito però a distanza ravvicinata dall'Alabama (quindi di nuovo "Profondo Sud"), e poi Luisiana, Arkansas e South Carolina. Il Texas, contrariamente ai luoghi comuni, non figura tra i primi dieci.
La palma di "Stati meno religiosi" se la contendono a pari merito il Vermont (che, guarda caso, era in prima posizione anche nella classifica degli Stati piùliberal) e il New Hampshire, seguiti dal Maine e dal Massachusetts di cui fu governatore Mitt Romney - quindi tutti Stati del New England, quindi del NordEst progressista, come ci aspetterebbe; ma la sorpresa è che a pari merito con il Massachusetts compare, tra i meno religiosi, l'Alaska di Sarah Palin. 
Il rapporto Gallup, con tanto di mappe interattive, è a questo link.

giovedì 22 marzo 2012

"I ♥ NY": LA STRANA STORIA DI UN LOGO IMMORTALE

Quanto tempo è passato da quel pomeriggio del 1976. Il grande designer Milton Glaser viaggiava lungo Park Avenue sul sedile posteriore di un taxi, e rimuginava su un piccolo progetto di promozione turistica commissionatogli dall'assessorato al turismo dello Stato di New York. Erano anni difficili da quelle parti, tanta disoccupazione, tanta criminalità. Serviva uno slogan positivo e ottimista. Americano, insomma. Ad un tratto Glaser ebbe un'illuminazione. Non avendo sottomano di meglio, agguantò una busta e sul retro scarabocchiò questo semplice appunto:
Lì per lì nessuno, nemmeno lui avrebbe potuto sospettare che da quel banale scarabocchio sarebbe nato un mito. Tanto meno Glaser avrebbe sospettato che quello sarebbe stato il più grande successo della sua carriera. All'epoca era già molto famoso, ed il suo momento d'oro l'aveva avuto negli anni Sessanta. Nel Sessantasei aveva firmato il più celebre poster di Bob Dylan, e nel Sessantotto aveva fondato il settimanale New York Magazine con Clay Felker per offrire un'alternativa meno convenzionale al New Yorker. Come direttore artistico di quella rivista aveva rivoluzionato il design editoriale dell'epoca. Ma quella cosa della campagna di promozione turistica non l'aveva presa troppo sul serio: anzi, aveva addirittura accettato di lavorarci "pro bono" (gratuitamente) dando per scontato che sarebbe stata una cosetta di pochi mesi.
E invece. Da quel primo schizzo nacque la versione primordiale del logo, disposta su di un'unica riga.  Poi la stessa semplicissima composizione venne disposta su due righe, così come tutto il mondo la conosce.

A distanza di trentasei anni, quel logo non è ancora passato di moda. Anzi: ciclicamente torna a diffondersi al di là dei negozietti di souvenir newyorkesi, e torna a far bella mostra di sè su t-shirt griffate, borse ed accessori di grido.
Il bozzetto originale è esposto al MOMA come una vera e propria opera d'arte, manco fosse un Picasso. Da un recente articolo del Telegraph:
Dall'insegna della metropolitana di Londra al logo della Apple, il design grafico del 20esimo secolo permea la cultura popolare. Ma pochi logo hanno l'ubiquità del "I love NY" di Glaser, che possiede l'elegante perfezione di una formula algebrica. Lanciato dappertutto nel mondo, può fondatamente rivendicare il primato di logo più diffuso del pianeta.
Ma ciò che più affascina è vederlo indossare da tante persone che nemmeno erano nate quando venne lanciato - e che magari non ci sono nemmeno mai state, a New York. C'è qualcosa di misterioso in questo inarrestabile successo, e lo stesso Glaser non ha mai saputo dare una spiegazione compiuta del fenomeno. 
Gaser, che aveva avuto il colpo di genio creativo ma non quello imprenditoriale, non ha mai visto un centesimo per quello che di fatto è stato il più grande successo della sua carriera. Oggi ottantatreenne, ci scherza su volentieri. Ad averci fatto milioni di dollari è invece il dipartimento del turismo dello Stato di New York - già, perché anche se i più lo ignorano il riferimento era allo Stato, non alla città. Non è chiaro quanto quella campagna pubblicitaria abbia fruttato in termini di affluenza turistica a Mount Vernon o alle cascate del Niagara; ma quel che conta è che lo sfruttamento del logo continua a far incassare laute royalties: circa trenta milioni di dollari all'anno. Praticamente il budget della promozione turistica del New York State ci campa, e infatti su Internet lo trovate ad un indirizzo insolito per un dipartimento statale: www.iloveny.com

giovedì 15 marzo 2012

USA 2012, IL PRESIDENTE SI ELEGGE A "SUBURBIA"

