sabato 25 giugno 2011

LA LUNGA ESTATE DEL GRAND OLD PARTY


Oggi su Notapolitica:

Sfidare Barack Obama nelle elezioni dell’anno prossimo significa sfidare decenni di storia: di solito al termine del primo mandato il presidente uscente viene “sempre” rieletto.
Ogni regola, si sa, ha le sue eccezioni. Ma per trovare un presidente silurato dopo un solo mandato dobbiamo andare indietro di vent’anni, quando Bush padre subì la quarta più grave sconfitta elettorale mai riportata da un presidente uscente (anche se parte della colpa fu di Ross Perot, il miliardario texano che candidandosi come indipendente fuori dai due grandi partiti dirottò su un binario morto diciannove milioni di voti in gran parte provenienti dall’elettorato “reaganiano”).
Quel precedente, però, lascia il tempo che trova, perché in quel caso il pendolo aveva oscillato dopo dodici anni consecutivi di presidenza repubblicana: Bush nell’88 era riuscito a succedere a San Ronald Reagan promettendo una diretta prosecuzione della presidenza del suo popolarissimo predecessore, di cui era stato il vice (e già la successione del vice uscente rappresenta un fatto eccezionale – ne sa qualcosa Al Gore, ma ci era passato anche Nixon).
Per trovare un precedente pertinente, tocca quindi risalire alla sconfitta di Jimmy Carter nel 1980, determinata dal carisma di Reagan ma anche dall’urgenza di far fronte a difficoltà, sia in campo economico che in politica estera, che rendevano oggettivamente insostenibile la prosecuzione di una presidenza fragile ed inconcludente.
L’ottimismo ostentato dal diabolico Karl Rove nell’argomentare la “battibilità” di Obama è quindi tutto giocato sul pronostico che dopo trent’anni si stia per ripetere una sconfitta alla Carter.
Non è probabile, ma non è del tutto impossibile. I dati sull’economia e sull’occupazione sono piuttosto sconfortanti, e che in giro per il mondo gli USA stanno combattendo quattro o cinque guerre nessuna delle quali sta regalando troppe soddisfazioni. La stagione primaverile dei sondaggi si è conclusa con la rilevazione da parte della Gallup del sorpasso su Obama da parte del “candidato repubblicano qualunque”, per la prima volta da quando il 44esimo presidente è stato eletto. E non è detto che l'estate porti notizie tanto più rosee.

Ma se Obama non può dormire sonni tranquilli, altrettanto può dirsi di colui che sarebbe in teoria il favorito nella competizione per sfidarlo. 
Mitt Romney nei primi sondaggi ha la maggioranza relativa, ma non si avvicina nemmeno a quella assoluta. E non ha ancora mostrato di saper gestire lo scheletro nell’armadio rappresentato dalla riforma sanitaria  che fece approvare quando governava il Massachusetts, troppo simile a quella nazionale obamiana che per i repubblicani rappresenta il male assoluto. Infine c’è qualcos’altro, un nonsoché nell’aria, una sensazione, indefinibile ma diffusa, “che si tratti di un candidato-fantoccio, destinato ad essere abbattuto quanto prima” per dirla con le parole di un esperto di primarie come Joe Klein. Perfino chi lo vede vincente lo definisce “un guscio vuoto senz’anima”, e di questi tempi gli elettori esigono la narrazione di una bella storia e un personaggio cui affezionarsi, prima ancora che un programma razionalmente credibile.

L'alternativa pareva poter essere Tim Pawlenty, ma dopo la sua deludente performance nel dibattito televisivo in South Carolina resta l'impressione di un vuoto da colmare.

