Oggi su L'Occidentale:
Shepard Fairey è il quarantenne grafico e “artista di strada” che nel 2008 creò la fortunatissima immagine di Barack Obama rielaborata in stile pop-art ed accompagnata dalla scritta HOPE (speranza), divenuta la principale icona dell’obama-mania in campagna elettorale e non solo (l’originale è oggi esposto alla Smithsonian’s National Portrait Gallery di Washington).
Fairey è quindi a sua volta un personaggio-simbolo, un emblema vivente della componente di innovazione, rottura e “spinta dal basso” che ha caratterizzato l’elezione di Obama (non a caso creò l’opera che lo ha reso celebre senza curarsi di chiedere il consenso alla Associated Press, proprietaria dei diritti sulla fotografia da lui utilizzata, il che ha condotto alla solita, inevitabile causa).
Ebbene: in una recente intervista, Fairey si dice deluso da Obama, in quanto a suo dire “non si sta dando abbastanza da fare” e “non sta venendo a capo” della sua impresa.
Affermazione tanto più suggestiva, ove si consideri che il contesto dell’intervista è la sua nuova mostra newyorkese, intitolata "May Day", incentrata sul tema dell’immobilismo della vecchia politica di Washington – proprio quella cui Obama aveva promesso di dare un bel “taglio”.
Negli stessi giorni, il Los Angeles Times (autorevole testata non certo di orientamento conservatore) se ne esce con un pezzo il cui titolo sembra preso dalla prima pagina di Libero: “E’ rimasto ancora qualcuno che la Casa Bianca di Obama non ha ancora “comprato” dandogli un “posto”? Se sì, alzi la mano”. La tesi, se non si fosse capito, è che l’attuale amministrazione sta tentando di gestire il dissenso “sistemando” con uno strapuntino ogni potenziale rompiscatole in circolazione, come nelle migliori tradizioni della vecchia e cinica politica politicante. Un modo di lavorare molto in linea con la politica di Chicago nella quale Obama si è formato, ma molto distante dall’immagine di “speranza” e “cambiamento” che era riuscito a costruirsi e alla quale i suoi elettori si erano tanto affezionati.
A proposito di immagine: l’articolo del L.A. Times è commentato sul sito The Daily Beast (che raccoglie opinioni ed analisi di tendenza repubblicana moderata, centrista e bipartisan), da Mark McKinnon. Ex cantautore country-rock, poi esperto di comunicazione pubblicitaria e politica, McKinnon , oltre a curare l’immagine di personaggi come Bono ed il campione di ciclismo Lance Armstrong, ha lavorato ad entrambe le elezioni di George W Bush alla Casa Bianca. Nel 2007 è stato uno dei più stretti collaboratori di John McCain. Ha fatto parte dei cosiddetti “cinque di Sedona”, la ristretta cerchia di fedelissimi che non hanno abbandonato il senatore dell’Arizona nemmeno nel momento più difficile della campagna preliminare alle primarie. Poi, nel maggio del 2008 – proprio quando McCain aveva ottenuto la candidatura e la sua impresa cominciava a sembrare meno disperata del previsto – si dimise perché, disse, apprezzava il “grande messaggio” che sarebbe potuto scaturire dall’elezione di Barack Obama, e non intendeva lavorare contro un simile avversario. Insomma, si tratta non solo di un esperto di comunicazione politica, ma anche di un personaggio che incarna molto bene le aspettative di quell’elettorato indipendente non stabilmente schierato dalla parte dell’attuale presidente, ma nemmeno pregiudizialmente a lui ostile, ed anzi incline a nutrire nei suoi confronti una pur cauta simpatia, o comunque ad auspicare, seppur in modo non acritico, che Obama lavori bene, perché in caso contrario ci rimetterà tutto il Paese.