“L'attrazione fatale dei Repubblicani per l'America rurale”: Joel Kotkin mette in guardia contro questa tentazione in un suo pezzo uscito ieri su Forbes, forse uno dei più interessanti usciti in questi mesi. Kotkin è un importante urbanista-sociologo californiano, autore del saggio “The Next Hundred Million: America in 2050” ed opinionista su innumerevoli testate. In questo suo ultimo articolo egli osserva l'andamento delle primarie repubblicane e vi legge una eccessiva influenza degli elettori che abitano nelle campagne e nei paesini. Secondo Kotkin il Partito Repubblicano sta rischiando di “finire ostaggio” non tanto di una base conservatrice, come spesso si è detto e scritto in questi mesi, quanto piuttosto di una “base rurale”, che 
ha mantenuto in vita l'improbabile campagna per la candidatura di Santorum, dalla sua prima vittoria in Iowa ai trionfi in Stati prevalentemente composti da campagne e paesini come Kansas, Mississippi, North Dakota e Oklahoma. Le cittadine di provincia e le comunità rurali di Stati come il Michigan e l'Ohio hanno inoltre messo al riparo l'ex senatore della Pennsylvania dall'annientamento in competizioni elettorali che altrimenti avrebbe perso di brutto.
Il problema, osserva Kotkin, è che questa “America rurale”, che un secolo fa rappresentava il 72% del Paese, oggi è ridotta ad una esigua minoranza – il 16%, per la precisione. Un Partito che faccia eccessivo affidamento su questa base elettorale è quindi un partito che si rifugia in un ruolo minoritario.
La popolazione cui Kotkin ritiene che il G.O.P. Farebbe meglio a rivolgersi non è, però, quella delle grandi città: quella è oramai appannaggio dei Democratici, essendo prevalentemente composta da gente o troppo povera o troppo ricca per votare repubblicano. I repubblicani dovrebbero semmai tentare di conquistare il voto delle enormi aree residenziali extraurbane che non sono né rurali né cittadine, e nelle quali abita ormai la maggioranza assoluta degli americani: nel 1950 ci viveva il 25% della popolazione, oggi il 51%.
Il fenomeno del travaso della popolazione dalle città a quelle nuove aree residenziali che allora si chiamavano suburbs nacque nei primi anni Settanta, ma è esploso negli anni Novanta quando si passò ad edificare qualcosa di più dei tradizionali “quartieri-dormitorio” i cui abitanti lavoravano in città e quindi pendolavano avanti e indietro ogni giorno sulle intasate interstate: si cominciò a stabilire i luoghi di lavoro direttamente là, fuori dalla città, creando dei mega-complessi residenziali che non erano più adiacenti alla città, e non erano più dei satelliti della città, essendo ormai dotati di propri centri commerciali, luoghi di svago, scuole, servizi, eccetera. A quel punto la popolazione dei suburb ha preso a crescere dieci volte più in fretta di quella delle città, e luoghi in cui un tempo sorgevano paesi o cittadine di provincia sono stati fagocitati da sterminate distese di villette monofamigliari tutte uguali, schierate in modo un po' surreale lungo vialetti tutti uguali.
Oggi un americano su due vive in posti così, che noi qui conosciamo quasi solo per averli intravisti in qualche serie TV (ad esempio la immaginaria"Fairview" in cui è ambientato "Desperate Housewives").
Per definire queste realtà decentrate e senza centro, senza grattacieli e senza degrado, senza campi ma con tanti curati giardinetti, gli urbanisti si avventurano in definizioni complesse come “quartieri periferici esterni”, o “periferia residenziale extraurbana”; spesso per brevità usano ancora il termine tradizionale suburbiai più raffinati a volte quello più recenteexurbia per enfatizzare la desatellizzazione dalla città.
Nel 2004 david Brooks ci ha scritto un saggio, “On Paradise Drive” (uscito in Italia come “Happy Days – Questa è l'America”, Lindau 2006), che racconta come la maggioranza degli americani sia ormai composta da una massa di persone che

