giovedì 29 settembre 2011

ECCE BOMBO


"No, allora non mi candido.
Che dite, mi candido?
Mi si nota di più se aspetto ma faccio capire che forse sarei disponibile a candidarmi, o se non mi candido per niente?
Faccio un comizio. Faccio un comizio e mi faccio vedere, così, come se avessi deciso di candidarmi, su Fox News, in diretta dalla Reagan Library. Voi mi fate "Chris vieni candidati con gli altri, dai"; ed io: "lasciate, lasciate che vadano avanti loro, io magari li raggiungo dopo".
Mi candido, ci vediamo in New Hampshire.
No, non mi va, non mi candido - no".
Non ho resistito alla tentazione di parafrasare Nanni Moretti di fronte alla pantomima inscenata dal carismatico governatore "extralarge" del New Jersey Chris Christie, il quale ha volutamente riattizzato, con il suo comizio dell'altra sera alla Reagan Library, la leggenda di un suo ingresso più che tardivo nelle primarie repubblicane.
Un teatrino, della serie "ho-detto-che-non-mi-candido-ma-chiedetemolo-ancora-che-non-si-sa-mai", con il quale Christie non si limita a coltivare saggiamente la propria popolarità e visibilità.
E' vero che quanto a "stile", il governatore dello Stato natìo di Bruce Springsteen (di cui è un appassionato fan) è decisamente antitetico a Romney, e simile a Perry: pane al pane e vino al vino, ruvido quando serve, abbastanza schietto e diretto da apparire sempre sincero, energico e positivo ma anche ragionevolmente aggressivo perché passionale.
Ed è anche vero che sta tanto simpatico ai Tea Party, e a tribuni ultraconservatori come Rush Limbaugh ed Ann Coulter, non lo deve solo a questo: c'è anche della sostanza, la sua battaglia per tagliare la spesa di uno Stato devastato dal deficit, e la sua battaglia reaganiana contro i sindacati.
Ma nonostante queste battaglie, ed anzi a maggior ragione per controbilanciarle, egli rimane pur sempre - come fu Romney, ed al contrario di Perry - il governatore repubblicano di un feudo democratico, e quindi nel complesso la sua linea politica (sulla diffusione delle armi, sui diritti delle coppie gay, sull'immigrazione...) è quella di un moderato, di un centrista e di un pragmatico. Se si trascura questo fatto, ci si espone ad infiniti equivoci.
 
Il sondaggio più negativo per Rick Perry tra quelli pubblicati dopo la sua discesa in campo, ossia quello di FoxNews condotto dopo lo stallo dell'ultimo dibattito in Florida ed uscito poche ore fa, dice che da agosto Perry sarebbe crollato di dieci punti percentuali; ma dice anche che, nonostante ciò, Romney sarebbe cresciuto di un solo punto. Niente vasi comunicanti, quindi: i delusi dalla performanche di Perry votano piuttosto per personaggi come Herman Cain (uscito eccentricamente vincitore dallo strawpoll di Orlando), o Newt Gingrich. Di adattarsi a Romney proprio non ne vogliono sapere.
Ma non è solo alla "base" che Romney non va giù. Oggi il New York Times racconta che la ingombrante presenza di Christie a bordocampo, suscitando aspettative di una candidatura establishmentarian più appetibile, sta trattenendo importanti finanziatori repubblicani dal firmare assegni per la campagna di Romney E ieri lo stesso quotidiano riferiva di un gruppo di pezzi grossi intenti a finanziare la "mossa" di Christie.
Se a questo aggiungiamo i ragionamenti che Andrea Salvadore ha egregiamente sintetizzato sul contributo di un protagonista dell'establishment repubblicano come il boss di Fox News Richard Ailes, il quadro è abbastanza chiaro: Christie non si candiderà, ma il suo protagonismo è un diversivo che nuoce soprattutto a Romney, e rivela la fragilità della sua candidatura (considerato che essa è nata un secolo prima di quella di Perry).

martedì 27 settembre 2011

VOODOO 2012 / 4: RICK PERRY COME BARRY GOLDWATER?


Il pezzo della settimana è senza dubbio quello di Frank Rich uscito domenica sul sito del New York Magazine. Merita, non tanto per la tirata "contro la bipartisanship", quanto per la apocalittica profezia sulle prossime elezioni: 

