"Nemmeno Gesù Cristo potrebbe vincere le elezioni quest’anno, se si candidasse per il partito repubblicano”: questa battutina che ha circolato per mesi tra i simpatizzanti democratici rende l’idea di che tipo di campagna elettorale John McCain si sia trovato ad affrontare.
Quest’anno tutte le circostanze convergevano nel tenere la Casa Bianca fuori della portata del candidato repubblicano - di
qualunque candidato repubblicano.
Mantenere lo stesso colore politico alla Casa Bianca per tre mandati consecutivi è un’impresa già di per se quasi impossibile, riuscita, nell’ultimo mezzo secolo, solamente una volta: nel 1988, quando Bush padre succedette ai due mandati di Reagan. Ma allora l’amministrazione uscente (nel suo momento peggiore, dopo lo scandalo Iran-Contras) rasentava il 60% dei consensi, ed esserle “associabile” era un punto di forza decisivo. McCain, al contrario, ha subito come un handicap letale la “associabilità” all’amministrazione Bush. Bill Kristol ha raccontato sul NYT che un membro dello staff della campagna di McCain gli ha confidato di ritenere che
“se nel 1988 Ronald Reagan avesse avuto una percentuale di approvazione popolare del suo operato del 30%, e l’80% degli elettori fossero stati dell’idea che il Paese stava andando nella direzione sbagliata, le elezioni le avrebbe vinte Dukakis”.
Quindi, se c’è qualcosa di veramente notevole nell’impresa condotta da McCain in questi mesi, non è certo la mancata elezione, ma semmai il fatto di esserci andato nonostante tutto, così vicino.
Ai primi di settembre la Gallup ha stimato in sei punti percentuali il suo balzo demoscopico dopo la convention di St. Paul, mentre quello di Obama dopo la faraonica convention di Denver era stato di quattro. Non solo: nonostante la convention fosse stata segnata dall’annuncio del ticket con Sarah Palin, McCain l’indomani ha guadagnato consensi non tanto tra gli elettori più conservatori, bensì fra gli elettori indipendenti, fra i quali, sempre secondo la Gallup, è schizzato in testa con un impressionate vantaggio di ben quindici punti. Al contempo, la sua popolarità tra gli elettori democratici che si qualificavano come più centristi è salita al 25%, mentre prima della convention era al 15.
Per un istante, anzi per tutta la prima metà del mese di settembre, il prodigio non è “sembrato” possibile: è stato realmente, oggettivamente, possibile. E a renderlo possibile non è stata né l’efficienza del partito, che non ha mai messo in campo una macchina da guerra paragonabile alla superpotenza di Obama, né lo staff dei consulenti di McCain, che hanno navigato a vista in modo discontinuo e disordinato. Il merito di quella miracolosa rimonta è tutto di John McCain, e questo gli frutta ora lo status di politico forte ed autorevole benché sconfitto.
Anche perché se a metà settembre la rimonta è abortita non lo si deve né a un errore clamoroso suo né ad una geniale contromossa da parte di Obama. Diciamo che è stato un caso fortuito. Ad urne chiuse, lo hanno ammesso un po’ tutti:
Il giorno in cui la Lehman è fallita mi trovavo in compagnia di un amico che lavora per Obama.non ci mise molto a mettere a fuoco cosa stava accadendo. “Terribile per l’America”, disse, “ma grandioso per la nostra campagna elettorale”.
Gideon Rachman, Financial Times, 10 novembre 2008 [Rachman è il caporedazione esteri del FT]
McCain aveva repentinamente invertito la corrente ai primi di settembre. Si era portato in testa immediatamente dopo la convention repubblicana e gli acclamatissimi discorsi di accettazione della candidatura, il suo e quello della sua candidata vice Sarah Palin. A quel punto, McCain aveva provato il suo vantaggio più duraturo: 10 giorni, dal 7 al 16 di settembre. Il suo vantaggio si è interrotto improvvisamente con la crisi di Wall Street di metà settembre.
Dal rapporto finale della Gallup sulle presidenziali 2008
I dati della rilevazione quotidiana di Rasmussen reports sulle presidenziali mostrano che Obama è passato in testa nei 10 giorni successivi al collasso della Lehman Brothers – quando il crollo Wall Street è stato avvertito dall’uomo della strada. Prima di quell’evento, John McCain era avanti di tre punti nel sondaggio nazionale. Dieci giorni dopo, Obama era passato avanti di cinque e non ha più mollato il suo vantaggio.
Scott Rasmussen, Wall Street Journal, 10 novembre 2008Quindi, contrariamente al dilagante luogo comune, la vittoria di Obama è stata sì frutto anche di un’ottima campagna; ma è stata determinata anche, o soprattutto, da una improvvisa fatalità.
E la sconfitta di McCain, contrariamente ai pronostici, è stata determinata più dalla sfortuna che dall’impotenza.
Il che trova riscontro anche nell’entità della vittoria di Obama, e della sconfitta di McCain. Il 44esimo presidente ha vinto con ampio margine grazie al meccanismo del “collegio elettorale”, ma in realtà non in tutti gli stati in bilico che ha “strappato” ai repubblicani ha realizzato una vittoria netta come quella, ad esempio, dello storico ribaltamento in Virginia: in molti casi ha vinto veramente di un soffio (dello 0,4% in North Carolina, dello 0,9% in Indiana, ma anche il 2,5% in Florida è poca cosa se si pensa che Bush nel 2004 aveva vinto il Sunshine State con un margine del 4,2%).
Tutto ciò significa che McCain ha perso “da campione” - presumibilmente molto meglio di quanto avrebbe perso, al posto suo, un Mitt Romney qualunque.
Il primo a dargliene atto è stato proprio Obama, che con
l’incontro di lunedì a Chicago gli ha accreditato (nel proprio interesse, questo è ovvio) un ruolo decisamente inedito per uno sconfitto alle presidenziali.
Se – complice la sua grande esperienza di “pontiere” nei lavori parlamentari al Senato – McCain riuscirà a confermarsi come punto di riferimento del rapporto tra maggioranza e opposizione, forse potrà anche rimanere in gioco come punto di riferimento interno all’area repubblicana, consolidando almeno in parte il ruolo che, per la prima volta in vita sua, ha acquisito quest’anno, prima durante le primarie e poi durante la campagna elettorale, ossia quello di aggregatore della eterogenea area “liberal” del GOP, mettendo assieme gente come Arnold Schwarzenegger, Rudy Giuliani, il governatore della Florida Charlie Crist, quello della Lousiana Bobby Jindal, quello del Minnesota Tim Pawlenty.
Si tratta di una prospettiva alquanto inusuale. Solitamente, se si perde la sfida per la Casa Bianca e non si ha più l’età per riprovarci, si esce di scena e si scivola molto velocemente verso l’oblio. McCain ha ora una chance di dar luogo ad una eccezione a questa regola. Magari non ci riuscirà, magari fra sei mesi o fra un anno tornerà nella norma, e finirà nell’ombra come accadde dodici anni fa al suo amico Bob Dole.
Ma oggi no, non è ancora finita.