non soltanto non vive in città, ma non fa nemmeno il pendolare avanti e indietro verso e dalla città, non va al cinema in città, non mangia in città, o non ha alcun contatto significativo con la vita urbana. Non sono né di campagna, né di città, né residenti di una zona dormitorio. Stanno mappando un nuovo modo di vivere.
L'abitante tipico di suburbia/exurbia è il vero americano medio del Ventunesimo secolo: pragmatico, né povero né ricchissimo, tendenzialmente antistatalista più per abitudine che per ideologia: la realtà di exurbia, nella quale la proprietà privata e l'amministrazione condominiale lasciano ben poco spazio all'ente pubblico, sia esso il Comune o il Governo federale, sfugge di per sé alla pianificazione da parte dei politici e dei tecnocrati, all'incanalamento delle persone sui mezzi di trasporto pubblici e nella filiera dei servizi pubblici in genere. Egli è per lo più impiegato nel terziario, molto legato ad uno stile di vita altamente tecnologico e poco legato ad una appartenenza etnica.
Ecco spiegato, quindi, il grido d'allarme di Kotkin:
I suburbs, con la loro popolazone prevalentemente composta da bianchi, ceto medio ed elettorato indipendente, nelle elezioni del 2008 hanno dato la vittoria ad Obama, ed è lì che si deciderà anche la prossima elezione. La gente di campagna si adatterà ad un candidato repubblicano moderato standard come Romney, anche se un po' a malincuore, per motivi sia economici che sociali. La battaglia passerà ai suburb, comprese le aree urbane, comuni nelle grandi città del Sud e dell'Ovest, che sono composte prevalentementre da aree suburbane. La maggior parte del nucleo urbano, invece, voterà compatto per Obama. Ma il presidente, che è la persona di gusti e pregiudizi più nettamente urbani che abbia mai abitato alla Casa Bianca, potrebbe rivelarsi vulnerabile in suburbia, se i repubblicani saranno capaci di far arrivare un messaggio appetibile per gli abitanti di quei luoghi.
uscito su Good Morning America

mercoledì 14 marzo 2012

NELLA BATTAGLIA DEL SUD, IL VERO SCONFITTO E' NEWT

Come al solito una volta depositatosi il polverone notturno dei sondaggi, degli exit poll, dei risultati parziali e dei comizi di vittoria, il risveglio riporta alla la realtà dell'assegnazione dei delegati alla convention nazionale di Tampa, che è ciò che conta per vincere le primarie.
In questo senso la vittoria di Santorum in Alabama e Mississippi conti alla mano non sposta quasi nulla, anche se certamente ha un impatto politico-psicologico non irrilevante in quanto scalfisce una volta di più la già traballante immagine di frontrunner di Romney (anche perché in entrambi gli Stati gemelli del profondo Sud Mitt è arrivato al terzo posto, battuto persino da Gingrich anche se di pochissimo).
In entrambi gli Stati, infatti, i delegati si assegnano con metodo proporzionale, e la vittoria è stata di misura con Santorum tallonato sia da Romney che da Gingrich. I 40 delegati del Mississippi verranno quindi spartiti in tre quote pressoché identiche; in Alabama invece pesa di più la distribuzione dei voti sul territorio, perché lì Romney, diversamente che in Mississippi (ma analogamente a quanto accaduto una settimana fa in Ohio), ha vinto esclusivamente nelle grandi città, mentre tutta l'area rurale (decisamente dominante in quello Stato) è spartita fra i suoi due antagonisti.
Comunque alla fine il divario è modesto e a contobilanciarlo bastano i buoni risultati di Romney nelle due votazioni minori di stanotte, le isole Samoa e Hawaii.