"Perry non è una faccenda della serie "lo svitato del giorno", tipo Michele Bachmann. E' un affare molto serio. Non è inverosimile che possa vincere la candidatura del suo partito e vincere in abbastanza Stati di quelli che ogni volta fanno da ago della bilancia con conteggio al cardiopalma da strappare la presidenza.
Ce la può fare, perché la congiuntura che viviamo è quella giusta per un politico come lui. Un Paese disperato ed arrabbiato ha di fronte una recessione "double dip" ed ha zero prospettive di ricevere aiuto da una Washington ormai defunta.
Tra i candidati in lizza, Perry è l'unico candidato efficace - stando al suo curriculum di governatore abile nell'organizzazione e nella raccolta di finanziamenti, ai suoi sondaggi e elle sue elezioni vinte senza fare prigionieri - che affermi da "falco" una alternativa senza mezzi termini a questo fallimenare status quo.  [...]
Che Perry ce la faccia o no a centrare la posta in gioco finale, può comunque provocare uno shock al sistema paragonabile a quello di Barry Goldwater* nel 1964 - e sottovalutato quanto lo fu allora quello di Goldwater.
Nel suo capolavoro Before the Storm (2001) sulle origini e il trionfo della rivoluzione conservatrice, Rick Perlstein ricorda come all'epoca i grandi esperti di Washington pensavano che la sconfitta disastrosa di Goldwater avesse segnato la fine del suo movimento. James Reston, l'editorialista principe del New York Times, parlò a nome di tutti loro quando decretò che Goldwater aveva "mandato fuori strada il suo partito per un lungo tempo a venire, e non pare nemmeno che sapranno anche solo gestire l'uscita di strada". Ma come nota Perlstein, "in esito alle elezioni immediatamente successive, appena un paio d'anni dopo, i conservatori dominavano già il Congresso al punto tale che Lyndon Johnson non era nemmeno in grado di far stanziare i fondi per la derattizzazioni dei bassifondi". Quei prematuri necrologi per la destra, secondo Perlstein, rappresentarono "uno dei più gravi casi di errore di valutazione collettivo nella storia del giornalismo americano".
Quello che i giornalisti, da dentro la loro "bolla" di Washington, non seppero vedere era che il consenso trasversale a livello nazionale per la centralità dell'intervento statale - che aveva retto attraverso le amministrazioni Roosevelt, Truman, Eisenhower, Kennedy e Johnson  - era kaputt. La Reagan revolution era lì dietro le quinte pronta ad entrare in scena.
Se Perry riesce ad ottenere la candidatura vincendo le primarie, può anche darsi che poi alle elezioni generali finisca a gambe all'aria, come Goldwater. E' questo il pronostico di tutti i Reston d'oggi. Ma potrebbe anche non andare così. Perry avrebbe da sfruttare lo scenario di una economia disastrata, al contrario di Goldwater che si candidò in tempi di boom con la disoccupazione inferiore al 6% e il PIL al 5,8 da un anno. Quale che sia il destino elettorale di Perry nel 2012, la sua ascesa-lampo è la prova definitiva, ove mai ve ne fosse bisogno in tempi in cui il Partito Repubblicano ruota attorno ai Tea Party, del fatto che oggi in America il consenso trasversale è impraticabile, così come lo era nel 1964".
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[*] Nota per i neofiti: Barry Goldwater, senatore dell'Arizona "a vita" da quando l'Arizona divenne uno Stato (alla sua morte gli succedette John McCain), fu lo sfidante repubblicano alle presidenziali del  1964, protagonista di un assalto alla baionetta contro il welfarismo kennedyano. Vinse le primarie repubblicane contro il governatore di New York, l'aristocratico ipercentrista Nelson Rockefeller, anche grazie ad un carisma condito di citazioni ad effetto (clebre il suo discorso di accettazione della candidatura, in cui, parafrasando Cicerone, proclamò: "vi ricordo che l'estremismo nella difesa della libertà non è un vizio, e la moderazione nella ricerca della giustizia non è una virtù"). L'elezione contro Lyndon Johnson la straperse, ce la fece solo in sei Stati su cinquanta e tutti marginali: un record negativo nella storia delle presidenziali. Ma al contempo gettò le basi di quell’alleanza anticomunista tra la destra “religiosa” e i libertari antistatalisti che costituì, con sedici anni di anticipo, la premessa della rimonta della quale si sarebbe reso protagonista, una generazione dopo, Ronald Reagan - il quale non a caso aveva esordito come militante repubblicano proprio nella campagna per Goldwater. Il commentatore del Washington Post George Will ha riassunto il concetto meglio di chiunque altro: «Goldwater le vinse le elezioni del 1964. Solo che ci vollero sedici anni per contare i voti».

sabato 24 settembre 2011

QUANDO C'ERA LUI


Di sondaggi nefasti negli ultimi mesi Barack Obama ne ha dovuti ingoiare parecchi, ma quello divulgato ieri dalla Gallup in un certo senso è il più amaro di tutti: alla domanda "pensi che Barack Obama sia stato un presidente migliore, più o meno uguale, o peggiore di Bill Clinton?" il 50% degli intervistati ha risposto "peggiore", il 35% "più o meno uguale" ed appena un misero, imbarazzante 12% - dicesi: do-di-ci-per-cen-to - "migliore".
Un giudizio decisamente umiliante per almeno un paio di ragioni: una è che Bill prima di essere il marito del Segretario di Stato dell'amministrazione Obama era stato il marito/socio della strenua avversaria di Obama alle primarie, picchiando duro come solo lui sa fare e lasciando trapelare un viscerale disprezzo verso il "pivello" di Chicago (memorabile la battuta, spifferata dai retroscenisti del bestseller "Game Change", "quel ragazzino qualche anno fa ci avrebbe servito il caffé"). La vittoria alle primarie del 2008 aveva consacrato Obama come "rottamatore" del clintonismo inteso come corrotto ed obsoleto ancien régime del Partito Democratico: tutta questa nostalgia sa di ripensamento per la base, di rivincita per il fu detronizzato Bill, e di sconfessamento per Obama.

L'altro risvolto che contribuisce ad acuire la tossicità di questo sondaggio è rappresentato dal fatto che il vecchio Bill sta per uscire con un libro, dal titolo "Back to Work", in cui spiega come fare ciò che apparentemente Obama non sta riuscendo a fare, ossia far ripartire l'economia e l'occupazione. Il contenuto grosso modo è già noto, perché presumibilmente sarà quello che era sintetizzato in un lungo intervento di Clinton su Newsweek tre mesi fa. Guarda caso, il 42esimo presidente si troverà a girare l'America illustrando il suo piano proprio negli stessi mesi in cui il 44esimo starà facendo altrettanto per illustrare il suo agli elettori.

E non è finita; il sondaggio Gallup è stato formulato anche ponendo l'alternativa fra Obama e George W. Bush. Risultato: l'attuale presidente sarebbe "migliore" del suo predecessore solo per il 43% degli intervistati, "più o meno uguale" per il 22% e "peggiore" per il 34%. Se si pensa che quando W. uscì di scena il 34% era grossomodo il suo tasso di popolarità, anche questo è un bello smacco.

venerdì 23 settembre 2011

IL DUELLO - INTERVALLO


Andrea Salvadore, immolandosi eroicamente, ieri sera ha rinunciato alla prima puntata del nuovo serial di J.J Abrams per sciropparsi il terzo dibattito delle pre-primarie repubblicane - quello di Orlando - e conferma l'impressione di "un duello Perry-Romney con una serie di irrilevanti valletti", anche se a lui non gli piace o' presepe (donde una coda sulle leggende di interventi ulteriori a primarie già iniziate, leggetela pure ma non credeteci, not gonna happen).
Anche su Nomfup troviamo conferma di un gioco ormai definitamente assestato in termini di "duello", anzi di "derby", con Hunstman relegato al frustrante ruolo di "testimone involontario" e la Bachmann sostanzialmente sparita (gli altri non pervenuti).
Tra i commentatori d'oltreoceano, stessa conferma: è una corsa a due, come qui avete potuto leggere e rileggere fin dal principio di questa stagione di dibattiti post-estivi.

