giovedì 7 gennaio 2021

IL CONGRESSO


 
È finita, ma è anche appena cominciata.

È finita la via crucis per il riconoscimento definitivo del fatto che ora, dal 20 gennaio, l’inquilino della Casa Bianca sarà Joe Biden. Ma è anche appena iniziata la resa dei conti all’interno dello sconfitto Partito Repubblicano, una delle più accese e cruente della sua storia.

Era pressochè scontato che la votazione dell’Epifania, al Congresso in sessione congiunta, si sarebbe conclusa con la ratifica della vittoria di Biden.

Non era, ovviamente, previsto che la votazione sarebbe stata funestata dagli osceni disordini ai quali abbiamo assistito. Ma era prevedibile che alla fine l’esito sarebbe stato quello che aveva da essere, la consacrazione di Biden come presidente “entrante”.

La vera “conta”, quindi – quella più politicamente rilevante per l’avvenire – riguardava semmai il posizionamento di ogni senatore e di ogni deputato repubblicano rispetto alla linea dettata dal presidente “uscente”.

In questo senso, si è trattato quasi – mi si passi la metafora, e la forzatura – di un congresso di partito: di quelli un tempo usuali da questa parte dell’Atlantico.

Da un lato c’era una “Mozione McConnell”, presentata da quello che sino a ieri era il leader della maggioranza, e da oggi è il leader della minoranza al Senato, ma anche di fatto il leader del partito: la mozione consisteva, semplicemente, nell’invito a votare in modo “normale”, prendendo atto dell’avvenuta sconfitta di Trump e accettando la transizione verso la Presidenza Biden.

Dall’altro lato si contrapponeva la mozione presentata dal Senatore del Texas Ted Cruz, dal giovane senatore del Missouri Josh Hawley e da altri 10 (ai quali aveva aderito in extremis anche il senatore della Florida Rick Scott, e con lui facevano 13), che sfidava invece a votare, in modo “scandaloso”, per un improbabile rinvio del riconoscimento della sconfitta di Trump, istituendo invece, prima, una commissione di inchiesta sugli asseriti brogli elettorali che quest’ultimo non ha mai smesso di denunciare e lamentare (pur avendo perduto dozzine di cause in tribunale sul tema).

Probabilmente è anche per questo che i repubblicani avevano perso, il giorno prima, il ballottaggio in Georgia (e con esso la maggioranza al Senato): essendo troppo divisi per vincere. Spaccati, per l’appunto, fra la fazione degli ex/post trumpiani, decisi a voltare pagina liquidando l’influenza che il presidente sconfitto ancora esercita sul partito oltre che sulla sua base elettorale, e gli irredentisti trumpiani a oltranza, disposti invece a inscenare una (almeno apparente…) fedeltà alla narrazione della elezione usurpata/rubata, pur di mettersi nella scia di un Trump nonostante tutto ancora popolarissimo (ha pur sempre appena preso più di 74 milioni di voti, divenendo il secondo candidato più votato della storia dopo Biden nonché lo sconfitto più votato della storia).

Il voto al Congresso sulla certificazione della vittoria di Biden aveva questo senso: tiriamo una riga, e vediamo chi (e quanti) stanno di qua o di là.

Non è una cosa normale: di solito lo sconfitto alle presidenziali americane scivola nell’ombra, e cessa di esercitare una leadership.

Ma Trump, si sa, è una anomalia vivente, campa proprio del fatto di contravvenire a tutte le consuetudini; e inoltre nessuno è disposto a credere che nel 2024 Biden, a 84 anni suonati, si potrà candidare per quel secondo mandato che normalmente sarebbe fisiologico – ragion per cui la leadership repubblicana nel futuro prossimo fa più gola di quel che accadrebbe usualmente –.

Il drappello dei “boia chi molla” trumpiani, come detto, era costituito da 13 senatori: Ted Cruz del Texas, Josh Hawley del Missouri, Marsha Blackburn del Tennessee, Mike Braun dell’Indiana, Steve Daines del Montana, Ron Johnson del Wisconsin, John Kennedy della Lousiana, James Lankford dell’Oklahoma, Bill Hagerty del Tennessee, Cynthia Lummis del Wyoming, Roger Marshall del Kansas, Tommy Tuberville dell’Alabama e Rick Scott della Florida. Ci sarebbero stati anche i due della Georgia, Perdue e Loeffler, ma per l’appunto non sono stati eletti, nonostante l’appoggio di Trump e la loro adesione alla “corrente” dei trumpiani a oltranza.

La scommessa era evidente: 13 senatori non erano molti, solo un quarto del gruppo parlamentare repubblicano al senato; ma se altri senatori, pur non avendolo preannunciato, avessero aderito, portando il marchio della “fazione trumpiana” almeno verso la ventina (su 49), Trump avrebbe dimostrato di avere ancora in pugno se non il partito, almeno una importante porzione di esso.

A futura memoria, quindi, scorriamoli i verbali di questo “congresso di partito”: il futuro dell’America, e quindi in qualche modo di tutto l’Occidente, si giocherà anche su questi dettagli.

