mercoledì 3 novembre 2010

E' ARRIVATO


Lo Tsunami repubblicano, o forse più propriamente il mega-collasso democratico, è arrivato eccome - altro che "clamoroso pareggio" (ma per favore).

Per capire la portata dell’esito di queste midterm, va tenuto ben presente che in gioco erano non solo tutti i seggi della Camera ed un terzo di quelli del Senato (che negli USA si rinnova “a scaglioni”), ma anche ben 39 dei 50 governatori, più moltissime altre importanti elezioni “locali”, a cominciare dai parlamenti degli Stati, più i sindaci di città grandi e piccole, i giudici (che in molto Stati sono eletti dal popolo), e così via.

Quella che fino a ieri chiamavamo opposizione repubblicana era tale anche a questi livelli: i Dem oltre a detenere una vasta maggioranza in entrambi i rami del Congresso erano anche al comando nella maggioranza assoluta degli Stati, sia quanto a governatori che - ancor più - quanto a maggioranze parlamentari locali (le quali a loro volta determinano lo spazio di manovra del governatore).

Inoltre va anche considerato – e non mi pare che i commentatori in queste ore lo stiano facendo – che questa ormai ex opposizione non è certo in forma smagliante (come lo era, ad esempio, nel 1994 quando Clinton subì la rimonta della Republican Revolution); al contrario, è divisa, disordinata e drammaticamente sprovvista di leadership.

Eppure, è andata come è andata.

Alla Camera, per riprendersi la maggioranza ai Rep bastava rimontare di 39 seggi. Nel 1994 ne avevano strappati 54. Oggi se ne sono assicurati almeno 60, almeno il doppio di quanto Larry Sabato vaticinava quest’estate.
Si tratta della più grande vittoria elettorale parlamentare repubblicana dell'ultimo secolo: bisogna risalire al 1894, ai tempi della seconda elezione di Grover Cleveland, per trovare un record superiore. Trombati anche alcuni “inossidabili”, come Ike Skelton, presidente della commissione forze armate della Camera e deputato di un collegio del Missouri dal 1976, quando Obama era un liceale di Honolulu.
Adesso cambierà tutto. Tanto per fare un esempio: sarà ora il "Young Gun" Paul Ryan a presiedere il cruciale House Budget Committee, poltrona che fino ad ora era occupata dal Dem John Spratt così come il seggio del South Carolina dal quale questi è stato detronizzato dopo quasi trent'anni (significa che aveva vinto 14 elezioni consecutive).

Al Senato, dove una opposizione di 41 senatori su 100 ha di fatto un potere di veto su tutte le questioni importanti, i Rep a scrutinio ancora in corso se ne vedono già accreditare non meno di 46. I Dem non hanno perso la maggioranza assoluta ma sono passati dalla “supermaggioranza” (che avevano già perso all’inizio dell’anno con l’elezione di Scott Brown in Massachusetts) ad una risicata maggioranza di cinque o sei senatori (di cui uno è quello col fucile).
A Chicago, sweet home di Obama e roccaforte democratica da decenni, i Dem hanno perso anche il seggio senatoriale che dal 2004 al 2008 fu di Barack Obama (quello, per intenderci, che il famigerato Blago aveva cercato di rivendersi), il quale Obama aveva fortemente appoggiato il candidato Dem cui aveva riservato il suo comizio finale di sabato scorso. Non solo: hanno perso anche il seggio di Springfield, la capitale dell’Illinois, città-simbolo dalla quale Obama lanciò la sua candidatura alle primarie, dove il deputato uscente è stato scalzato da un esordiente “uomo qualunque” sostenuto dai Tea Party, papà di 10 figli e proprietario nientemeno che della pizzeria St. Giuseppe’s Heavenly.

Per quanto riguarda i governatori i Dem, che fino a ieri ne detenevano la maggioranza assoluta (26 su 50), hanno perso circa una dozzina di Stati. Sono tanti. Vuol dire che da oggi tre quarti degli Stati USA saranno governati dai repubblicani. Tra questi alcuni decisivi per vincere le presidenziali, come l’Iowa, lo swing-state per antonomasia Ohio (il neogov. repubblicano è l’ex conduttore Fox News John Kasich) e la Pennsylvania.
Il MidWest da oggi è interamente governato da quei repubblicani che appena due anni fa venivano dati come ridotti a partito regionale del profondo Sud.
Ma il picco più impressionante si è registrato nelle elezioni dei parlamenti “locali”, che non vanno sottovalutate.
Una valanga rossa di queste proporzioni nei parlamenti statali non si ebbe nemmeno ai tempi di Reagan. In una dozzina di casi i Rep. hanno conquistato la maggioranza in parlamenti dove sino a ieri erano all’opposizione da un’eternità.
In Texas, il secondo stato dopo la California per dimensioni demografiche (ed il più promettente di tutti per vitalità economica), dopo le elezioni del 2008 concomitanti con l’elezione di Obama alla Casa Bianca, i 150 seggi della locale Camera dei Deputati erano perfettamente ripartiti 75 Rep. e 75 Dem.; oggi sono diventati 99 Rep. e 51 Dem.
Spostandosi a nord, uno stato "operaio" come il Minnesota, dove il giovane governatore repubblicano Tim Pawlenty (segnatevi questo nome: ne sentirete parlare parecchio l'anno prossimo, quando si approssimeranno le primarie repubblicane) si destreggiava con un parlamento locale da decenni saldamente in mano ai Dem, stamattina si e' svegliato con una maggioranza repubblicana addirittura di 87 a 47.