Per il resto, non c'è che da prendere atto dell'esaurimento di questa primissima fase: Perry è frontrunner in tutti i sondaggi nazionali ma ha anche smesso di crescere, si è assestato e presto, se non vuole cominciare a calare, dovrà decidersi a scrivere il secondo capitolo di questa storia apertasi con il suo "botto" estivo; Romney, dal canto suo, continua ad essere molto più bravo di lui nei dibattiti ma questo, giustamente, non gli sta bastando, perché anche lui è fermo al suo personaggio iniziale, quello del candidato abbastanza asettico da evitare cazzate e vincere per inerzia grazie alla crisi di rigetto nei confronti di Obama.
Per questo motivo, e non per inettitudine dei candidati, il dabattito si sta facendo noioso, ripetitivo - sempre gli stessi battibecchi sui soliti quattro argomenti.

Quelli di The Politico, che nei confronti di Perry si sono mostrati sin da principio tutt'altro che simpatizzanti, oggi propongono un pastone di commenti di addetti ai lavori del tipo comincia a deludere, non è all'altezza, è impreparato, ecc. Un giudizio più equilibrato è quello di Michael Barone: evidenzia il divide tra uno come Perry che sta affrontando la sua prima campagna fuori dai confini del Texas e per di più essendoci entrato in extremis, e uno come Romney che non fa altro da quattro anni e quindi dibattiti come questo se li spara "con il pilota automatico".
Ne riparleremo fra almeno una settimana sondaggi alla mano; il punto, secono me, è però un altro.
La mia modestissima opinione è che in un futuro non remoto uno dei due dovrà decidersi a sganciarsi dalla narrativa tutta rabbia-frustrazione-paura-protesta e lanciare una campagna autenticamente reaganiana, cioé positiva, intrisa di fiducia e ottimismo.
Il prossimo dibattito è l'11 ottobre in New Hampshire: il tempo non manca, e il luogo sarebbe perfetto.
"Morning in America", l'ho detto e lo ripeto.
Per spiegarmi meglio, suggerisco la visione dello spot che ieri mattina Perry ha lanciato sul web in vista del dibattito

e di quello che sempre ieri mattina è stato lanciato Romney

a confronto con quella del mitico spot che riassumeva l'essenza della campagna Reagan 1984:


Ho reso l'idea?

giovedì 22 settembre 2011

ANCORA IN FLORIDA

Alla fine è sempre sulla Florida che si va a parare. Non è un caso se il terzo dibattito delle pre-primarie repubblicane, in programma per stasera ad Orlando con la regìa di Fox News in collaborazione con Google, si terrà li, come il precedente di dieci giorni fa - unico caso di due dibattiti consecutivi in uno statto Stato.

Il Sunshine State, che ospiterà anche la convention estiva che incoronerà il vincitore, è infatti notoriamente lo swing-state numero uno, per popolazione e quindi per numero di grandi elettori che manda al collegio elettorale (da quasi un secolo a questa parte nessuno è diventato presidente senza vincere in quello Stato - se non ci ceredete chiedete agli avvocati di George W. Bush e a quelli di Al Gore), ma anche per composizione strategica dei gruppi che ne compongono l'elettorato.

Innanzitutto la comunità ebraica, che lì è molto numerosa - la concentrazione in quello Stato e in quello di New York è una delle ragioni per cui i sette milioni di ebrei americani, pur rappresentando solo il 2,5% della popolazione nazionale, sono uno dei gruppi chiave per aggiudicarsi la Casa Bianca.
In Florida l'elettorato ebraico ha tradizionalmente una inclinazione a votare per i democratici, essendo diretta derivazione di quella newyorkese e comunque non diverso dall'elettorato ebraico-americano in genere, che nel 2008 votò all’82% per Obama (nel 2004 aveva votato per Kerry al 77%); ma di questi tempi la "relazione complicata" tra la Casa Bianca e il governo israeliano lo fanno apparire agli occhi degli aspiranti sfidanti repubblicani come un terreno di caccia lussureggiante.

Poi ci sono i latinoamericani, che invece in Florida sono un gruppo piuttosto eccentrico perché composto in gran parte da cubani (esuli, si diceva un tempo; oggi più che altro figli o nipoti di) ed in secondo luogo da portoricani: due gruppi che, a differenza dei messicani che a livello nazionale rappresentano la stragrande maggioranza dei latinos, tendono a non essere troppo sensibili ai problemi dell'immigrazione, i primi perché più interessati alle questioni di "sicurezza nazionale" (non a caso la superstar cubanoamericana del momento, Marco Rubio, è un repubblicano che studia da esperto di politica estera in salsa neoconservatrice), i secondi perché tutti cittadini americani dalla nascita.

A quei due gruppi etnici se ne aggiunge uno, non meno strategico, anagrafico: gli anziani, perché la Florida, con il suo clima subtropicale, è da decenni la casa di riposo d'America - lo Stato in cui ritirarsi negli anni della pensione, a curarsi i reumi con le sabbiature e ad ammazzare il tempo con i molti svaghi balneari e non. L'elettorato senior è una delle componenti più impoirtanti dello zoccolo duro repubblicano, e la questione delle pensioni in tempi di ristrettezze economiche è a dir poco scottante, come si è già visto anche nei precedenti dibattiti di queste primarie repubblicane.

Poi il discorso andrebbe differenziato sul territorio, con il nordovest dello Stato molto più conservatore, omogeneo al confinate Alabama, il centro e la costa a nord di di Miami più liberal, perché popolati per lo più da pensionati provenienti da New York o dal Midwest, e l'estremo sud nuovamente conservatore per via dell'altissima concentrazione di cubanoamericani.