Alla fine il bilancio nella conta dei delegati si riassume comunque con Romney che ha il doppio dei delegati di Santorum, mentre quest'ultimo ha quasi il doppio dei delegati di Gingrich (rispettivamente: 480, 234 e 139).
L'unica vera conseguenza del voto di ieri è quindi il mancato sorpasso di Gingrich su Santorum, il che a questo punto rende davvero assurda la permanenza in gara del vecchio Newt. La sua fantomatica “Southern Strategy” non ha funzionato, e per di più i sondaggi dell'ultim'ora lo avevano dato per favorito, rendendo ancora più cocente la sconfitta in base allo spietato “gioco delle aspettative”.
A meno che veramente non si ostini a restare in ballo solo per vendere qualche copia in più dei suoi libri – o per sottrarre voti a Santorum dirottandoli su un binario morto ad esclusivo vantaggio di Romney, come ipotizzavo qui ieri – Gingrich subirà ora pressioni enormi per indurlo a ritirarsi. Se mollerà, assisteremo probabilmente ad un braccio di ferro tra Mitt e Rick sino ad estate inoltrata.

Prossima tappa importante: le primarie dell'Illinois, fra una settimana. Sessantanove delegati in palio. Stay tuned!

uscito su Good Morning America

martedì 13 marzo 2012

NEL "CUORE DI DIXIE" OGGI IN SCENA UNA STRANA COPPIA


Con il voto di oggi la lunga marcia delle primarie repubblicane approda nel profondo Sud, quello talmente sudista da aver lungamente votato in blocco fino agli anni Sessanta sempre e solo per il Partito Democratico, in odio ai Repubblicani che con Lincoln lo avevano piegato nella guerra Civile ed avevano liberato gli schiavi. Solo a partire dai tempi di Lyndon Johnson e Barry Goldwater i repubblicani cominciarono a riconquistare quelle terre a farne un loro feudo - e gli afroamericani che ci vivevano a votare per i Democratici. La partita di oggi si gioca lì, nei due Stati adiacenti e gemelli Alabama e Mississippi, in quella che nell'ultimo mezzo secolo è diventata la roccaforte repubblicana più inespugnabile (c'è anche una deviazione "pacifica" sulle Hawaii, che però assegnano solo 20 delegati). Proprio per questo motivo di solito le primarie in Alabama e in Mississippi passano inosservate, tanto riguardano due Stati che nell'elezione generale si sa giàm come voteranno. ma quest'anno è diverso: il test di tenuta di Romney non è ancora concluso, e quindi i riflettori si accendono anche per il "Cuore di Dixie".
Mitt Romney sarebbe in teoria nel posto sbagliato: troppo moderato, troppo del Nord, troppo mormone, in queste zone sarebbe candidato ad una sonora batosta. Eppure gli ultimi sondaggi disegnano un quadro un po' diverso. Ancora una volta la divisione dell'ala più conservatrice finisce per giovargli, spingendo lentamente ma inesorabilmente verso la candidatura il frontrunner più debole degli ultimi decenni. Ieri un sondaggio della NBC e del Washington Post ha rilevato che un elettore repubblicano su quattro pronostica che le primarie le vincerà lui, ma a malapena uno su tre se lo augura. Se sta vincendo, lo deve principalmente alla spaccatura che permane nel fronte avversario.
Oggi il fattore più favorevole per Romney ha nome e cognome: Newt Gingrich. Un rivale che non può vincere, ma può far perdere il rivale più pericoloso, Santorum. La candidatura alla Casa Bianca è ormai un obiettivo del tutto al di fuori della sua portata. Nella conta dei delegati alla convention nazionale, se Santorum appare in difficoltà perché si ritrova esattamente con la metà di quelli racimolati da Romney (212 il primo, 424 il secondo), il vecchio Newt è palesemente senza speranza, non arrivando nemmeno alla metà dei delegati di Santorum (ad oggi ne ha 103). Se oggi Newt non ci fosse, Santorum vincerebbe a mani basse le primarie in Alabama e Mississippi, superando di slancio il 50% ed umiliando Romney che prenderebbe poco più della metà. Invece in questa corsa a tre i sondaggi pronosticano un testa a testa in cui ciascuno potrebbe portare a casa suppergiù un 30%, il che lascerebbe invariato il quadro uscito dal Supermartedì, e quindi Romney debole ma pur sempre in testa. 
La sintesi perfetta è quella di Michael Crowley di TIME
Restando in gara Gingrich non minaccia Romney: lo protegge. L'incubo di Romney è quello vedere Newt che molla, lasciando a Santorum il ruolo di ultimo anti-Mitt in campo. Forse Gingrich ritiene che Romney abbia migliori possibilità di battere il presidente Obama, e vuole aiutarlo. O forse ce l'ha con Santorum, che ha offeso la sua storia di parlamentare, più di quanto ce l'abbia con Romney. O forse Newt è solo prudente, capisce che per lui un domani sarà più facile ottenere favori da un Presidente Romney che da un Presidente Santorum.
Quel che è certo è che in questa fase Newt è, di fatto, il miglior amico di Mitt. Lo spoglio di domani notte ci dirà qualcosa di più.