Martedì scorso ha tentato di occuparlo Jon Huntsman, fattosi avanti con il preannunciato comizio con la statua della libertà alle sue spalle - e con il resto dei contendenti repubblicani alla sua destra, come ha notato il corrispondente del Los Angeles Times Paul West. Hunstman è infatti senza dubbio il candidato più centrista e “per bene”; ed è anche il più elitario, provenendo al contempo dal mondo del big business (l’azienda di famiglia è il fornitore storico degli imballaggi per i panini della McDonald’s) e da quello della diplomazia (ambasciatore a Pechino fino a pochi mesi fa). Qualcuno lo ha definito il “candidato anti-TeaParty”. Per ora sembra aver raccolto grande entusiasmo tra i giornalisti e gli opinionisti, ma gli elettori sembrano di ben altro avviso: su questo sono ineccepibili, al solito, le istantanee scattate da Andrea Salvadore e da Andrea Mancia.

Resta dunque molto spazio da riempire, soprattutto sul versante più conservatore ed antiestablishmentarian. Tenterà di appropriarsene la pasionaria dei Tea Party Michele Bachmann, che ufficializza la sua candidatura lunedì prossimo. Ma il nome che circola con crescente insistenza è un altro. Se alla fine dell'estate nessuno dei candidati “ufficiali” avesse preso quota, il tavolo di gioco potrebbe venire scompaginato dall’irruzione di una “wild card”, un concorrente “speciale” che esca dall’ombra in extremis. Il nome sulla bocca di tutti è quello di Rick Perry, il governatore del Texas. Un personaggio tutto da scoprire: soprannominato dai suoi detrattori "Governor Goodhair" (Governatore Bellicapelli) per via dell’aspetto pacchianamente fotogenico, negli anni Ottanta era in politica tra le fila del partito Democratico (il che però in Texas non significava necessariamente essere “di sinistra”), fino al 1988 quando aveva persino fatto campagna per Al Gore alle primarie; dopodiché era passato ai repubblicani, ed infine era stato eletto vicegovernatore quando George W Bush fu eletto governatore (altra particolarità texana: le due cariche vengono decise separatamente, non in ticket). Quando nel 2000 W. è stato eletto presidente, Perry gli è subentrato come governatore, e di lì nessuno l’ha più schiodato. Al governo del Lone Star State da più di dieci anni – record assoluto nella storia dello Stato – è stato rieletto a novembre, dopo aver sbaragliato alle primarie sia la candidata dei Tea Party - dalla quale, complice l'appoggio di Sarah Palin ma anche un suo personale appeal populista, non si era fatto sfilare i consensi della base più conservatrice – sia la senatrice Kay Bailey Hutchinson, prima senatrice donna nella storia del Texas e sino ad allora detentrice del record di voti elettorali in quello Stato, appoggiata dall'establishment del partito ma percepita come troppo moderata e troppo addentro alla “casta” di Washington. In Texas per diventare governatorte basta la maggioranza relativa dei voti, e Perry nel 2006 era stato rieletto con appena il 39%; stavolta ha incassato il 55%.

Se Jon Huntsman è per definizione il candidato che piace tanto ai giornalisti ma forse solo a loro, Perry è la sua perfetta antitesi. Per rendersene conto basta dare un'occhiata alla sua pagina biografica su Wikipedia in lingua inglese, un mattone di circa quarantamila battute (più o meno quanto quella di Barack Obama), e confrontarla con quella italiana, che sembra un biglietto da visita. Visto da qui verrebbe da dire che si tratta di “un altro George W. Bush”, ma non è così semplice. Perry non ha affatto un buon rapporto con il suo predecessore, e men che meno con il clan Bush in genere. Certo, osservandolo in azione (qui il filmato di una sua recente performance) si nota che esteticamente – sia per quanto riguarda lo stile oratorio e lessicale da “uomo del popolo”, sia quanto al “linguaggio del corpo”, fatto di movenze spavalde e (volutamente?) un po’ rozze – somiglia a W (e a volte anche alla macchietta che Josh Brolin ne ha fatto nell’omonimo film di Oliver Stone). E anche oltreoceano non manca chi ironizza sulla inverosimiglianza di un ritorno alla presidenza di un altro repubblicano così texano da “sembrare il protagonista di un vecchio western”, a così breve distanza dalla “crisi di rigetto” che ha segnato con un record di impopolarità l’uscita di scena di Bush. Ma è un fatto che in questi tempi di crisi economica il “modello texano” sembra essere l’unico funzionante, e Perry non perde un secondo per ricordarlo al mondo. Una cosa è certa: fino ad oggi tutte, ma proprio tutte le volte che si è candidato a qualcosa, ha vinto.