A tutte queste considerazioni legate all'elezione generale dell'anno prossimo, se ne aggiunge una che invece nasce dal quadro delle primarie così come lo vediamo in questi primi giorni di ottobre. I sondaggi attuali ci parlano di una corsa a due tra Rick Perry e Mitt Romney. L'anno prissimo i primi Stati a tenere le primarie saranno l'Iowa, la South Carolina, il Nevada e il New Hampshire. Se, come ora pare assai probabile, Perry si aggiudicherà i primi due e Romney vincerà a man bassanegli altri due, si arriverà in condizione di sostanziale parità al voto nel quinto, che è appunto la Florida (per la data si parla del 21 febbraio). In questo caso il Sunshine State si troverebbe a fare da ago della bilancia una volta di più. Oggi come oggi i sondaggi danno anche lì sfavorito Romney, che già alle primarie del 2008 proprio in Florida dovette dire addio ai sogni di gloria. Quest'anno la partita sarà più complessa perché la Florida è uno dei tanti stati in cui il partito ha optato per il passaggio dal voto winner-take-all al proporzionale. Ma su questo ci sarà occasione di tornare.

mercoledì 21 settembre 2011

HOOVER SECONDO EASTWOOD



In arrivo il prossimo film di Clint Eastwood, che come regista ultimamente non ne sbaglia una (e pensare che c’ha ottant’anni suonati). Questo in uscita – qui sopra il trailer, appena uscito – sarà probabilmente il film più “politico” che il vecchio Clint (il quale con l’occasione ha ribadito di essere un libertarian alla Ron Paul) abbia mai girato: una biografia di Hoover.
Inteso non come l’Herbert Hoover sfortunatissimo presidente USA in carica quando deflagrò la mitica Grande Depressione del 1929 (ed ovviamente travolto dalla stessa) cui ciclicamente capita di veder paragonare il suo attuale successore (cito, anzi linko a caso un pezzo uscito su Harper’s Magazine nel primo anno dell’Era Obama, uno coevo di Christian Rocca per Il Foglio, uno del New Republic dell’anno scorso a firma del direttore John Judis, ed un lungo post pubblicato quest’anno dallo storico Walter Russel Mead sul suo blog nel sito di The American Interest), bensì del John Edgar Hoover, non parente, potentissimo capo dell’FBI a vita, dalla fondazione del Bureau nel 1924 per ben mezzo secolo, fino alla morte nel 1972 (!).
La storia di Edgar Hoover è una grossa fetta della storia dell'America del Novecento, poiché da quella particolare postazione egli ha attraversato da protagonista tutta l’era di Roosevelt, poi tutta quella di Eisenhower e di Truman, quindi tutta quella di Kennedy, e infine buona parte di quella di Nixon, uscendo di scena subito prima dello scoppio dello scandalo Watergate - non senza aver combattuto contro la mafia di Chicago, il Ku Klux Klan, le Black Panthers, le spie comuniste della Guerra Fredda e praticamente ogni altra entità “sovversiva” che abbia fatto capolino nell’America del Novecento.
Protagonista del film (che inizialmente doveva intitolarsi Hoover ma poi, a scanso di equivoci, è stato opportunamente re intitolato J. Edgar) sarà Leonardo Di Caprio, che per l’occasione avrà dovuto passare da un lungo trucco per abbruttirsi.
Le prime indiscrezioni si sono inevitabilmente concentrate sul fatto che il film racconterà anche la lungamente celata omosessualità del “padre” dell’FBI.
Ne sentirete molto parlare, contateci.

venerdì 16 settembre 2011

L'ANTIDOTO

Quella qui sopra è la copertina del nuovo numero di TIME in edicola oggi. Contiene una lunga dissertazione sul personaggio, della sua storia e del suo futuro, nonché un'intervista esclusiva rilasciata tre giorni fa dal governatore del Texas al famigerato Mark Halperin e al direttore Rick Stengel, che ci ha fatto su anche il suo editoriale. Sul sito della rivista ci si può financo deliziare con un patinato retroscena su come gli hanno scattato la fotografia.
Ove mai ce ne fosse stato bisogno, è una conferma del fatto che, ad appena un mese dalla sua discesa in campo, Rick Perry è l'uomo del momento, il personaggio attorno al quale ruota il grande show della politica a stelle e strisce. Magli articoli di questo TIME, francamente, non sono memorabili; piuttosto, se davvero si vuole capirne di più (in un certo senso: se davvero si vuol capire perché oggi Perry è sulla copertina di TIME) conviene per una volta leggere un pezzo nostrano, quello del sempre ispirato Stefano Pistolini che il Foglio ha pubblicato mercoledì.
Alcuni estratti:
"Rick Perry “è” il candidato: Romney istantaneamente si riduce a sparring partner. Lo scontro fatale a cui l’America ora si prepara è quello tra due visioni del mondo opposte, con Obama e Perry degnamente agli antipodi. [...]
Candidato perforabile, attaccabile. Pieno di incongruenze, contraddizioni, inciampi: da mal di testa per le teste d’uovo che credono nella possibilità d’assemblare il tipo-alpha per la Casa Bianca. Ma anche colui che rende superflui simili esperimenti. [...]
E' così che nasce un candidato forte, ben prima dei suoi argomenti e dello screening della sua biografia. E' cos' che si conquista il mandato per il tentativo dei tentativi - prendere in mano il destino della nazione. Seguiranno gli esami, arriveranno i capi d'accusa, sarà necessario spalmare la credibilità su una piattaforma reale: ma è in quel momento, tutto emotivo, consumato nel giro di pochi giorni, come ogni colpo di fulmine che si rispetti, è lì che scocca la scintilla tra il cuore-pensiero di metà nazione e il suo improvviso beniamino. Il resto saranno aggiustamenti: ma c’è da scommettere che milioni di quei voti – se arriverà in fondo – Perry li ha già conquistati e difficilmente li perderà. Perché l’alternativa è Mitt Romney e quella di Romney è un’America che interessa a una minoranza del paese. [...]
Non è difficile ricordare cosa accadde nell’anno 2008 allo sfavorito Barack Obama, nero e di middle name Hussein, con tanti coni d’ombra nella sua storia. Vinse il mandato emotivamente, pronunciando slogan e promesse, incarnando una positività presidenziale, che nel suo caso rasentò la mistica. Gli argomenti, arrivati a rimorchio nei mesi successivi, non avrebbero modificato quel formidabile atto d’amore. Se solo, poi, non fossero trascorsi quattro anni di sostanziali insuccessi, giocati tutti in difesa, a resistere, a mettere pezze, a tentare sortire riformistiche, dotate di senno, ma non di tempismo. L’Obama ai minimi storici di popolarità verso cui rivolge i suoi eserciti il candidato repubblicano del 2012 è un candidato battibile. A patto di rappresentarne l’antidoto, di porsi come incarnazione del la ripartenza, l’alternativa secca, lo U-turn. Si cambia, a ritroso ma con forza, perché soltanto con forza l’America può tentare la risalita. [...]
L’altra America, quella “vino, formaggio e Jonathan Franzen”, ha smesso di dire che Perry è l’avversario augurabile, in quanto battibile. Il texano potrebbe diventare il loro incubo".