venerdì 9 marzo 2012

AL SUPERMARTEDI' DEL GOP HA VINTO OBAMA

Sapete come ha fatto Mitt Romney a vincere la sfida cruciale del Super Tuesday in Ohio? Ha fatto una settimana di campagna elettorale “a tappeto” tutta concentrata sulle grandi aree urbane di Cleveland, Columbus, Daytona-Cinccinnati. La mappa disegnata dallo spoglio di martedì notte rivela una impressionante concentrazione dei suoi voti in quelle aree, quasi delle enclave. Tutto l'Ohio rurale e “di provincia” ha invece votato per Santorum, che ha potuto spendere appena un quarto di quanto ha speso il frontrunner per farsi propaganda nel Buckeye State.
Alla fine Romney si è salvato con una vittoria che somiglia più ad un pareggio più qualcosa.

Mentre si attendono gli esiti definitivi della assegnazione dei delegati, il bilancio provvisorio ci parla della solita vittoria “alla Romney”: striminzita, senza slancio, sufficiente a tirare avanti ma non a prendere quota.
Il voto di ieri ha evidenziato che Romney non ha solo il solito, ben noto problema “a Sud”: ne ha anche uno, non meno grave, con quella regione incastrata tra la east Coast ed il MidWest comunemente nota come “Appalachia”, prevalentemente abitata da quella “classe operaia bianca” senza un forte e massiccio sostegno della quale nessun candidato repubblicano può sognarsi di competere con la Obama Coalition. Romney questo sostegno non ce l'ha e lo si è ben visto da come ieri la gente ha votato nelle contee collinose lungo il fuome Ohio, nel Tennessee orientale e nella parte più settentrionale della Georgia. Persino in alcune contee della Virginia sudorientale piuttosto che arrendersi a Romney gli elettori repubblicani hanno votato l'unica alternativa, Ron Paul.

Per intuire quanto questi problemi possano prossimamente riproporsi basta osservare la mappa delle prossime primarie da qui a un mese: a parte una sfilza di votazioni secondarie i esotiche isole (Virgin Islands, Northern Marianas, Puerto Rico, American Samoa, Hawaii, Guam), l'unica sfida importante alla quale Mitt può guardare con ottimismo è l'Illinois. Per il resto si tratta di Alabama e Mississippi, Missouri, Louisiana...

Intendiamoci: ormai non è più a repentaglio la sua candidatura. Permanendo la spartizione tra Gingrich e Santorum di voti e finanziamenti di area conservatrice, alla fine ce la farà comunque. Il punto è che più si trascina in questa lenta e faticosa via crucis più emerge la sua debolezza.

Cambierebbe qualcosa se Gingrich si ritirasse. In fondo l'esito del Super Tuesday lo giustificherebbe: si era parlato di una sua Southern Strategy, di una strategia di ripartenza basata sul profondo Sud conservatore che a gennaio l'aveva preferito a Santorum in South Carolina. E invece Newt non solo non è riuscito a scippare a Santorum la vittoria in Oklahoma e in Tennessee, ma addirittura in quei due stati è finito terzo dietro a Romney. E' un flop ormai quasi definitivo (che si ripercuote anche su Sarah Palin che gli ha ripetutamente dato un quasi-endorsement), ma un redivivo come lui non ha motivo di mollare (per tornare a far cosa?) finché non avrà definitivamente esaurito i finanziamenti.

