Non è semplice valutare la portata della nuova presa di posizione che l’amministrazione Obama ha assunto ieri nella causa davanti alla Corte Suprema sulla questione dei matrimoni gay californiani; né del resto è semplice ricostruire e ripercorrere il tortuoso percorso che il 44esimo presidente degli Stati Uniti ha compiuto su questo spinoso argomento, passando per anni da un annuncio ad effetto ad un complesso compromesso, sempre schivando prese di posizione troppo nette. Vediamo di provarci.
In quell’occasione, tuttavia, Obama si limitò in ad esprimere una "opinione personale", guardandosi bene dall’affermare che l'accesso al matrimonio per gli omosessuali fosse giuridicamente equiparabile ad un diritto civile e che quindi si trattasse un diritto fondamentale da garantire necessariamente in tutti i cinquanta Stati. Si trattava quindi di una presa di posizione più politica che giuridica, che badava bene a non entrare in conflitto con l'autonomia federalista degli Stati, esprimendo un auspicio ma lasciando che ciascun singolo Stato sia padrone di regolare come crede questa materia. Alcuni accolsero quella presa di posizione con un entusiasmo forse anche sproporzionato (il settimanale Newsweek incoronò Obama come “il primo presidente gay”, parafrasando la celebre definizione di “primo presidente nero” che la scrittrice afroamericana Toni Morrison aveva coniato nel 1998 per Bill Clinton); altri, più a sinistra, si indignarono contestando il fatto che si trattava di una svolta di facciata, senza una reale sostanza (nonostante l’amministrazione Obama avesse anche adottato delle misure concrete, tra le quali la revoca della politica ‘Don’t Ask And Don’t Tell’ nell’esercito e l’abbandono da parte del dipartimento di Giustizia della formale difesa nei tribunali del “Defense of Marriage Act”, la legge che proibisce al governo federale di riconoscere legalmente le unioni fra persone dello stesso sesso).
Da allora, Obama ha più volte cercato di enfatizzare la portata della sua presa di posizione affermando l’esistenza di un unico ideale “percorso” che “passa da Seneca Falls, da Selma e da Stonewall”. E’ una chiara allusione alla lotta per i diritti civili: Seneca Falls è la località nello Stato di New York che ospitò nel lontano 1848 la prima convention americana per i diritti delle donne, le quali a partire da lì si mobilitarono per il diritto al voto; Selma è una città dell’Alabama nella quale nel 1965 una marcia pacifica per i diritti degli afroamericani, alla quale partecipava lo stesso Martin Luther King, venne brutalmente repressa dalla polizia; lo Stonewall Inn è il nome di un locale gay del Greenwich Village dove nel 1969 la reazione ad una retata della polizia diede il via all’attivismo per i diritti degli omosessuali. L’ultima volta lo ha fatto un mese fa, nel discorso che ha pronunciato sulle scale del Campidoglio per la inaugurazione del suo secondo mandato presidenziale, divenendo il primo presidente della storia a pronunciare la parola “gay” in un discorso inaugurale.
Ma tra i militanti dei diritti per i gay permaneva una certa insoddisfazione, che da ultimo era stata espressa a gennaio in un editoriale del New York Times che invitava il presidente a passare dalle parole ai fatti: “Ora la questione urgente è come egli ritiene di tradurre le proprie parole in azione. Per cominciare, dovrebbe dare impulso al suo Ministro della Giustizia di presentare una memoria scritta prendendo posizione nella causa sul referendum “Proposition 8” che verrà discussa davanti alla Corte Suprema a marzo, affermando che il divieto di matrimoni omosessuali approvato dagli elettori della California è incostituzionale”.