Certo, all’inizio dell’estate non si possono ancora azzardare pronostici che non siano scommesse alla cieca o riti voodoo. Se ne riparlerà dopo il Labor Day, la “festa del lavoro” americana che si tiene il primo lunedì di settembre e che nelle annate elettorali rappresenta una sorta di campanella di fine ricreazione, suonata la quale finiscono le partite amichevoli e si comincia a disputare il campionato vero. Fino ad allora, sarà una lunga, calda e faticosa estate – per i repubblicani, ma non solo.

martedì 21 giugno 2011

LE PRIMARIE, QUELLE VERE (DIFFIDARE DELLE IMITAZIONI)


Oggi su Notapolitica:

Tra le diverse ragioni che rendono indigesta la proposta “Quagliariello-Cicchitto” che vorrebbe per la prima volta legiferare sulle primarie nel nostro Paese, trovo particolarmente degna di attenzione quella sottesa al fatto di voler limitare la proposta alle sole “cariche monocratiche”.
“Se regoliamo le primarie con una legge dello Stato”, ha evidenziato il Prof. Quagliariello in un intervento su Il Tempo sabato scorso, “la stessa legge dello Stato deve prevedere che le cariche a cui le primarie si riferiscono siano monocratiche e ad elezione diretta”.
Quindi: primarie consentite (NON obbligatorie) per scegliere il candidato sindaco, presidente della Provincia, presidente della Regione; e primarie vietate (!) per scegliere il candidato deputato, senatore, consigliere regionale e così via.
E perché mai?

Negli Stai Uniti, dove questo metodo è nato e si è sviluppato, le primarie vengono utilizzate per selezionare i candidati alle cariche assembleari quanto per le cariche monocratiche: non c’è deputato o senatore, al Congresso di Washington come nei parlamenti locali dei singoli 50 Stati dell’Unione, che non sia passato attraverso questa selezione.
Anzi: negli USA, nelle zone dove il voto è stabilmente orientato verso uno dei due grandi partiti, le primarie, anche per le candidature dei parlamentari, di fatto contano quasi più dell’elezione generale; e in effetti questo sistema venne sviluppato negli Stati del Sud dopo la Guerra Civile proprio per ovviare alla realtà quasi-monopartitica che lì si era andata creando per via del predominio schiacciante del Partito Democratico.
E allora, come la mettiamo?

Il fatto è che la scelta operata dalla proposta di Legge “Quagliariello-Cicchitto” è dovuta ad una ragione ben precisa, che, ancorché in un certo qual modo scabrosa, sarebbe bene esplicitare il più possibile e non dare per sottintesa come qualcosa di impronunciabile.
E’ presto detto:  negli USA le primarie si applicano anche alle candidature per i seggi parlamentari perché il siste4ma elettorale è sempre quello del “First Past The Post” basato sul “single member constituency” – cioè maggioritario secco basato sul collegio elettorale uninominale. In ogni collegio si va ad eleggere un solo deputato o senatore, quello che ha preso più voti anche se non necessariamente la maggioranza assoluta, e che sarà il solo rappresentante degli elettori residenti in quel territorio.

Questo non solo rende le primarie tecnicamente possibili, ma le rende anche estremamente importanti perché fa sì che i candidati vengano selezionati “sul territorio” dagli elettori del posto, e quindi garantisce che quello che verrà eletto sia effettivamente espressione della realtà del suo collegio.
Non a caso le primarie - anche per le cariche assembleari - si sono diffuse, nel corso del Novecento, anche in Gran Bretagna, dove il sistema elettorale – quello che gli elettori a gran maggioranza hanno saggiamente deciso di tenersi ben stretto con il referendum del mese scorso è pressoché identico a quello americano (ed anzi ne rappresenta l’archetipo); e sono approdate negli ultimi anni anche in Francia, dove, seppure con la variante del secondo turno, vige comunque un sistema elettorale basato sul collegio uninominale.