Neanche due settimane fa, scrivevo che l'elezione del 2012 somiglierà a quella del 1979, nel senso che si giocherà sulla delusione nei confronti di un presidente democratico eletto per voltare pagina rispetto ad un ciclo repubblicano impopolarissimo e non mostratosi in grado di far partire un nuovo ciclo, e sulla voglia di ritrovare un leader in grado di reagire e rimettere in moto le cose.
Forse non dovrò rimangiarmelo, quel pronostico. 

mercoledì 14 settembre 2011

LOSING NEW YORK NEVER EASY

Certo, il nono collegio congressuale di New York - che comprende parte di Brooklyn e del Queens - non è uno dei più progressisti della Grande Mela; ma è pur sempre uno dei tanti in cui i Democratici newyorkesi tradizionalmente hanno sempre vinto - magari di poco, ma sempre - negli ultimi 90 anni (dico: 90 anni, si risale a prima della Grande Depressione).
La sconfitta del candidato democratico alle suppletive di ieri, indette per riassegnare il seggio alla Camera lasciato vacante da Anthony Weiner (quello che si era dimesso per essere stato pizzicato a fare lo sporcaccione su Twitter), è quindi un fatto carico di significato simbolico. Il partito di Obama sconfitto da un Carneade qualunque proprio lì, "in casa", in quella che si era confermata una delle sue ultime roccaforti anche nella malasorte delle ultime midterm - in quell'occasione Weiner aveva vinto in quel collegio di ben 20 (dico: 20) punti percentuali - e che pochi mesi fa aveva fatto sognare l'America liberal introducendo i matrimoni omosessuali e proiettando sulla ribalta nazionale il governatore Andrew Cuomo, prontamente ed incautamente insignito dai media del prematuro ruolo di potenziale successore di Obama.
Viene in mente il precedente del gennaio 2010, quando la disfatta in un'altra elezione suppletiva e in un'altra roccaforte demoratica, il Massachusetts (allora si riassegnava il seggio senatoriale dello scomparso Ted Kennedy), protagonista anche in quel caso uno sfidante repubblicano semisconosciuto votato per protesta, segnò l'inizio del lungo inverno che il 44esimo presidente sta attraversando.
La settimana scorsa Lexington sull'Economist descriveva una sensazione diffusa di "sprofondamento in una spirale infernale alla Jimmy Carter" (chi mi legge sa bene di che si tratta). Stanotte il barometro della Casa Bianca ha registrato un ulteriore peggioramento, mentre tra le fila dei repubblicani sta montando una baldanza per farsi un'idea della quale basta leggere il dispaccio euforico che stamattina Bill Kristol ha inviato "da Manhattan, ma con il cuore dell'altra parte del ponte di Brooklyn", emblematicamente intitolato "New York, New York!" come quella vecchia canzone il cui verso più celebre, non a caso, recita: "se ce la puoi fare qui / ce la puoi fare dappertutto".

martedì 13 settembre 2011

IL DUELLO - PARTE SECONDA


Molti dicono che stavolta ha vinto Perry, per svariati altri Romney si e' confermato il più bravo; la verita' e' che l'unita' di misura dell'esito di un dibattito elettorale - e questi delle primarie repubblicane non fanno eccezione - sono i sondaggi che escono poi. Quindi ciò che sappiamo davvero è chi ha vinto il precedente, quello californiano. Ce lo ha detto ieri la stessa CNN, divulgando un sondaggio che vede Perry saldamente in testa con il 32%, Romney staccatissimo al 21, Ron Paul al 12 e tutti gli altri - Bachmann compresa - sotto il 10.

Quello svoltosi ieri a Tampa, in Florida, sede della convention repubblicana dell'anno prossimo, targato CNN + Tea Party Express, per ora ci ha dato una netta conferma del fatto che i veri contendenti sono solo due, Perry e Romney.
Tutti gli altri sono sempre più miniaturizzati, da Herman Cain che pare sempre più intento a portare avanti "la sua candidatura a ministro del commercio" (Mark McKinnon) a Newt Gingrich "rimasto in gara solo per vendere libri", e alla stessa Bachmann "svuotata di argomenti dalla scesa in campo di Perry" (Andrea Salvadore). Per non parlare della improbabile candidatura di Jon Huntsman, ridotta ormai a puro cazzeggio (l'ex ambasciatore riesce a risultare élitario persino quando fa il rockettaro: non so quanti abbiano potuto cogliere il senso del suo sfottò a Romney quando si è chiesto se il suo libro-manifesto sia stato scritto da Kurt Cobain perché si intitola "No Apology" - oltretutto ha toppato pure lì, perché in realtà il pezzo dei Nirvana si intitolava "All Apologies").

A questo punto, consolidato l'assetto "Romney contro Perry" con il governatore del Texas indiscusso frontrunner, la vera incognita e' se il duello combacerà con lo scontro in atto da tempo tra il vecchio establishment repubblicano e la base incazzata tè-pubblicana.
Ieri mattina si sarebbe detto di sì, allorché Tim Pawlenty, la cui candidatura era sulla carta la migliore sulla quale l'estabilishment potesse contare ma non è mai decollata e si è conclusa ad agosto con lo straw poll in Iowa, ha dato il suo endorsement a Romney, ricevendo prontamente i galloni di co-chairman della sua campagna.
La mossa è stata subito letta come un sintomo della convergenza su Romney della élite del partito;  ma il quadro non è così semplice, perché a stretto giro Perry ha rilanciato sfoderando -  a distanza ancora più ravvicinata dall'inizio del dibattito - l'endorsement di Bobby Jindal.

