giovedì 19 marzo 2009

TENETE BENE D'OCCHIO QUEST'UOMO


È ufficiale: come avevo segnalato parecchio tempo fa, Ivo Daalder sarà il prossimo ambasciatore USA presso la NATO.

E questa potrebbe essere una notizia molto significativa. I media europei la stanno pressoché ignorando, ma in Russia è stata oggetto di attenzione quasi isterica: venerdì scorso l'autorevole quotidiano economico moscovita KOMMERSANT (diciamo una sorta di Sole24Ore russo - manco a dirlo di proprietà della Gazprom) è uscito con un articolo in cui si ipotizza che al summit celebrativo dei 60 anni della NATO che si terrà, con la partecipazione straordinaria del presidente Obama, fra due settimane, il 3 e il 4 di aprile, a Strasburgo (Francia, al confine con la Germania) e nell'adiacente Kehl (Germania, al confine con la Francia - a proposito: la Francia ovviamente parteciperà nel ruolo del celebrato figliol prodigo tornato alla casa del padre), gli americani potrebbero presentarsi squadernando sul tavolo una proposta rivoluzionaria di “de-regionalizzazione” dell’Alleanza, aprendo le porte al Giappone, all’Australia e alla Corea del Sud (per ora), e si fa il nome di Daalder come principale ispiratore di questo complotto.

Il perché è presto detto. Nato in Olanda e poi “americanizzatosi” con il matrimonio, autore di svariati brillanti saggi (l’ultimo, uscito poche settimane fa, ricostruisce la storia di tutti i Consiglieri per la Sicurezza Nazionale succedutisi dai tempi di Kennedy ad oggi), Daalder, che negli anni Novanta del secolo scorso aveva coordinato la politica per la Bosnia sotto la presidenza di Bill Clinton, per la quale lavorò come direttore degli Affari Europei al National Security Council, è un liberal “falco”: uno, per intenderci, che nel 2005 ha aderito all’appello con il quale il Project for a New American Century (il think-tank spesso additato come una sorta di “cupola” della lobby neoconservatrice), chiedeva a Bush di aumentare le truppe in Iraq (l’idea poi maturata nel “surge” del 2008).

Ma c’è in ballo qualcosa di molto, molto più specifico.

Daalder si era fatto notare nel 2004 con un corsivo sul Washington Post (scritto assieme a James Lindsay, con il quale l'anno prima aveva firmato un pamphlet piuttosto anticonformista, poi pubblicato anche in Italia) in cui proponeva l’istituzione di una “Alleanza delle Democrazie” chiamata a svolgere una ruolo di “punto focale della politica estera americana, analogamente a ciò che la NATO ha rappresentato durante la Guerra Fredda, ma su base non-regionale”; un club non aperto a tutti i Paesi “sedicenti” democratici, ma severamente “limitato ai paesi dove la democrazia è così radicata da ritenere impensabili processi regressivi verso forme autocratiche di potere”.
Successivamente, in vista del vertice NATO di Riga del novembre 2006, in cui si sarebbe discusso di possibili “allargamenti” dell’Alleanza Atlantica (in particolare dell’annessione al club di Ucraina e Georgia, “vale a dire Paesi che sono per Mosca ciò che il Messico e Cuba sono per Washington”, per dirla con le parole di Sergio Romano), Daalder pubblicò su Foreign Affairs un saggio , stavolta scritto a quattro mani con James Goldegeir della George Washington University, dall’eloquente titolo GLOBAL NATO, in cui in sostanza tentava di riformulare la medesima proposta inserendola però nell’ottica di una radicale ristrutturazione del “contenitore esistente” rappresentato dalla NATO.
In un mondo in cui dei terroristi nati in Arabia Saudita e addestrati nei campi afghani elaborano ad Amburgo il piano di come dirottare aerei contro grattacieli a New York, la NATO – scrivono Daalder e Goldeiger in questo saggio (che guarda caso uscì in russo proprio sul KOMMERSANT) – è chiamata a “globalizzarsi”, ad andare molto al di là della dimensione “regionale” in cui nacque, aprendosi alla potenziale adesione “di qualunque Stato del pianeta che si mostri intenzionato e capace di contribuire a far fronte a quello che oggigiorno sono le nuove responsabilità della NATO”; laddove le “nuove responsabilità” (in contrapposizione a quelle “vecchie” che consistevano nella difesa territoriale dell’area euroatlantica) sono da intendersi come “combattere problemi globali in difesa dei valori e degli interessi comuni a tutti i paesi democratici”. Daalder propone quindi una NATO che includa ben altro che la Georgia e l’Ucraina: porte aperte ad Australia, Brasile, Giappone, India, Nuova Zelanda, Sud Africa, Sud Corea…. Insomma, una versione istituzionalizzata della “coalition of willing” di bushiana memoria.
Sul piano operativo, la proposta era quindi quella di emendare l’articolo 10 del trattato istitutivo della NATO (che attualmente limita a “Paesi Europei” la possibilità di entrare a far parte dell’Alleanza), fermo restando però l’art.5, ossia la “clausola di solidarietà” ai sensi della quale l’attacco sferrato contro un membro dell’Alleanza equivale ad un attacco contro la NATO nel suo complesso, ed impegna quindi gli alleati a dare aiuto al membro attaccato.