Sottacere questo fattore equivale a dare per scontato che in Italia la questione delle primarie si debba o possa trattare senza mettere in discussione l’attuale legge elettorale, che pure per generale ammissione è una delle peggiori che noi si abbia mai avuto.

Sai che bello passare ad una selezione attraverso le primarie dei candidati a “cariche monocratiche”… che poi si debbano rapportare ad assemblee composte da nominati e cooptati?

Non dimentichiamo che l'esperimento del Mattarellum, che avrebbe dovuto recepire la netta scelta referendaria del 1993 per un passaggio al sistema del collegio uninominale, fallì anche perché, in mancanza delle primarie, i candidati venivano allegramente "paracadutati", in esito a spartizioni tra le oligarchie dei partiti, in collegi rispetto ai quali erano e rimanevano degli alieni.

In questi giorni in cui la logica fondamentalmente proporzionalista dell’attuale sistema elettorale torna a mostrare tutti i propri difetti, sarebbe doveroso discutere delle primarie e della legge elettorale unitamente, prendendo il toro per le corna e ponendo una buona volta la questione del ritorno al sistema del collegio uninominale. Qualche proposta in questo senso si è pure sentita, ma del tutto estemporanea e di nicchia, oppure in termini di “appello”, di altissimo profilo ma apparentemente senza troppe speranze di trovare ascolto presso i destinatari.
Stando così le cose, nemmeno dai ragionamenti sulle primarie può uscire nulla di buono.

giovedì 16 giugno 2011

LONE STAR


Non cessano, ed anzi proliferano senza sosta, le speculazioni a ruota libera sull'ipotesi di una imminente entrata a gamba tesa (con tanto di stivale d'ordinanza) nelle primarie repubblicane da parte del governatore del Texas, Rick Perry.
Oggi sul Wall Street Journal l'opinionista Daniel Henninger descrive la cosa come probabile, e ipotizza che immischiandosi nelle primarie Perry porterebbe con sè "tre cose: 1) il Texas; 2) il Texas; 3) il decimo emendamento" (il decimo emendamento alla Costituzione USA è quello che fissa il rapporto tra il potere dei singoli Stati e quello del governo federale di Washington, una sorta di "clausola federalista" che in Texas viene letta con una sfumatura autonomista molto vivace).
Anche Fox News e la National Review fanno la ola.
Mah.

VOODOO 2012 / 2 : LA PRESIDENZA ROMNEY


La profezia più divertente della settimana è senza dubbio questa:

"Scommetto che Mitt Romney vince la nomination; e al momento, salvo una ripresa economica consistente, sarei per dargli anche delle chance elevate come non mai di vincere anche l'elezione generale. Ho la sensazione che Romney sia un guscio vuoto senz'anima, ma un guscio vuoto senz'anima piuttosto intelligente, e io in effetti non condivido l'idea che un candidato abbia bisogno di essere una persona profondamente autentica per essere un politico di successo. [...] La mia ipotesi è che [una presidenza Romney] renderebbe permanente la riforma sanitaria di Barack Obama, limitandosi a qualche modifica "foglia di fico" che consentirebbe a Romney di rivendicare di aver annullato l'odiata ObamaCare e di averla sostituita con una riforma alternativa repubblicana... che però in realtà sarebbe sostanzialmente uguale. [...]
E dopo un anno o due, nessuno si identificherà più come un sostenitore dei "Tea-Party", o ricorderà che cosa i loro erano stati i loro obiettivi, o si indignerà per il fatto che non sono mai stati raggiunti".