Quindi per ora si va avanti così. Romney si prepara a conquistare lentamente e faticosamente una candidatura per esclusione e con il fiato molto, molto corto. Sicché per ora il vero vincitore di queste primarie repubblicane continua ad essere sempre lo stesso: Barack Obama.

uscito su Notapolitica

"GAME CHANGE", SU HBO MA SENZA BHO

“Questa merda sarebbe davvero interessante, se non ci stessimo in mezzo”.Questa frase, che Barack Obama avrebbe pronunciato nel settembre del 2008 rivolto al suo stratega elettorale David Axelrod, è stata scelta dall'editore per aprire la sinossi dell'osannato e criticato bestseller Game Change, il libro sui retroscena delle presidenziali del 2008 scritto a quattro mani da Mike Halperin di TIME e John Heilemann del New York Magazine. Chi domani sera guarderà su HBO l'attesissimo tv-movie tratto da quel libro non vedrà però né quel dialogo tra Obama ed Axelrod, né nessuna delle tante scene “brucianti” sulle primarie democratiche delle quali pure il libro è zeppo. Il motivo è facilmente intuibile guardando uno qualunque dei vari teaser che in questi mesi ne hanno preceduto la messa in onda: 


Come si vede, la fiction di HBO è tratta solo da una parte, in effetti da una piccola parte del fortunato libro di Halperin ed Heilemann: quella che ha per protagonista Sarah Palin e come coprotagonista John McCain. Della parte dedicata ad “Obama e i Clinton” (così recita il sottotitolo del libro) non c'è traccia. Zero.
Anche il cast del film, reso noto poco a poco nell'arco di un anno, con un sapiente stillicidio di micro-rivelazioni partite nel marzo del 2011, conferma la stessa cosa: sappiamo che Sarah Palin è interpretata da una bravissima Julianne Moore, e John McCain da Ed Harris; sappiamo chePeter MacNicol e Woody Harrelson interpretano i due litigiosi spin doctorrepubblicani Rick Davis e Steve Schmidt; non sappiamo però chi interpreta Barack Obama e Hillary Clinton, per la semplice ragione che non li intepreta proprio nessuno.
Eppure quella metàdella storia sarebbe stata molto avvincente nel film, e del resto ha contribuito a fare la fortuna del libro molto più di quella che verrà inscenata domani sera. Ad esempio: quando il libro uscì due anni fa Harry Reid, il leader dell'allora maggioranza democratica al Senato, dovette scusarsi pubblicamente con il presidente per via della rivelazione, da parte di Halperin ed Heilemann, di una sua battuta politicamente molto scorretta su Obama durante la campagna elettorale: può vincere l'elezione, aveva detto, perché in fondo è sì un afroamericano, ma “dalla pelle chiara”, e “non parla per nulla con un accento da negro, a meno che non lo voglia”. Nessuna scusa è invece venuta da Bill Clinton, che secondo gli autori, parlando con Ted Kennedy nel tentativo di convincerlo a dare il suo endorsement a Hillary, avrebbe detto sprezzante del giovane senatore dell'Illinois: “quel ragazzo, qualche anno fa, ci avrebbe servito il caffè”. E nessuna smentita da Harold Ickes, il consulente di Hillary che secondo il libro suggerì di mettere alle costole di Barack Obama un investigatore privato per mostrare quanto l'avversario fosse legato all'imbarazzante pastore Jeremiah Wright (quello di “Dio maledica l'America”).
In queste settimane la messa in onda del film è stata preceduta più che altro da polemiche per il modo antipatizzante in cui viene mostrata Sarah Palin, che l'altro giorno si è difesa facendo lanciare dal suo SarahPAC un contro-spot dal titolo “Game Change you can believe in” (notare il giochino tra “HBO” e “BHO”, le iniziali di Barack Hussein Obama):


In realtà, più che nel ritratto non benevolo della Palin, il taglio eccessivamente fazioso di questa nuova produzione HBO potrebbe risiedere in ciò che il film non ritrae affatto. E sarebbe davvero un peccato, perché nel libro (uno dei cui autori si è fatto notare per una certa sguaiata irriverenza nei confronti del presidente) tutto questo pudore filogovernativo proprio non c'era.


uscito su Good Morning America

mercoledì 7 marzo 2012

SUPERTUESDAY, BILANCIO PROVVISORIO: MITT SOPRAVVIVE MA NON TRIONFA

Se prescindessimo dalla conta dei delegati, potremmo dire che stanotte Romney ha vinto alla grande: ha vinto nella maggioranza deli Stati in cui si votava (sei su dieci), ha vinto la sfida politicamente più significativa (quella in Ohio, anche se di pochissimo), ha vinto la maggioranza del voto popolare.