Vale la pena di approfondire. Eletto per la prima volta nel 2007, allorché gli elettori di quello Stato ritennero il governatore democratico uscente responsabile del fallimento della gestione dei disastri causati dall’uragano Katrina almeno tanto quanto l’amministrazione federale di Bush, Jindal è il primo governatore "non-bianco" della Louisiana dai tempi della Ricorstruzione dopo la Guerra Civile (c'è il precedente di un governatore afroamericano nel 1872, ma per appena 35 giorni). Jindal è di origini indiane (dell'India, non d’America), essendo nato da una immigrata indiana che si era appena trasferita negli USA assieme al marito, un ingegnere del Punjab, per laurearsi in fisica nucleare: è quindi un tipico esponente della comunità di immigrati indo-americani che negli USA sta divenendo sempre più integrata, benestante ed influente (e rimane per lo più orientata a votare per i Democratici, come quasi sempre avviene per le minoranze). E' molto giovane (40 anni tondi), e pur essendo figlio di genitori di religione induista si è convertito al cattolicesimo ai tempi del liceo.
 Soprattutto, ha dalla sua un curriculum d'eccellenza in materia di finanza pubblica con particolari competenze in materia di assistenza sanitaria: ad appena 24 anni (!) fu a capo del Louisiana Department of Health and Hospitals, e nel 2001, 30enne, fu nominato da  Bush sottosegretario al Ministero della Salute e messo a lavorare alla Commissione Breaux-Thomas che studiava una riforma del “Medicare”.
Alle presidenziali del 2008, prima che dal cilindro del prestigiatore saltasse fuori a sopresa l'allora semisconosciuta Sarah Palin, Jindal era nella shortlist dei papabili come vice accanto a John McCain, non solo per le sue competenze di cui sopra ma anche in quanto esponente di quel mondo di “nuovi americani”, o forse addirittura di “nuovi occidentali”, che per molti versi si presta a rappresentare “il futuro” del nostro mondo almeno quanto il “vecchio bianco veterano delle guerre del secolo passato” McCain rappresentava fieramente “la Storia”.
Negli anni più recenti Jindal è stato coccolato dal partito come potenziale anti-Obama, ma si è fatto anche notare come personaggio critico verso i vecchi potentati del GOP, una sorta di "rottamatore" d'oltreoceano; la sua visibilità si è ulteriormente accresciuta perché è stato alla testa dei governatori repubblicani che hanno "tenuto fuori" il più possibile gli Stati da loro amministrati dall'attuazione della riforma sanitaria voluta da Obama, e  la sua voce è stata una delle più applaudite tra le molte che hanno duramente criticato l'Obamacare. Trattandosi di uno dei cavalli di battaglia dell'attuale rimonta repubblicana, e di uno dei talloni d'achille di Romney, il peso della sua adesione alla candidatura di Perry è più che evidente.
Non dimentichiamo che Perry è anche a capo della RGA, l'associazione dei governatori repubblicani: potrebbe avere in serbo altri assi nella manica come questo.


Prossimo appuntamento sempre in Florida, ad Orlando, il prossimo 22 settembre - dibattito organizzato da Fox News.
Stay tuned!

venerdì 9 settembre 2011

I SEE THE FREEDOM TOWER RISING / 5


«Sono nato in Polonia da genitori entrambi sopravvissuti alla Shoà, giunsi qui a 13 anni in nave come i veri immigrati. Quando arrivi alle 5 del mattino dopo giorni di mare, le nubi si aprono e nel cielo vedi la fiamma della Statua della Libertà e lo skyline di Manhattan. È l’immagine della libertà, che mi è sempre rimasta dentro. Non c’è nulla di paragonabile al mondo. Sono cresciuto a Queens amando tale libertà, che oggi si ritrova a Ground Zero».
Così, intervistato da Maurizio Molinari per lo speciale de La Stampa nel decennale dell'Undici Settembre, l'architetto Daniel Libeskind, l'ideatore del nuovo World Trade Center cui si deve l'intuizione del compromesso/connubio tra riedificazione di grattacieli commerciali e “consacrazione” del terreno a memoriale ai caduti.
Una intuizione a partire dalla quale si sta ridefinendo, giorno dopo giorno, lo skyline più celebre del mondo, come si può ammirare in questo superspot mozzafiato presentato ieri dalla Silverstein Properties, la società che aveva acuistato il "vecchio" WTC giusto sei settimane prima dell'attentato ed ora sta vendendo quello nuovo:

Domenica, in occasione del decennale, verrà inaugurato il memoriale ai caduti; ma lì accanto procede a pieno ritmo anche la costruzione della Freedom Tower, che ha ormai superato l'80esimo piano. La foto qui sopra ritrae lo stato dell'arte lo scorso 2 settembre.
Una volta ultimata, quella che ufficialmente si chiamerà solo "1 World Trade Center" sarà alta 1776 piedi (altezza simbolica, a ricordare l'anno dell'indipendenza) e diverrà così l'edificio più alto d'America, sorpassando la Willis Tower di Chicago (quella che un tempo si chiamava Sears Tower) anche se non con la quota del tetto vero e proprio. Sarà inoltre l'edificio più alto del mondo interamente adibito ad ufficio - primato che strapperà alla Taipei 101 di Taiwan - ed il terzo più alto del mondo in assoluto, secondo solo al Burj Khalifa di Dubai e al nuovo Hotel Royal Clock Tower della Mecca.
Faster, please.