Busta chiusa, ceralacca, cassaforte.
Sotto a chi tocca.

mercoledì 15 giugno 2011

LADY LIBERTY


Ryan Lizza del New Yorker e il blog The Caucus sul sito del New York Times spifferano, debitamente imbeccati, che a giorni Jon Huntsman ufficializzerà la sua candidatura alle primarie repubblicane con un comizio al Liberty State Park di Jersey City, in modo da parlare all'America con la Statua della Libertà in bella vista alle sue spalle.
Si tratta volutamente di un remake del discorso di "kick off" che Ronald Reagan fece nel 1980 - qui il video ed il testo di  quell'evento, che rivisto oggi ha ancora un impatto impressionante.
Riuscirà l'ex ambasciatore a reggere il confronto con cotanto predecessore?
Auguri.

PS: quel comizio di Reagan è rimasto celebre per la battuta sul distinguo tra recessione e depressione ("la recessione è quando il tuo vicino perde il lavoro; la depressionè è quando tu perdi il tuo; e la ripresa è quando Jimmy Carter perde il suo"). Ma ciò che oggi sarebbe bello veder emulare è il colpo da maestro che Ronnie uso per l'incipit:
"Alcuni amici della stampa mi hanno chiesto perché abbiamo scelto la Contea di Hudson County per questo evento di avvio della campagna elettorale. Ora, sono certo che l'hanno chiesto perché i residenti nella Contea di Hudson sono in stragrande maggioranza Democratici [la folla fischia, lui li zittisce: "No, no"]. Spero che molti siano presenti. E 'un dato di fatto, io sono il primo candidato repubblicano a venire qui dal 1968. Ma la risposta alla loro domanda è che io sono qui proprio perché i residenti della Contea sono in per lo più Democratici: perché credo che oggi in questo Paese ci siano milioni di democratici che sono scontenti di come vanno le cose, tanto quanto lo siamo tutti noialtri".
La capacità di guardare oltre il recinto del proprio partito ed esprimere empatia verso gli elettori Democratici, trascinandone emotivamente una parte verso di sè: questo fu, sin da principio, uno degli ingredienti essenziali della formula magica del reaganismo, la cui ricetta sembra purtroppo essere andata smarrita.

UPDATE - seconda briciolina di Pollicino, per la serie: coming soon: "il video d'attesa" (ah, le perversioni dello spin...)

martedì 14 giugno 2011

IERI IN NEW HAMPSHIRE, DOMANI CHISSA'


Ieri sera in New Hampshire (dalle due alle quattro del mattino ora italiana) si è tenuto il “primo vero” confronto fra gli aspiranti candidati repubblicani alla Casa Bianca, posto che in quello tenutosi ai primi di maggio in South Carolina mancavano ancora quasi tutti i candidati di un certo peso.
Gestito e trasmesso in diretta dalla CNN,  (per la serie: “servizio pubblico e televisione privata in un Paese Libero”), il dibattito si è tenuto con un format davvero pessimo: una mitraglia di domandine, con mezzo minuto a testa per rispondere e zero spazio per i confronti diretti tra un concorrente candidato e l'altro. Il tutto aggravato dal giochino "questo o quello" con quiz demenziali tipo "ti piace di più la pepsi o la coca cola", oppure l'IPhone o il BlackBerry, la pizza spessa o sottile, e così via  (vedasi il blog di Andrea Salvadore per una cronaca impeccabile di questo elemento faceto).

Facezie a parte, si è capito subito sin troppo chiaramente che, per motivi tattici, tutti i sette contendenti erano stati istruiti dai rispettivi spin doctor a tenersi per ora ben alla larga dalla rissa fra commilitoni (Joshua Green dell'Atlantic parla sornione di "festival dell'amore"), e a focalizzarsi solo sull'antagonismo rispetto al presidente in carica.