Ebbene: McKinnon prende a pretesto l’articolo del L.A. Times per fare il punto sul fatto che una porzione ormai determinante di elettori si sta assestando sul versante dei “delusi”, nel senso che sta rivedendo la propria opinione/percezione di Obama, declassandolo da eroe del cambiamento a personaggio tristemente riconducibile agli schemi della solita “vecchia” politica, fatta di compromessi con i poteri forti, di accordi sottobanco, di promesse non mantenute. Come piccolo sintomo di questa tendenza, McKinnon segnala che nei sondaggi della Pew del settembre del 2008 (subito prima dell’elezione del nuovo presidente) e del febbraio del 2009 (subito dopo la sua entrata in carica), le parole “hope” (speranza) e “hopeful” (speranzoso, ma anche “che dà speranza”) erano tra le 10 più gettonate fra quelle che la gente diceva di associare ad Obama. Ad aprile dell’anno scorso erano scese al 15esimo posto. A gennaio di quest’anno “hopeful” era al n.34, dopo “comunista”, “arrogante” e “deludente” (se non altro, “intelligente” è sempre salda al primo posto in classifica).
“Qualche mese fa” scrive McKinnon “pensavo che per Obama le cose non potessero andar peggio. E invece sono peggiorate, e molto”. In effetti, lo sgonfiamento della “bolla” obamiana è ormai un dato di fatto. Già nel settembre dell’anno scorso si cominciarono a registrare (e analizzare) cali di popolarità tra i più repentini nella storia della Casa Bianca. Poi è venuto lo smacco delle elezioni suppletive in Massachusetts; seguito però dalla approvazione della riforma sanitaria, che ci si aspettava segnasse un punto di svolta e di “risalita” del tasso di popolarità del presidente. Non è stato così. Alla fine di maggio la rilevazione del tasso di popolarità del presidente ha registrato un nuovo record negativo nei sondaggi della Gallup (46%), così come il tasso di approvazione nella rilevazione Rasmussen (42%). Nessun presidente nella storia – ricorda McKinnon – è mai stato rieletto con un tasso di approvazione inferiore al 47%.
Certo, la rielezione dista ancora un paio d’anni e molte cose possono accadere da qui al 2012. Lo scorso settembre Stanley Fish notava sul New York Times che la forza residua di Obama risiedeva nel fatto di comparire come un gigante attorniato da nanetti, di fronte all'opposizione ma anche dentro la sua amministrazione e dentro al suo partito: "come il Giulio Cesare di Shakespeare, domina il panorama politico come un colosso"... ma solo per mancanza di antagonisti. Difficile dire quanto a lungo può ancora protrarsi questo tipo di vantaggio.
E intanto, le elezioni di medio termine sono ormai dietro l’angolo.
Fairey è quindi a sua volta un personaggio-simbolo, un emblema vivente della componente di innovazione, rottura e “spinta dal basso” che ha caratterizzato l’elezione di Obama (non a caso creò l’opera che lo ha reso celebre senza curarsi di chiedere il consenso alla Associated Press, proprietaria dei diritti sulla fotografia da lui utilizzata, il che ha condotto alla solita, inevitabile causa).
Ebbene: in una recente intervista, Fairey si dice deluso da Obama, in quanto a suo dire “non si sta dando abbastanza da fare” e “non sta venendo a capo” della sua impresa.
Affermazione tanto più suggestiva, ove si consideri che il contesto dell’intervista è la sua nuova mostra newyorkese, intitolata "May Day", incentrata sul tema dell’immobilismo della vecchia politica di Washington – proprio quella cui Obama aveva promesso di dare un bel “taglio”.
Negli stessi giorni, il Los Angeles Times (autorevole testata non certo di orientamento conservatore) se ne esce con un pezzo il cui titolo sembra preso dalla prima pagina di Libero: “E’ rimasto ancora qualcuno che la Casa Bianca di Obama non ha ancora “comprato” dandogli un “posto”? Se sì, alzi la mano”. La tesi, se non si fosse capito, è che l’attuale amministrazione sta tentando di gestire il dissenso “sistemando” con uno strapuntino ogni potenziale rompiscatole in circolazione, come nelle migliori tradizioni della vecchia e cinica politica politicante. Un modo di lavorare molto in linea con la politica di Chicago nella quale Obama si è formato, ma molto distante dall’immagine di “speranza” e “cambiamento” che era riuscito a costruirsi e alla quale i suoi elettori si erano tanto affezionati.
