Ieri sera in New Hampshire (dalle due alle quattro del mattino ora italiana) si è tenuto il “primo vero” confronto fra gli aspiranti candidati repubblicani alla Casa Bianca, posto che in quello tenutosi ai primi di maggio in South Carolina mancavano ancora quasi tutti i candidati di un certo peso.
Gestito e trasmesso in diretta dalla CNN, (per la serie: “servizio pubblico e televisione privata in un Paese Libero”), il dibattito si è tenuto con un format davvero pessimo: una mitraglia di domandine, con mezzo minuto a testa per rispondere e zero spazio per i confronti diretti tra un concorrente candidato e l'altro. Il tutto aggravato dal giochino "questo o quello" con quiz demenziali tipo "ti piace di più la pepsi o la coca cola", oppure l'IPhone o il BlackBerry, la pizza spessa o sottile, e così via (vedasi il blog di Andrea Salvadore per una cronaca impeccabile di questo elemento faceto).
Facezie a parte, si è capito subito sin troppo chiaramente che, per motivi tattici, tutti i sette contendenti erano stati istruiti dai rispettivi spin doctor a tenersi per ora ben alla larga dalla rissa fra commilitoni (Joshua Green dell'Atlantic parla sornione di "festival dell'amore"), e a focalizzarsi solo sull'antagonismo rispetto al presidente in carica.
Facezie a parte, si è capito subito sin troppo chiaramente che, per motivi tattici, tutti i sette contendenti erano stati istruiti dai rispettivi spin doctor a tenersi per ora ben alla larga dalla rissa fra commilitoni (Joshua Green dell'Atlantic parla sornione di "festival dell'amore"), e a focalizzarsi solo sull'antagonismo rispetto al presidente in carica.
Il che ha reso particolarmente deludente la performance di Tim Pawlenty, dal quale tutti si aspettavano che saltasse alla giugulare di Mitt Romney per accreditarsi subito come sua alternativa, e che si è invece goffamente rifiutato (persino quando il moderatore lo ha esplicitamente incalzato) di ripetere il brillante neologismo “ObamneyCare” (crasi fra ObamaCare e RomneyCare, un po’ come quando da noi Marco Pannella parlava di “Veltrusconi”) che aveva lanciato appena il giorno prima con ritorno mediatico non banale – con il bel risultato che quella che per un attimo era parsa la prima battuta non noiosa della sua vita è suonata come un qualcosa a metà strada tra un “qui lo dico e qui lo nego” e un colpo partito accidentalmente mentre puliva il fucile.
Se T-Paw ha miseramente mancato l'obiettivo di smarcarsi dalla seconda fila (tanto che più di un maligno oggi si chiede se non stia già volutamente ripiegando sul posto da vice), simmetricamente Romney ha centrato quello di uscire indenne, dato che per ora nessuno ha voluto fare a botte con lui né tanto meno approfittare del suo tallone d'achille - ossia le sue incoerenze in tema di riforma sanitaria e di aborto. Mitt incassa così, sin troppo indisturbato, il ruolo di protagonista ed il plauso di tutti i commentatori, nessuno escluso.
Plauso unanime - del tipo "wow, l'avevamo sottovalutata" anche alla teapartier Michele Bachmann, che è riuscita a sorprendere sfuggendo al cliché della fanatica impresentabile “fuori di testa”, e al contempo a non far sentire la mancanza di Sarah Palin.
Altrettanto unanime la constatazione che, come era ovvio, la “bolla” Herman Cain si è prontamente sgonfiata al primo “vero” dibattito.
Il blabla si è ovviamente concentrato su economia, tasse ed occupazione, e su questo tutti si sono indistintamente attenuti al solito generico copione reaganiano.
Quanto alla politica estera, si è confermato che l’attuale mainstream nel GOP è di giocare sull’insofferenza per le troppe imprese belliche in corso nel mondo, dalla Libia – avventura criticata un po’ da tutti – all’Afghanistan (Romney: "It’s time for us to bring our troops home as soon as we possibly can”). Più o meno lo stesso andazzo che in epoca pre-Obama era bandito come vergognoso disfattismo, e che ora molti per comodità etichettano sbrigativamente come “isolazionismo”, grossolana esagerazione lessicale che capita persino di vedere affiancata da quella ancor più iperbolica di “pacifismo”. Provocazioni intellettuali a parte, in realtà si tratta solo del solito vecchio realismo che George W. Bush nel 2000, prima di essere “aggredito dalla realtà”, vendette come “umiltà” agli elettori stufi dell' "interventismo umanitario" di Clinton. L’unico a distinguersi è stato Pawlenty, che ha fatto la mossa di dirsi d'accordo con i bombardamenti in Yemen: potrebbe averci azzeccato, andando a “coprire” una posizione rimasta scoperta.
Il dato più curioso è che il ruolo di “grande assente” non è stato assegnato a Sarah Palin (tuttora latitante sul suo torpedone), né a Jon Huntsman, che ha volutamente saltato questa tappa. La tattica “mi si nota di più se non vado” ha invece premiato uno che non solo non è ufficialmente candidato, ma apparentemente non sta muovendo un mignolo per esserlo, ossia il governatore del Texas Rick Perry, il quale incassa, del tutto gratuitamente, l'inserimento d'ufficio nella rosa dei maggiori potenziali antagonisti di Romney da parte di molti degli addetti ai lavori, dal ragazzo prodigio dei sondaggi Nat Silver , al suo conterraneo texano, ex spin doctor di Bush e McCain, Marc McKinnon.
I sette nani ci sono,manca il principe azzurro :-D
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