Il che ha reso particolarmente deludente la performance di Tim Pawlenty, dal quale tutti si aspettavano che saltasse alla giugulare di Mitt Romney per accreditarsi subito come sua alternativa, e che si è invece goffamente rifiutato (persino quando il moderatore lo ha esplicitamente incalzato) di ripetere il brillante neologismo “ObamneyCare” (crasi fra ObamaCare e RomneyCare, un po’ come quando da noi Marco Pannella parlava di “Veltrusconi”) che aveva lanciato appena il giorno prima con ritorno mediatico non banale – con il bel risultato che quella che per un attimo era parsa la prima battuta non noiosa della sua vita è suonata come un qualcosa a metà strada tra un “qui lo dico e qui lo nego” e un colpo partito accidentalmente mentre puliva il fucile.
Se T-Paw ha miseramente mancato l'obiettivo di smarcarsi dalla seconda fila (tanto che più di un maligno oggi si chiede se non stia già volutamente ripiegando sul posto da vice), simmetricamente Romney ha centrato quello di uscire indenne, dato che per ora nessuno ha voluto fare a botte con lui né tanto meno approfittare del suo tallone d'achille -  ossia le sue incoerenze in tema di riforma sanitaria e di aborto. Mitt incassa così, sin troppo indisturbato, il ruolo di protagonista ed il plauso di tutti i commentatori, nessuno escluso.
Plauso unanime - del tipo "wow, l'avevamo sottovalutata" anche alla teapartier  Michele Bachmann, che è riuscita a sorprendere sfuggendo al cliché della fanatica impresentabile “fuori di testa”, e al contempo a non far sentire la mancanza di Sarah Palin.
Altrettanto unanime la constatazione che, come era ovvio, la “bolla” Herman Cain si è prontamente sgonfiata al primo “vero” dibattito.


Il blabla si è ovviamente concentrato su economia, tasse ed occupazione, e su questo tutti si sono indistintamente attenuti al solito generico copione reaganiano.
Quanto alla politica estera, si è confermato che l’attuale mainstream nel GOP è di giocare sull’insofferenza per le troppe imprese belliche in corso nel mondo, dalla Libia – avventura criticata un po’ da tutti – all’Afghanistan (Romney: "It’s time for us to bring our troops home as soon as we possibly can”). Più o meno lo stesso andazzo che in epoca pre-Obama era bandito come vergognoso disfattismo, e che ora molti per comodità etichettano sbrigativamente come “isolazionismo”, grossolana esagerazione lessicale che capita persino di vedere affiancata da quella ancor più iperbolica di “pacifismo”. Provocazioni intellettuali a parte, in realtà si tratta solo del solito vecchio realismo che George W. Bush nel 2000, prima di essere “aggredito dalla realtà”, vendette come “umiltà” agli elettori stufi dell' "interventismo umanitario" di Clinton. L’unico a distinguersi è stato Pawlenty, che ha fatto la mossa di dirsi d'accordo con i bombardamenti in Yemen: potrebbe averci azzeccato, andando a “coprire” una posizione rimasta scoperta.


Il dato più curioso è che il ruolo di “grande assente” non è stato assegnato a Sarah Palin (tuttora latitante sul suo torpedone), né a Jon Huntsman, che ha volutamente saltato questa tappa. La tattica “mi si nota di più se non vado” ha invece premiato uno che non solo non è ufficialmente candidato, ma apparentemente non sta muovendo un mignolo per esserlo, ossia il governatore del Texas Rick Perry, il quale incassa, del tutto gratuitamente, l'inserimento d'ufficio nella rosa dei maggiori potenziali antagonisti di Romney da parte di molti degli addetti ai lavoridal ragazzo prodigio dei sondaggi Nat Silver , al suo conterraneo texano, ex spin doctor di Bush e McCain, Marc McKinnon.