Quanto ai “candidati dei Tea Party”, molto banalmente, sono andati bene quando erano dei buoni candidati, e male quando più o meno “impresentabili”: emblematiche, rispettivamente, la vittoria di Marco Rubio in Florida, e la sconfitta della O’Donnell in Delaware e di Paladino a New York.

L’ultima grande roccaforte democratica resta la California, il più grande stato USA per popolazione ma anche quello che per burocrazia, pressione fiscale, strapotere dei sindacati, normative in materia ambientale, e soprattutto debito pubblico, assomiglia più di ogni altro ad uno della vecchia Europa. Lì i Rep. hanno perso sia la sfida per il seggio senatoriale, dove la ex supermanager della HP Carly Fiorina non è riuscita a scalzare la navigata “boss” democratica Barbara Boxer, che quella per la poltrona di governatore, che il repubblicano “anomalo” Schwarzenegger passerà nemmeno ad un volto nuovo, ma al 72enne democratico Jerry Brown che aveva già lungamente governato il Golden State subito dopo Ronald Reagan. La sfidante supermanager di EBay e Disney Meg Whitman, che complici le sue cospicue finanze personali ha speso per la propria campagna più soldi di rtasca propria di chiunque altro nella storia, ha perso di brutto. Ricordatevene la prossima volta che vi ripetereanno che in America le elezioni le vince il più ricco (a propò: pare che complessivamente in qeste elezioni i Dem. abbiano speso più dei Rep. Per l’appunto).

Riassumendo:
“Da qualche parte lungo il percorso, colui che era l’apostolo del cambiamento ne è divenuto il bersaglio, sommerso dalla stessa corrente cavalcando la quale era stato portato alla Casa Bianca due anni fa”.
E’ l’incipit dell’analisi pubblicata a caldo non da qualche blog conservatore, ma dal New York Times.

Intanto Hillary è a Kuala Lumpur, il più lontano possibile dal disastro.

Uscito anche su Chicago Blog

7 commenti:

Anonimo ha detto...

Veramente un contributo magistrale all'analisi sul voto negli USA. Sentiti complimenti. Certo, ora scrivere e commentare il risultato sarà molto più complicato, ma la Rete è bella per questo; stimola la sana competizione (^_^)

Alessandro Tapparini ha detto...

Grazie mille Luca, contraccambio volentieri i complimenti per il bellissimo e pionieristico (aggettivo non casuale) esperimento in webtv. Continuiamo a cum-petere, mi raccomando ;)

Anonimo ha detto...

La mia risposta, più commento che analisi, l'ho postata poco fa ma ho svicolato in maniera abbastanza vergognosa volando alto. Troppo stanco per fare un'analisi seria.
In quanto alla diretta di TV Radicale, pionieristico è proprio l'aggettivo giusto, vista la infinita serie di guai ai quali siamo andati incontro. Però, alle 5 di mattina, per ringraziarci della tenacia, il destino, stavolta per niente cinico e baro, ci ha regalato un'intervista al volo con Matt Kibbe di Freedomworks (grazie a Stefano Magni). Una cosa è certa, il prossimo special lo organizziamo meglio dal punto di vista tecnico (meglio un servizio in meno ma un paio di prove in più ^_^).
A proposito, stiamo circolando l'idea di una trasmissione "normale" (massimo un'ora e mezza) in prima serata per commentare il risultato delle mid-term (magari in lieve differita per evitare il caos di ieri notte). Tutto ancora in fase preliminare, ma nel caso riuscissimo a concretizzare, saresti interessato a far parte del "super-panel"? L'idea era quella di raccogliere il meglio della Rete, tu, Mancia, Bressan, Zito, Della Sala, Mollica, Punzi, Reale, Invisigoth, insomma chi si occupa di USA sapendo il fatto suo e di produrre il tutto in maniera più professionale (sigla, grafiche, una regia seria, una piattaforma più stabile ecc). Tu come la vedi? Potremmo anche trasformarla in un appuntamento regolare, hai visto mai? (^_^)

Alessandro Tapparini ha detto...

Me gusta. Sono a disposizione. Sentiamoci via mail e/o facebook

Unknown ha detto...

Tra l'altro, l'anno che viene, vede la periodica ridisegnazione dei distretti elettorali. E' bene essere governatore del proprio stato mentre accade.

Alessandro Tapparini ha detto...

Giusto.

Anonimo ha detto...

Giustissimo JGD - le conseguenze del gerrymandering le abbiamo viste chiaramente in Texas, dove i distretti alla Camera disputati si contavano sulle dita di una mano. Il GOP tira da una parte, i Dems dall'altra, specialmente nelle aree urbane di Houston e San Antonio. Anche se il governatore non è onnipotente, aver fatto cappotto in tanti parlamenti statali avrà conseguenze ben più durature di quanto gli "analisti" dei media tradizionali potranno mai capire. Inutile nascondersi dietro ad un dito; chiunque voglia sapere come vanno le cose in America, farebbe meglio a spegnere la TV e mettersi davanti ad un computer. La Rete domina, da noi come negli USA. Sarebbe anche l'ora che se ne accorgessero pure i pubblicitari, ma questa è un'altra storia...

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