giovedì 8 settembre 2011

IL DUELLO - PARTE PRIMA


Ha ragione Daniele Bellasio: bastano meno di tre minuti del primo dibattito, servito ieri sera alla Reagan Library da The Politico e dalla NBC - quei tre minuti in cui Rick Perry e Mitt Romney hanno giocato a sfottersi e controsfottersi sulla questione della "job creation" - per farsi un'idea di come saranno le primarie presidenziali repubblicane di quest'anno.
Non solo nel senso in cui lo intende Daniele, ossia per aver conferma del fatto che la questione della (dis)occupazione sarà il perno ed il tormentone della stagione elettorale 2012, ma anche per aver conferma del fatto che si tratterà di primarie tutt'altro che noiose.
Ove mai ve ne fosse stato bisogno, il dibattito che ieri sera si è svolto all'ombra della fusoliera di quello che un tempo fu l'Air Force One di Ronald Reagan ha anche confermato, sin dal primo atto, il copione di un duello: una sfida tra due pezzi grossi - l'ex governatore del Massachussetts e l'attuale governatore del Texas.
Il filmato va visto, merita. Perry attacca facendo presente, con un ghigno beffardo, che Michael Dukakis (il democratico che governò il Massachussetts negli anni di Reagan ma poi fallì nella corsa alla Casa Bianca contro Bush padre, rimanendo segnato a vita dall'etichetta di loser) "creò posti di lavoro ad un ritmo triplo di quello in cui ci sei riuscito tu, Mitt".
Romney replica senza scomporsi, dicendo che se è per questo in Texas "George Bush ed il suo predecessore crearono posti di lavoro ad un ritmo maggiore di te, caro governatore". E così via.
La battuta più sagace l'ha probabilmente imbroccata Romney, quando, per rendere l'idea di come Perry non possa attribuirsi più di tanto il merito del "miracolo texano", ha detto che "sarebbe come se Al Gore dicesse di aver inventato Iternet" - una minchiata che si dice l'ex vicepresidente abbia detto veramente, anche se in realtà è una mezza leggenda metropolitana, ma sottotraccia c'era anche una frecciata subliminale perché Perry subito prima di passare al partito repubblicano fu a capo del comitato texano per la candidatura alle primarie presidenziali di quello che poi fu il vice di Clinton, un precedente che gli sfidanti stanno già cucinando in tutte le salse a suo danno.
Ma, come dicevo, il vero sfidante è uno solo. Gli altri sono già declassati a comparse. Ieri sera Perry - che di dibattiti ne aveva affrontati appena 5 negli ultimi 10 anni, mentre Romney, che ormai da anni di professione fa il candidato, se ne era fatti 19 negli ultimi 4 -  è risultato un po' goffo ma non in modo disastroso. Ha retto, non si è fatto surcallasare dal pur più disinvolto avversario, e per ora tanto gli bastava essendo oramai di fatto il vero frontrunner.
"Sai come fai a capire che sei diventato il capobranco?" Scherza Roger Simon nel commentare il match sul sito-regìa - "Quando tutti gli altri cani cercano di morsicarti il sedere. Ecco perché Rick Perry ha beccato tanti morsi nel posteriore ieri sera. Peraltro, ciascuno di quelli che l'hanno colpito è stato poi ripagato con un colpo di risposta".
Quindi, in sostanza, per ora si tratta di una "corsa a due" (come ben spiega oggi Andrea Mancia), cominciata con Perry in testa. Conserverà la posizione? La vedremo. Prossimo appuntamento lunedì prossimo in Florida, a Tampa, al secondo dibattito, organizzato dalla CNN e dal Tea Party Express. Stay tuned!

UNDICI SETTEMBRE 2001/2011, TUTTE LE COPERTINE

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lunedì 5 settembre 2011

VOODOO 2012 / 3 : TRE PROFEZIE TEXANE


Oggi su Notapolitica:

Come dicevo all'inizo dell'estate , fino al Labor Day non si possono formulare previsioni “serie” ma solo azzardare scommesse alla cieca o compiere riti voodoo.
Poiché giusto oggi è il Labour Day, approfittiamo della riapertura di Notapolitica per concederci un ultimo divertissement, tre profezie sul futuro prossimo della politica americana che da domani comincia ufficialmente il ciclo elettorale presidenziale.

Profezia n.1: Rick Perry vincerà le primarie repubblicane.
Grazie al cactus, diranno i miei quattro lettori: questo oramai lo vanno dicendo tutti.
Vero; ma la mia profezia, per quanto non seria, è meno frivola di molte analisi che si leggono in giro in questi giorni.
Io non pronostico Perry vincente per via dei sondaggi estivi nei quali, non appena ha annunciato la sua candidatura, il governatore del Teras è schizzato avanti all'ormai ex favorito Mitt Romney con ampio margine. Troppo spesso nei primi sondaggi abbiamo assistito a “bolle” poi repentinamente afflosciatesi: basti pensare a quella di Rudy Giuliani nelle primarie repubblicane del 2008, o al caso di Howard Dean in quelle democratiche del 2004. In fondo, quattro anni fa John McCain nei sondaggi stava messo più o meno come Mitt Romney oggi.
Il punto è che in una alternativa secca tra Romney e Perry, quest'ultimo è il naturale collettore dei consensi di gran parte dei sostenitori di tutti gli altri candidati che prossimamente dovranno abbandonare il campo: di quelli di Ron Paul e di quelli di Michele Bachmann, che messi assieme già quasi eguagliano quelli di Romney, ma anche di quelli dei candidati minori come Newt Gingrich, Rick Santorum ed Herman Cain.
Inoltre, come ha notato Chris Cillizza del Washington Post, Perry ha dalla sua il fatto che il suo forte appeal verso la base antistatalista più arrabbiata è giocato non tanto sul versante “sociale” (bioetica, famiglia ecc.) come nel caso della Bachmann, quanto piuttosto su quello economico: il che gli consente di rendere la sua candidatura accettabile all'establishment del partito (che preferirebbe Romney, ma non sta riuscendo ad imporlo).




La prova del fuoco è dietro l'angolo: la stagione di dibattiti televisivi prenderà il via dopodomani con l'appuntamento californiano alla Reagan Liberary organizzato dalla NBC e da The Politico, che avrebbe dovuto tenersi in primavera ma è stato rinviato per mancanza di candiati “veri”. Seguiranno i due dibattiti in Florida, quello del 12 Settembre a Tampa, organizzato dalla CNN e dal Tea Party Express, e poi quello del 22 ad Orlando, ad opera di Fox News. Poi, ad ottobre, uno l'11 in New Hampshire gestito dal Washington Post e da Bloomberg, ed uno il 18 a Las Vegas di nuovo targato CNN. Tra due mesi, quindi, avremo in mano sondaggi più attendbili. Per ora, alla cieca, la profezia è questa.

