Mio pezzo su L'Occidentale di oggi:
Con la morte del mitico senatore Ted Kennedy, monumento vivente della sinistra liberal, unico “fratello non assassinato” di JFK e di Bobby (e l’unico dei tre il cui “potenziale presidenziale” venne stroncato da disdicevoli vicende private anziché da una pallottola), cala definitivamente il sipario su una delle più potenti e controverse dinastie politiche americane dell’ultimo secolo (il cui potere ha peraltro origini decisamente inquietanti, troppo spesso sciattamente dimenticate dai media italiani, ancora fermi ai luoghi comuni agiografici di quarant’anni fa).
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L'ARTICOLO SEGUE QUI ; per i lettori del blog, eccone una versione ampliata e maggiormente ipertestuale:
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“Lexington”, ossia il capo della redazione USA dell’Economist Robert Guest, ieri sul suo blog ha scritto del vecchio Ted che “ha combinato più cose lui nei suoi 47 anni passati al senato che non suo fratello nei tre che passò alla Casa Bianca”.
Vero. Un esempio lampante lo fornisce Jeffrey Toobin sul sito del New Yorker, ricostruendo l’influenza che negli anni il senatore del Massachusetts ha esercitato in occasione delle nomine dei giudici alla Corte Suprema.
Tra tante battaglie parlamentari vinte, Ted Kennedy ne lascia ai posteri due grandi incompiute. Una, quella di cui tutti parlano in queste ore, è la mai realizzata riforma del sistema sanitario: la battaglia della sua vita come lui stesso la definiva, da sempre combattuta argomentando in base a ragioni non solo morali ma anche e soprattutto di bilancio (come mi è capitato di ricordare recentemente, qui su L’Occidentale).
L’altra, che negli ultimi tempi è stata messa in ombra dallo scontro sulla sanità ma che è destinata a riemergere prepotentemente nei prossimi mesi, è quella sull’immigrazione. Nel 2005, Ted Kennedy aveva presentato a quattro mani con il senatore repubblicano (e futuro candidato alla Casa Bianca) John McCain un disegno di legge bipartisan che divenne, e rimase per oltre un anno, il tema più “caldo” della politica interna statunitense. La proposta McCain-Kennedy prevedeva la concessione di un permesso di soggiorno triennale a 400mila lavoratori stranieri all’anno, e una sanatoria una tantum ad ognuno dei quasi undici milioni di immigrati clandestini che già si trovano in America, a patto però che il clandestino si faccia schedare, paghi le tasse arretrate e una multa di 3.000 dollari, e passi un esame di lingua inglese. Il presidente Bush la appoggiò sfidando le strenue resistenze della base repubblicana, e dopo mesi di braccio di ferro (e di manifestazioni di piazza da parte degli immigrati, circostanza non solo folkloristica, la cui significativa assenza nelle nostre piazze rende tendenzialmente incomparabili le apparentemente analoghe polemicuzze nostrane), il Senato approvò il testo con alcuni emendamenti di compromesso; l’iter legislativo si è però arenato alla Camera, e non si è rimesso in moto nemmeno dopo che con le elezioni di medio termine del 2006 la maggioranza alla Camera è tornata saldamente in mano ai democratici, e neanche dopo che, in concomitanza con l’elezione di Obama lo scorso novembre, anche al senato i democratici hanno riconquistato una, seppur risicatissima, maggioranza. A quanto pare, anche un Congresso a maggioranza democratica - persino se affiancato da una Casa Bianca del medesimo segno politico, il cui attuale inquilino (eletto anche grazie ai voti degli immigrati latinos) - ha inizialmente proclamato che questa riforma è tra le sue principali priorità, ma ha poi frenato precisando che non intende cimentarvisi quest'anno - non riesce a maneggiare una materia tanto scottante.
E della dinastia Kennedy, che ne sarà ora?
Vero. Un esempio lampante lo fornisce Jeffrey Toobin sul sito del New Yorker, ricostruendo l’influenza che negli anni il senatore del Massachusetts ha esercitato in occasione delle nomine dei giudici alla Corte Suprema.
