“Il presidente Obama ha deciso che alla fin fine gli conveniva spendere su altri fronti il tempo ed il capitale politico necessari per blindare la nomina della ambasciatrice all’Onu Susan Rice come suo prossimo Segretario di Stato”. Così stamattina il Washington Post commenta la decisione di Susan Rice di rinunciare alla propria candidatura alla successione per il dopo-Hillary: una scelta tattica di Obama, troppo impegnato in questi giorni nella trattativa sul “precipizio fiscale” per lasciarsi distrarre da un secondo fronte di scontro con l’opposizione repubblicana. Il presidente si è smarcato, insomma; ma ciò non toglie che questa sia stata per lui una sconfitta, con la quale non avrebbe certo voluto inaugurare il suo secondo mandato.
La Rice era notoriamente la sua prima scelta, e fa parte della ristretta cerchia dei suoi fedelissimi da molto prima che lui divenisse presidente. Per di più il Presidente su questa questione ci aveva volutamente “messo la faccia”: esattamente un mese fa, nella sua primissima conferenza stampa dopo la rielezione, aveva polemizzato con insolito accaloramento con i repubblicani, parlando come un che difende una cara amica prima ancora che come presidente: “se la prendono con lei perché la considerano un bersaglio facile, ma è con me che hanno problemi. Tentare di infangare la sua reputazione è vergognoso, se vogliono prendersela con qualcuno se la prendano con me”.
A ciò si aggiunge il fatto che la campagna dei repubblicani non aveva, sulla carta, i numeri per un efficace ostruzionismo che la rendesse tecnicamente impossibile: ai Democratici bastava racimolare cinque voti repubblicani da aggiungere a quelli dei propri 55 senatori. Se si considera che l'ultima volta che si era visto un fuoco di sbarramento per la conferma della nomina di un Segretario di Stato era stato nel 2005 contro Condi Rice, e alla fine l'approvazione, che ad oggi rimane la meno unanime nella storia degli Stati Uniti, fu per 85 voti contro 13, in un Senato perfettamente speculare a quello attuale (maggioranza 55, opposizione 45: i senatori dell’opposizione Democratica che votarono a favore assieme alla maggioranza Repubblicana furono 32). In definitiva, quindi, Obama pur avendo tendenzialmente “i numeri” non ha avuto la capacità politica di condurre in porto questa operazione. La sua presidenza “bis” non poteva aprirsi sotto peggiore auspicio: quante altre volte si vedrà costretto a cedere sotto il fuoco di sbarramento dell’opposizione durante il prossimo quadriennio?
Se il presidente, ovviamente assieme alla stessa Rice, è il grande sconfitto di questa battaglia, il vincitore è innanzitutto il vecchio senatore dell’Arizona John McCain, artefice e leader della crociata contro la Rice che ha lanciato come suo solito in modo eccentrico e solitario, tra lo scetticismo generale con al seguito uno sparuto drappello di due o tre senatori, e uscito trionfante da quella che in un certo senso è stata la sua piccola vendetta dopo la sconfitta inflittagli da Obama alle presidenziali del 2008 (vendetta contro Obama ma anche contro la Rice stessa, che nel 2008 guidava lo staff di Obama sulla politica estera ed in tale veste aveva attaccato McCain senza mezzi termini).
L’altro grande vincitore, peraltro senza colpo aver ferito a quanto è dato sapere, è un altro anziano senatore sconfitto qualche tempo fa in una elezione presidenziale: John Kerry, l’altro nome in cima alla lista per la successione ad Hillary, il quale dopo il passo indietro della Rice diviene automaticamente il favoritissimo. Non a caso il Washington Post, quando si è capito che aria tirava, ieri è uscito con un corsivo a firma di David Ignatius che sponsorizzava calorosamente la nomina di Kerry (affiancandosi in questo all’altro grande quotidiano liberal del Paese, il New York Times, che da mesi conduceva una vera e propria campagna affinché Kerry e non Rice venisse nominato Segretario di Stato). Sul suo nome i repubblicani hanno sempre ostentato un atteggiamento più che favorevole, e a questo punto è difficile dubitare che sia lui il prossimo ministro degli esteri americano.
Infine, proprio perché l’uscita di scena della Rice spiana la strada alla nomina di Kerry, c’è un terzo possibile vincitore in questa storia: se andrà a guidare il Dipartimento di Stato Kerry lascerà presto vacante il suo seggio senatoriale in Massachusetts, rendendo necessaria una elezione straordinaria per riassegnarlo. In questo caso tutti pronosticano che si rifarà avanti quello Scott Brown che nel 2010, sempre in una elezione speciale, riuscì rocambolescamente ad espugnare quello che era stato per una vita il feudo di Ted Kennedy, e che lo scorso 6 novembre è stato faticosamente sconfitto dalla Obamiana Liz Warren, ma ha pur sempre preso molti più voti di quando era stato eletto nel 2010. Le elezioni, come gli esami, non finiscono mai?
L’altro grande vincitore, peraltro senza colpo aver ferito a quanto è dato sapere, è un altro anziano senatore sconfitto qualche tempo fa in una elezione presidenziale: John Kerry, l’altro nome in cima alla lista per la successione ad Hillary, il quale dopo il passo indietro della Rice diviene automaticamente il favoritissimo. Non a caso il Washington Post, quando si è capito che aria tirava, ieri è uscito con un corsivo a firma di David Ignatius che sponsorizzava calorosamente la nomina di Kerry (affiancandosi in questo all’altro grande quotidiano liberal del Paese, il New York Times, che da mesi conduceva una vera e propria campagna affinché Kerry e non Rice venisse nominato Segretario di Stato). Sul suo nome i repubblicani hanno sempre ostentato un atteggiamento più che favorevole, e a questo punto è difficile dubitare che sia lui il prossimo ministro degli esteri americano.
Infine, proprio perché l’uscita di scena della Rice spiana la strada alla nomina di Kerry, c’è un terzo possibile vincitore in questa storia: se andrà a guidare il Dipartimento di Stato Kerry lascerà presto vacante il suo seggio senatoriale in Massachusetts, rendendo necessaria una elezione straordinaria per riassegnarlo. In questo caso tutti pronosticano che si rifarà avanti quello Scott Brown che nel 2010, sempre in una elezione speciale, riuscì rocambolescamente ad espugnare quello che era stato per una vita il feudo di Ted Kennedy, e che lo scorso 6 novembre è stato faticosamente sconfitto dalla Obamiana Liz Warren, ma ha pur sempre preso molti più voti di quando era stato eletto nel 2010. Le elezioni, come gli esami, non finiscono mai?
Uscito su Good Morning America
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