Profezia n.2: l'ascesa di Rick Perry provocherà nei media nostrani una reazione allergica mai vista neanche ai tempi di George W Bush. Mentre l'america liberal ed anche una bella fetta di establishment repubblicano si limiteranno a quella che Curt Anderson su the Politico ha già diagnosticato come “Perryfobia".I sintomi ancora non affiorano, ma basta aver pazienza - i media nostrani hanno riflessi lenti in fatto di politica estera. Vedrete, fra un po' assisteremo ad uno tsunami di retorica anti-texana senza precedenti, verrà riesumata qualunque spiacevolezza possa essere associata al Lone Star State, dal record di esecuzioni capitali all'assedio di Waco allo scandalo Enron, su su fino all'assassinio di JFK a Dallas. Toccherà adoperarsi per controbilanciare la vulgata; e voi che state leggendo qui sapete dove trovare informazionifair and balanced.

Profezia n.3: Cosa accadrà nell'elezione generale del novembre 2012? Vi diranno che Obama può essere salvato dal fatto che lo sfidante texano è troppo di destra, troppo estremista, troppo texano insomma, per andar giù al mitico elettorato indipendente che fa da ago della bilancia. In verità vi dico: il problema di Perry non è quello di essere troppo di destra, troppo conservatore.
Facciamo un passo indietro. Quando alla fine dell'agosto 2008, a poche ore dall'inizio della convention repubblicana in Minnesota, John McCain annunciò a sopresa di aver scelto come sua vice Sarah Palin, una ragazzotta di provincia cinque volte mamma sposata con un mezzo esquimese campione di corse con la motoslitta, una che fino ad allora quesi nessuno conosceva fuori dal gelido e disabitato Stato di cui era governatirce, molti si affrettarono a commentarla come una mossa suicida: la Palin era molto più conservatrice di lui, e mettersela accanto significava dilapidare buona parte dell'appeal che il senatore dell'Arizone esercitava nei confronti dell'elettorato indipendente.
Al contrario, i sondaggi post-convention rivelarono che per la prima volta dall'inizio della campagna elettorale McCain era improvvisamente balzato in vantaggio. La Gallup stimò in sei punti percentuali il suo bounce post-convention, mentre quello del favoritissimo Barack Obama dopo la convention democratica di Denver era stato di quattro punti. Il dato più interessante è che, secondo la Gallup, McCain era schizzato in testa proprio tra gli elettori indipendenti, con un impressionate vantaggio di ben quindici punti: 52%, mentre Obama era crollato al 37. Al contempo, la sua popolarità tra gli elettori democratici che si qualificano come più centristi era salita al 25%, mentre prima della convention era al 15. Un mese più tardi, un sondaggio commissionato dal Los Angeles Times confermava lo stesso vantaggio: tra gli elettori indipendenti intervistati, McCain veniva preferito dal 49%, contro il 34 di Obama. Non solo: il 38% degli indipendenti intervistati dichiarava di essersi fatto più convinto di votare McCain dopo l'annuncio del ticket con Sarah Palin, mentre solo il 18% dichiarava di essersi raffreddato nei confronti di McCain dopo quella mossa.
Poi venne il fallimento della Lehman Brothers, "l'Undici Settembre della finanza americana", eccetera - e la magia finì. Ma quella breve fase di tarda estate di tre anni fa ci dice cose che troppi commentatori hanno poi dimenticato sull'onda dell'entusiasmo dell'elezione di Obama.
Il punto, dicevo, non è l'eccesso di conservatorismo di Perry.

L'elezione del 2012 - questa è la mia terza profezia - somiglierà parecchio a quella disputata da Reagan contro Carter nel 1979. Da una parte c'è uno status quo fatto di crisi economica, di recessione, di disoccupazione, c'è la preoccupazione per un declino della leadership americana nel mondo, e c'è la delusione nei confronti di un presidente democratico eletto per voltare pagina rispetto ad un ciclo repubblicano impopolarissimo (allora quello di Nixon, 3 anni fa quello di Bush) e non mostratosi in grado di far partire un nuovo ciclo; dall'altra c'è la voglia di ritrovare un leader in grado di reagire e rimettere in moto le cose, ma anche la sfiducia per l'intervento statale e la rivolta antitasse, che allora si era coagulata attorno al referendum californiano "Proposition 13" che il New York Times definì "una versione moderna del Boston Tea Party" (ricorda nulla?).

Il punto è che per riuscire nell'impresa eccezionale di scalzare il presidente in carica alla fine del primo mandato, Rick Perry dovrà fare la sua parte, cioé dovrà "essere come Reagan". Il che significa innanzitutto che dovrà evitare di appiattirsi sulla dimensione protestataria dei tea party. Dovrà saper essere un candidato positivo, non un candidato "contro", "anti". Dovrà saper evitare di assecondare troppo quel misto di rabbia e disillusione che spesso sembra dominare fra gli elettori. Può permettersi di essere populista, non di essere negativo. Potrà vincere solo se saprà essere il candidato dell'ottimismo ("Morning in America").
In secondo luogo, "essere come Reagan" significa non trasformarsi in un moderato o in un centrista (anzi), ma -operazione ben più raffinata - essere uno che non ti chiede di trasformarti in un conservatore per dargli fiducia. Perry può anche vincere le primarie ostentando posture da cowboy, ma poi per vincere l'elezione generale dovrà sapersi evolvere in un candidato capace di parlare anche a quella parte del Paese che somiglia meno al Texas - in un candidato, tanto per intenderci, capace di usare il proprio passato nel Partito democratico come una carta a suo favore, anziché nasconderlo goffamente come uno scheletro nell'armadio.
Ci riuscirà? Cominceremo a capirlo da dopodomani, quando la fantapolitica lascerà la scena alla campagna vera.