Il voto divisivo è stato duplice: una prima volta sul risultato elettorale dell’Arizona, e una seconda su quello della Pennsylvania. Non sapremo mai come sarebbe andata se la votazione si fosse svolta in circostanze ordinarie, anziché nel bel mezzo del dramma dello sconcertante ”assalto al Congresso” da parte di centinaia di fan di Trump inferociti; fatto sta che è andata come è andata, e il  Senato ha respinto 93 a 6 la “Mozione Cruz” sull’Arizona, e 92 a 7 quella sulla Pennsylvania.

Decisamente un flop per la fazione dei trumpiani ad oltranza: hanno finito per defezionare persino 8 dei 13 senatori proponenti (Marsha Blackburn e Bill Hagerty – quindi entrambi i senatori del Tennessee – Mike Braun, Steve Daines, Ron Johnson, James Lankford, Cinthya Lummis e Tim Scott).

Se sulla Pennsylvania i voti per la “mozione Cruz” sono stati 6 e non 5 è solo perchè s’è aggiunta “a sorpresa” la senatrice Cindy Hyde-Smith del Mississippi.

Il Congresso era però in sessione congiunta: dopo il Senato votava la Camera, e lì si è visto tutto un altro film. I deputati sono un’altra razza, diciamo pure truppe meno scelte, meno aristocratici dei senatori; e soprattutto, alla Camera i Repubblicani sono in minoranza più netta (anche se non particolarmente esigua), e votando dopo il Senato sapevano benissimo di votare una mozione tecnicamente già bocciata, senza quindi alcuna concreta responsabilità. Com’è come non è, i repubblicani alla Camera sono apparsi essere un partito completamente diverso da quello del Senato: la “Mozione Cruz” è stata sì respinta anche lì, ma 303 a 121 sull’Arizona, e a 138 sulla Pennsylvania.

Poiché i repubblicani alla Camera sono 204, significa che in questo caso hanno prevalso i “trumpiani a oltranza”: 121 contro 83 nel voto sull’Arizona, e Quindi 138 contro 66 in quello sulla Pennsylvania.

La fazione ex/post/anti trumpiana, capitanata da Mitch McConnell, appare quindi avere in pugno il partito al Senato (che è la cosa più importante), ma risulta in netta minoranza alla Camera.

Al Senato con McConnell si sono schierati, oltre ovviamente a quei pochi senatori che non avevano mai accettato la leadership di Trump (Mitt Romney, Pat Toomey, Lisa Murkowski, Susan Collins), anche moltissimi che invece l’avevano lungamente assecondata: da Tom Cotton dell’Arkansas (l’autore di quel corsivo che chiedeva l’intervento dell’esercito contro i disordini dei movimenti “antifa” e “Black Lives Matter”, la cui pubblicazione sul New York Times a giugno era stata fonte di incredibili psicodrammi), a Tim Scott della South Carolina, importante punto di riferimento per gli afroamericani nel Grand Old Party, a quel Lindsey Graham che da presidente della Commissione Giustizia aveva lungamente collaborato con la Casa Bianca trumpiana anche per la conferma delle nomine alla Corte Suprema; e ancora Thom Tillis della North Carolina, John Cornyne, l’altro texano al Senato oltre a Cruz, Ben Sasse del Nebraska (che come Cruz era emerso cavalcando i “Tea Party”), Todd Young dell’Indiana, Rob Portman dell’Ohio, Roger Wicker del Mississippi…

Alla Camera si è invece schierato con la fazione trumpiana lo stesso capogruppo, Kevin McCarthy, e con lui oltre il 60% dei deputati repubblicani, tra i quali Paul Gosar dell’Arizona il quale ha provocato, associandosi a Cruz, il voto sulla certificazione dei voti elettorali del suo Stato.

Nella minoranza anti/post/ex trumpiana rientra invece Liz Cheney, figlia del Dick che fu vicepresidente accanto a George W. di Bush e che è la “House Conference Chair” del partito. Nella delegazione più grande, quella texana, solo 6 deputati contro 16 si sono schierati con lei: tra questi il neorieletto Dan Crenshaw, unico texano ad aver preso la parola alla convention nazionale del partito tenutasi a Charlotte, in North Carolina, ad Agosto.


Una considerazione a parte merita, infine, la posizione del vicepresidente uscente degli Stati Uniti, Mike Pence, che era chiamato a presiedere i lavori del Congresso in sessione congiunta.

In questi quattro anni Pence è stato al fianco di Trump silenziosamente ma lealmente, e fino a poche settimane fa non si sarebbe faticato a immaginarlo fra coloro disposti a “mettersi nella sua scia” anche dopo la sconfitta elettorale.

E invece, alla fine qualcosa si è rotto: Trump gli ha chiesto un gesto di fedeltà a dir poco estremo, addirittura rifiutarsi di mettere ai voti la vittoria di Biden in alcuni Stati contestati, e lo ha fatto anche pubblicamente (su Twitter) per ben tre volte nelle ultime 24 ore prima del voto; lui si è negato, fin lì non si poteva spingere. Ed è stato ripagato da Trump con una pubblica accusa di codardia (e in buona sostanza di tradimento).

Questo “congresso di partito”, insomma, la fazione ex/post/anti trumpiana, capitanata da McConnell, lo ha chiaramente vinto; ma la fazione “trumpiana a oltranza”, seppure sconfitta, non è certo annientata. Il percorso per la “de-trumpizzazione” della destra americana è appena iniziato, e non sarà né breve né semplice.

Uscito su Heraldo

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