A proposito di immagine: l’articolo del L.A. Times è commentato sul sito The Daily Beast (che raccoglie opinioni ed analisi di tendenza repubblicana moderata, centrista e bipartisan), da Mark McKinnon. Ex cantautore country-rock, poi esperto di comunicazione pubblicitaria e politica, McKinnon , oltre a curare l’immagine di personaggi come Bono ed il campione di ciclismo Lance Armstrong, ha lavorato ad entrambe le elezioni di George W Bush alla Casa Bianca. Nel 2007 è stato uno dei più stretti collaboratori di John McCain. Ha fatto parte dei cosiddetti “cinque di Sedona”, la ristretta cerchia di fedelissimi che non hanno abbandonato il senatore dell’Arizona nemmeno nel momento più difficile della campagna preliminare alle primarie. Poi, nel maggio del 2008 – proprio quando McCain aveva ottenuto la candidatura e la sua impresa cominciava a sembrare meno disperata del previsto – si dimise perché, disse, apprezzava il “grande messaggio” che sarebbe potuto scaturire dall’elezione di Barack Obama, e non intendeva lavorare contro un simile avversario. Insomma, si tratta non solo di un esperto di comunicazione politica, ma anche di un personaggio che incarna molto bene le aspettative di quell’elettorato indipendente non stabilmente schierato dalla parte dell’attuale presidente, ma nemmeno pregiudizialmente a lui ostile, ed anzi incline a nutrire nei suoi confronti una pur cauta simpatia, o comunque ad auspicare, seppur in modo non acritico, che Obama lavori bene, perché in caso contrario ci rimetterà tutto il Paese.
Ebbene: McKinnon prende a pretesto l’articolo del L.A. Times per fare il punto sul fatto che una porzione ormai determinante di elettori si sta assestando sul versante dei “delusi”, nel senso che sta rivedendo la propria opinione/percezione di Obama, declassandolo da eroe del cambiamento a personaggio tristemente riconducibile agli schemi della solita “vecchia” politica, fatta di compromessi con i poteri forti, di accordi sottobanco, di promesse non mantenute. Come piccolo sintomo di questa tendenza, McKinnon segnala che nei sondaggi della Pew del settembre del 2008 (subito prima dell’elezione del nuovo presidente) e del febbraio del 2009 (subito dopo la sua entrata in carica), le parole “hope” (speranza) e “hopeful” (speranzoso, ma anche “che dà speranza”) erano tra le 10 più gettonate fra quelle che la gente diceva di associare ad Obama. Ad aprile dell’anno scorso erano scese al 15esimo posto. A gennaio di quest’anno “hopeful” era al n.34, dopo “comunista”, “arrogante” e “deludente” (se non altro, “intelligente” è sempre salda al primo posto in classifica).
“Qualche mese fa” scrive McKinnon “pensavo che per Obama le cose non potessero andar peggio. E invece sono peggiorate, e molto”. In effetti, lo sgonfiamento della “bolla” obamiana è ormai un dato di fatto. Già nel settembre dell’anno scorso si cominciarono a registrare (e analizzare) cali di popolarità tra i più repentini nella storia della Casa Bianca. Poi è venuto lo smacco delle elezioni suppletive in Massachusetts; seguito però dalla approvazione della riforma sanitaria, che ci si aspettava segnasse un punto di svolta e di “risalita” del tasso di popolarità del presidente. Non è stato così. Alla fine di maggio la rilevazione del tasso di popolarità del presidente ha registrato un nuovo record negativo nei sondaggi della Gallup (46%), così come il tasso di approvazione nella rilevazione Rasmussen (42%). Nessun presidente nella storia – ricorda McKinnon – è mai stato rieletto con un tasso di approvazione inferiore al 47%.
Certo, la rielezione dista ancora un paio d’anni e molte cose possono accadere da qui al 2012. Lo scorso settembre Stanley Fish notava sul New York Times che la forza residua di Obama risiedeva nel fatto di comparire come un gigante attorniato da nanetti, di fronte all'opposizione ma anche dentro la sua amministrazione e dentro al suo partito: "come il Giulio Cesare di Shakespeare, domina il panorama politico come un colosso"... ma solo per mancanza di antagonisti. Difficile dire quanto a lungo può ancora protrarsi questo tipo di vantaggio.
E intanto, le elezioni di medio termine sono ormai dietro l’angolo.
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