Ed eccoci alla svolta di ieri. Nell’ultimo giorno utile per farlo, la Casa Bianca l’ha infine presentata, la memoria scritta che il NYT reclamava a gennaio. Ha preso posizione nella causa, che la Corte Suprema comincerà a discutere fra un mese, sulla compatibilità o meno con la Costituzione degli Stati Uniti del referendum con il quale gli elettori californiani nel 2008, nello stesso giorno in cui mandavano Obama alla Casa Bianca, avevano approvato un emendamento alla Costituzione del Golden State che limita il matrimonio alle unioni fra un uomo e una donna; questione sulla quale il movimento per i diritti dei gay ha costruito una azione legale volta proprio a portare la questione davanti alla Corte Suprema, dopo aver ottenuto una prima storica vittoria in tribunale nell’agosto del 2010 e poi una parziale conferma in appello (anche se più contenuta nella motivazione).
Ma a ben vedere la motivazione con la quale la Casa Bianca ha assunto questa presa di posizione cela una sottigliezza non da poco: il divieto californiano, si legge nella memoria depositata ieri, sarebbe minato proprio dal fatto che in California è già stata concessa una “estensione di tutti i diritti sostanziali e le responsabilità tipiche del matrimonio alle coppie conviventi gay e lesbiche”; e la Corte Suprema “può risolvere questo caso concentrandosi sulle particolari circostanze che caratterizzano le legge californiana e il riconoscimento che essa già dà alle coppie omosessuali, anziché occuparsi della questione dei pari diritti in relazione a circostanze che non ricorrono in questo caso concreto”.
Tradotto dall’avvocatese, significa che la Casa Bianca non sta chiedendo alla Corte Suprema di decretare che l’accesso all’istituto del matrimonio deve essere immediatamente accordato alle coppie omosessuali in tutti i 50 Stati dell’unione (proprio come avvenne, ad esempio, 40anni fa per l’accesso alla libertà di abortire con la famosa sentenza Roe contro Wade). Secondo la lettura degli addetti ai lavori, se la Corte sposasse la posizione assunta ieri dall’amministrazione Obama, il risultato più verosimile sarebbe piuttosto quello di far saltare, in quanto incostituzionale, il divieto di matrimoni omosessuali non solo in California, ma nemmeno in tutti i trentasette Stati nei quali attualmente vige un divieto del genere, bensì, paradossalmente, solo in quegli otto nei quali le coppie gay non possono formalmente sposarsi, ma vige pur sempre un riconoscimento delle unioni civili che di fatto conferisce loro tutti i benefici delle coppie sposate, pur senza dare loro accesso al vero e proprio istituto del matrimonio. Oltre alla California, quindi, anche Delaware, Hawaii, Illinois, Nevada, New Jersey, Oregon e Rhode Island.
Ecco un passaggio dell’analisi pubblicata ieri sera sul sito SCOTUSBLOG, il principale riferimento online sul lavoro della Corte Suprema:
“In sostanza, la posizione assunta dal governo federale finirebbe per dare un sostegno alla causa delle pari opportunità nell’accesso al matrimonio, mostrando però al contempo anche un certo rispetto per l’autonomia dei singoli Stati nel disciplinare questo istituto. Quella che la memoria presentata dalla Casa Bianca ha sposato è quella che viene chiamata la “soluzione degli otto Stati” – cioè: se uno Stato riconosce già alle coppie omosessuali gli stessi privilegi e gli stessi benefici che hanno le coppie sposate (come accade negli otto Stati che lo fatto riconoscendo le “unioni civili”), allora in quello Stato è obbligatorio compiere il passo finale e consentire a quelle coppie di contrarre un vero e proprio matrimonio”
Stando a questa soluzione compromissoria, il numero degli Stati nei quali le coppie omosessuali possono sposarsi verrebbe raddoppiato (attualmente sono nove: Connecticut, Iowa, Massachusetts, Maryland, New Hampshire, New York, Vermont, Washington e Maine). Ma paradossalmente resterebbe in piedi il divieto proprio in quei ventinove Stati che lo hanno stabilito in modo più intransigente, negando anche un riconoscimento delle coppie di fatto che, pur senza formale equiparazione al vero e proprio matrimonio, conceda di fatto gli stessi benefici dei quali godono le coppie sposate.