venerdì 10 giugno 2011

(ANCORA) TEXAS CONTRO CALIFORNIA


Mentre gli ultimi infausti dati sull’occupazione fanno rabbrividire l’attuale amministrazione, ed il precoce naufragio della candidatura di Newt Gingrich alimenta le speculazioni sulla tentazione del governatore del Texas Rick Perry di “provarci”, oggi il Wall Street Journal esce con un editoriale non firmato in cui si spiega, dati alla mano, che la fetta di gran lunga più cospicua di posti di lavoro creati negli USA (al netto di quelli persi) da quando si considera chiusa la fase di recessione ed iniziata quella di ripresa (giugno 2009), sono stati creati nel Lone Star State:
Il Texas è cresciuto di 265.300 nuovi posti di lavoro, sul totale dei 722.200 a livello nazionale, ed è quindi di gran lunga più avanti di qualunque altro Stato. Lo Stato di New York è il secondo con appena 98.200, la Pennsylvania è terza con 93.000. In nove Stati sono stati creati meno di diecimila posti di lavoro, mentre Maine, Hawaii, Delaware e Wyoming crescono di meno di mille. In diciotto Stati i posti di lavoro, da quando è iniziata la ripresa, sono diminuiti. […] La California, che pure è lo Stato più grande, ha perso11,400 posti.
[...]
Eppure, l’essenza della “Obamanomics” è di rendere l'America meno come il Texas e più come la California: con più intervento statale, più i sindacati, più pianificazione centrale, tasse più alte. Che sia il primo ad aver aggiunto il 37% dei nuovi posti di lavoro degli Stati Uniti suggerisce che si tratti di un errore epocale.
Lo so, è un mio chiodo fisso. Ma i fatti non mi danno ragione di schiodarmi - anzi.

(continua)

giovedì 9 giugno 2011

LA DOTTRINA OBAMA PER LO YEMEN

Tanto per non perdere il filo:
- in Yemen c’è una dittatura, ma l’opposizione è infestata da Al-Qaeda e il dittatore (in sella dal 1978) è-era tendenzialmente filo-USA, quindi “il nostro figlio di puttana” nell'accezione di rooseveltiana memoria: donde l’applicazione del modulo pakistano anziché di quello libico.
- in quest’ottica nel 2009 l’amministrazione Obama, pochi giorni dopo che il Presidente veniva insignito di non ricordo più quale onorificenza, aveva varato, di comune accordo con il locale regime, una campagna “segreta” – cioè ufficialmente smentita - di bombardamenti (con la formula C.I.A./Pentagono destinata ad imperare nell’era post-Bush, più o meno come quella Disney/Pixar). Il New York Times l’aveva definita “la terza guerra di Obama”, nel senso che si sommava al fronte afghano e a quello irakeno (scorporando il Pakistan, che per molti è incluso nel prezzo della guerra in Afghanistan, la Libia - che all'epoca era ancora molto di là da venire - si pottrebbe quindi definire la quinta).
- la “guerra segreta” in Yemen, fatta di bombardamenti ma anche di supporto alle milizie di regime, è proseguita ad intermittenza sino ad oggi, trasformandosi però via via in un’operazione sempre meno “antiterroristica” e sempre più “antisommossa”. Anche perché nel frattempo si è inserita la versione locale della “primavera araba”, e Obama, per evitare che il dittatore yemenita cascasse di botto come era accaduto Mubarak, lo ha dapprima convinto ad accettare una uscita di scena molto graduale, limitandosi a brontolare un po’ quando faceva sparare sulla folla in stile Gheddafi, salvo poi scaricarlo tout court quando si è capito che non avrebbe retto oltre.

Ecco.
Ora, la notizia di oggi è che siccome non si è ancora trovato nessuno per tamponare il buco, la C.I.A. e il Pentagono - che dai cruise lanciati dalle portaerei erano da tempo passati ai bombardamenti con i droni (appunto: modulo pakistano) -, hanno intensificato massicciamente i bombardamenti, per evitare che qualcuno approfitti del vuoto lasciato dal dittatore scaricato il quale frattanto è dovuto riparare a Riad più morto che vivo. Fermo restando, naturalmente, che nessuna guerra è mai stata formalmente "dichiarata" in Yemen (nè è mai stata adottata alcuna risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, o altre carabattole simili).

C’è chi lo definisce conseguenzialismo.