Questi dati ci dicono qualcosa: ci dicono che quella di stanotte è per Romney una vittoria, quanto meno nel senso che ha evitato il peggio. Se ad esempio avesse perso in Ohio, oppure se non avesse vinto nella maggioranza degli Stati, la sua candidatura sarebbe precipitata in avvitamento.
Però è una vittoria senza sorprese: se ad esempio Romney avesse vinto anche in Tennessee, dove gli ultimi sondaggi non davano del tutto per scontata una sua sconfitta, avrebbe dimostrato di essere competittivo anche nel Sud conservatore. Non c'è stato invece nessun colpo di scena di questo genere; e quindi tocca mettere da parte le suggestioni e ragionare con il pallottoliere.
Alla fine infatti è la conta dei delegati a determinare la candidatura, ed è quindi alla luce di questa conta che va letto il risultato di oggi, per capire se per Romney si è trattato solo di sopravvivenza o di qualcosa di meglio.

E qui le cose si complicano, perché quella dei delegati è una spartizione che avviene in parte con metodo proporzionale, in parte con il maggioritario ma applicato non allo Stato nel suo complesso bensì ai singoli collegi elettorali. Non di rado si procede con un metodo ibrido che combina entrambi i sistemi. 
Alla fine di questa cabala, la spartizione che ne risulta è questa qui:

In Ohio, dove si disputava la competizione politicamente più significativa, Romney risulta vincitore di un solo punto percetuale – 38% contro il 37 di Santorum – e quindi il risultato andrà valutato una volta assegnati tutti i delegati, sia in base alla distribuzione dei voti sul territorio (la vittoria di Romney appare pericolosamente concentrata nelle zone urbane, mentre in quelle rurali domina Santorum). Alla fine potrebbe uscirne una sorta di pareggio; per ora abbiamo 35 delegati assegnati a Romney e 21 a Santorum, ma ne restano da assegnare ancora dieci.
In Georgia, lo Stato che ieri assegnava il maggior numero di delegati e dove Gingrich era da tempo stra-favorito anche perchè si tratta del suo Stato di origine, Newt trionfa con oltre il 47%, Romney non raggiunge il 26 e Santorum si ferma poco sotto il 20. Il limite della vittoria di Gingrich è che questo è il solo ed unico Stato in cui ha vinto (niente sorpasso su Santorum, quindi, contrariamente a quanto era stato ipotizzato ieri da alcuni sondaggisti). Anche qui il bilancio è più che provvisorio perché 15 dei 76 delegati sono ancora da assegnare; per ora ne vanno 46 a Gingrich, 13 a Romney, 2 a Santorum.
Anche in Tennessee, il terzo premio in palio per numero di delgati, 15 devono ancora essere assegnati; per ora Santorum, vincitore con un lauto 37%, ne incassa 25, e Romney, fermo ad un misero 28%, se ne vede assegnare 10, solo due più di Gingrich che lo tallona al 24%.
In Virginia, dove competevano solo Romney e Ron Paul poiché gli altri non erano riusciti a presentare le firme necessarie alla candidatura, è finita 59,5% per Romney contro 40,5% per Paul; il winner-take-all sui collegi e il “premio di maggioranza” per Romney che ha superato il 50% portano però ad assegnare 43 dei 46 delegati in palio a Mitt, lasciandone appena 3 al vecchio Ron.
In definitiva, sommando il risultato di questi quattro Stati a quello degli altri sei in cui si è votato ieri, il bilancio complessivo – decisamente provviosorio, però - del Super Tuesday è per ora il seguente: Romney ha totalizzato 211 delegati, Santorum 84, Gingrich 72 e Ron Paul 22.
Sommando i delegati assegnati in queste ore con quelli che ciascun candidato aveva già conquistato nelle primarie precedenti, la situazione attuale è questa: Romney è min testa con 415 delegati, Santorum è molto staccato con 176, Gingrich insegue Santorum con 105 e Ron Paul coltiva la sua nicchia con 47.
Considerato che la partita si chiude quando un candidato si assicura almeno 1144 delegati - quasi il triplo di quelli che Romney può vantare stamattina - per ora l'unica conclusione che si può già scrivere nella pietra è quella di Bill Kristol: "non finisce qui".