Tra tante battaglie parlamentari vinte, Ted Kennedy ne lascia ai posteri due grandi incompiute. Una, quella di cui tutti parlano in queste ore, è la mai realizzata riforma del sistema sanitario: la battaglia della sua vita come lui stesso la definiva, da sempre combattuta argomentando in base a ragioni non solo morali ma anche e soprattutto di bilancio (come mi è capitato di ricordare recentemente, qui su L’Occidentale).
L’altra, che negli ultimi tempi è stata messa in ombra dallo scontro sulla sanità ma che è destinata a riemergere prepotentemente nei prossimi mesi, è quella sull’immigrazione. Nel 2005, Ted Kennedy aveva presentato a quattro mani con il senatore repubblicano (e futuro candidato alla Casa Bianca) John McCain un disegno di legge bipartisan che divenne, e rimase per oltre un anno, il tema più “caldo” della politica interna statunitense. La proposta McCain-Kennedy prevedeva la concessione di un permesso di soggiorno triennale a 400mila lavoratori stranieri all’anno, e una sanatoria una tantum ad ognuno dei quasi undici milioni di immigrati clandestini che già si trovano in America, a patto però che il clandestino si faccia schedare, paghi le tasse arretrate e una multa di 3.000 dollari, e passi un esame di lingua inglese. Il presidente Bush la appoggiò sfidando le strenue resistenze della base repubblicana, e dopo mesi di braccio di ferro (e di manifestazioni di piazza da parte degli immigrati, circostanza non solo folkloristica, la cui significativa assenza nelle nostre piazze rende tendenzialmente incomparabili le apparentemente analoghe polemicuzze nostrane), il Senato approvò il testo con alcuni emendamenti di compromesso; l’iter legislativo si è però arenato alla Camera, e non si è rimesso in moto nemmeno dopo che con le elezioni di medio termine del 2006 la maggioranza alla Camera è tornata saldamente in mano ai democratici, e neanche dopo che, in concomitanza con l’elezione di Obama lo scorso novembre, anche al senato i democratici hanno riconquistato una, seppur risicatissima, maggioranza. A quanto pare, anche un Congresso a maggioranza democratica - persino se affiancato da una Casa Bianca del medesimo segno politico, il cui attuale inquilino (eletto anche grazie ai voti degli immigrati latinos) - ha inizialmente proclamato che questa riforma è tra le sue principali priorità, ma ha poi frenato precisando che non intende cimentarvisi quest'anno - non riesce a maneggiare una materia tanto scottante.
E della dinastia Kennedy, che ne sarà ora?
Che il loro potere fosse al tramonto, lo si era constatato mesi fa, quando Caroline, figlia di JFK, dopo essere stata sponsor della prima ora di Barack Obama durante le primarie, e dopo essere stata ricompensata con la presidenza del team preposto alla selezione del candidato alla vicepresidenza nel ticket elettorale, non è riuscita ad accaparrarsi il seggio senatoriale lasciato vacante da Hillary Clinton.
Se ora Caroline non riuscirà nemmeno ad aggiudicarsi il seggio dello zio, avremo la conferma che con Ted è finita la storia del potentato dinastico che ha dominato per quarant'anni.
L’epitaffio di Lexington è quindi giustamente dedicato alla dinastia stessa oltre che al senatore:
“Ted è stato l’ultimo Kennedy a far accadere le cose. Il resto della famiglia appare avviato ad una graduale estinzione dalla scena pubblica”.
Se ora Caroline non riuscirà nemmeno ad aggiudicarsi il seggio dello zio, avremo la conferma che con Ted è finita la storia del potentato dinastico che ha dominato per quarant'anni.
L’epitaffio di Lexington è quindi giustamente dedicato alla dinastia stessa oltre che al senatore:
“Ted è stato l’ultimo Kennedy a far accadere le cose. Il resto della famiglia appare avviato ad una graduale estinzione dalla scena pubblica”.