lunedì 5 marzo 2012

PERCHE' TUTTO SI GIOCA SEMPRE IN OHIO

Ci risiamo: per l'ennesima volta, i destini della politica a stelle e strisce si decidono nel Bucket State (lo “Stato dell' Ippocastano”).
Eppure l'Ohio non è il boccone più grosso nel voto di domani (assegna moltissimi delegati, 66, ma la Georgia ne assegna dieci di più – e comunque si ragiona con metodo proporzionale, quindi i delegati andranno spartiti).

Al contempo l'Ohio non spicca certo per la sua florida economia. Già alla fine degli anni Settanta lì prima che altrove si avvertiva crisi dell’industria pesante americana. Negli anni Ottanta la striscia di MidWest che correndo sotto i Grandi Laghi va dalla Pennsylvania orientale (la zona di Pittsburgh) al Nord dell'Illinois divenne tristemente nota come “Rust Belt”, la cintura della ruggine, per via della desolazione e del degrado di paesi e città costellati da stabilimenti industriali ormai da tempo abbandonati. Il cuore di quello sfortunato pezzo di America era proprio l'Ohio. Le cose non hanno fatto che peggiorare negli anni Novanta della deindustrializzazione e della delocalizzazione. Cleveland, la città più importante dell’Ohio, è stata dichiarata la più povera degli Stati Uniti.
Eppure, in mezzo a tutta quella desolazione, i cronisti di mezzo mondo sono costretti almeno una volta ogni quattro anni a recarsi in pellegrinaggio per raccontare una qualche competizione decisiva. Il motivo è sempre lo stesso: non si diventa presidenti senza vincere in Ohio , che è uno dei famigerati “swing state”, gli Stati che oscillano perpetuamente tra il voto ai Democratici e quello ai Repubblicani, facendo spesso e volentieri da ago della bilancia nell'elezione generale. 


Potremmo risalire quanto meno alle presidenziali del 1976, quando Jerry Ford venne battuto da Jimmy Carter per poche migliaia di voti proprio in Ohio; ma basta ricordare le immagini televisive del novembre del 2004, quando la conta dei voti in Ohio tenne sveglia l'America e il mondo, sino a rivelare a notte fonda che John Kerry non era riuscito ad impedire la rielezione di George W Bush (in Ohio il pendolo oscillò a favore di W. di due punti percentuali, come del resto era accaduto per Clinton nel 1992).
Nel 2008 Obama ha battuto John McCain nella inevitabile battaglia per la conquista di quel fatidico pezzo di MidWest; ma due anni dopo, alle alezioni di midterm, il pendolo ha nuovamente oscillato a favore dei Grand Old Party in Ohio, che attualmente è governato da un repubblicano vicino al mondo dei Tea Party, l’ex conduttore Fox News John Kasich. Attualmente i sondaggi danno Obama in difficoltà in questo Stato: ecco perché il valore politico del voto di domani sta tutto nell'individuare il candidato più adatto a contrastarlo nel suo tentativo di “riconquista”.
E' quindi inevitabile che anche in questo “Supermartedì” gli occhi siano ancora una volta tutti puntati lì, dove l'ormai estenuante braccio di ferro fra Mitt Romney da una parte e il fronte conservatore a lui avverso, ancora indeciso fra la candidatura di Rick Santorum e quella di Newt Gingrich, potrebbe giungere alla sospirata svolta.
Fino ad una settimana fa i sondaggi sull'Ohio davano nettamente in testa Santorum, ma negli ultimi giorni Romney è rimontato ed ora si parla di un testa a testa sul filo di lana. Si replicherà quindi quanto già visto in Michigan? Una vittoria del frontrunner potrebbe rappresentare l'inizio della fine delle resistenza alla candidatura Romney. Una sua sconfitta invece potrebbe metterlo seriamente in crisi, ma nemmeno questo è del tutto scontato: in fondo, quattro anni fa nella primaria democratica dell'Ohio Obama aveva perso di dieci punti contro Hillary Clinton.

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