Lì per lì l’idea non ebbe aulcuna fortuna. A ridosso del vertice di Riga si tenne un seminario proprio sul tema “Global NATO: Overdue or Overstretch?” ("NATO Globale: troppo o troppo tardi?"), nel quale il Segretario Generale della NATO Jaap de Hoop Scheffer (il cui mandato, per inciso, è in scadenza proprio in questi giorni) si scagliò letteralmente contro quella proposta: non abbiamo bisogno di globalizzarci, non vogliamo diventare il “gendarme del mondo”, ognuno faccia il suo mestiere, ecc.
Non solo il vertice di Riga non portò a sviluppi nel segno di una “globalizzazione” della NATO: al contrario, si chiuse con un clima di "gelo" tra gli USA e gli alleati sulla questione dell' "allargamento ad Est", e fu seguito da quello di Bucarest dell’aprile 2008 in cui gli USA, sotto la pressione dei principali governi europei, accettarono di accontentare i russi accantonando a tempo indeterminato il progetto di adesione alla NATO di Georgia e Ucraina.

Daalder però non si è dato per vinto.

Nell’agosto del 2007, ha scritto un corsivo sul Washinton Post in tandem con il famigerato Bob Kagan (qui ben noto all'ufficio), tornando a proporre un “Concerto di Democrazie” sul genere di quello da lui già proposto del 2004.
Kagan di lì a un anno è divenuto il principale ispiratore (nonché avvocato difensore) della proposta con la quale il candidato repubblicano alla Casa Bianca John McCain connotò il suo programma di politica estera: il senatore dell'Arizona promise che, se eletto, nel primo anno della sua presidenza gli USA avrebbe indetto un summit internazionale per gettare le basi di una “Lega delle Democrazie”, una nuova istituzione che “potrebbe intervenire laddove l’ONU fallisce”; ad esempio “nel coordinare le pressioni sul regime birmano, o su quello dello Zimbabwe, o nell’imposizione delle sanzioni su quello iraniano; e nel dare supporto alle democrazie in difficoltà in Serbia e in Ucraina”.
Nello stesso periodo, Daalder ha invece lavorato sul fronte opposto, nel faraonico staff della trionfale campagna elettorale di Barack Obama, dove però si è occupato d’altro, essendo stato messo a capo di un gruppo di quaranta consulenti che si occupavano di proliferazione nucleare.

Ora, su svariati siti internet rimbalza la teoria secondo la quale la nomina di Daalder alla NATO da parte del presidente Obama rivelerebbe le mire che la nuova Casa Bianca nutre sul futuro dell'Alleanza Atlantica (e non solo).

Volesse Iddio, aggiungiamo noi.

Intanto, due giorni fa la Associated Press ha raccolto una dichiarazione del ministro della difesa francese Herve Morin , il quale si oppone alla opzione di una “NATO Globale” e insiste affinchè nessuna espansione dell’alleanza abbia luogo senza previe trattative con la Russia; e l’ha posta in aperta contrapposizione con la posizione di Daalder.

Che sia l’inizio di qualcosa di interessante?

mercoledì 11 marzo 2009

NOSTALGIA DI BUSH? KAGAN GUARDA AL (PROPRIO) FUTURO


A volte gli intellettuali sono più furbi dei politici.

Leggete questo corsivo di Bob Kagan sul Washington Post: la tesi (provocatoriamente eccentrica rispetto a quanto letto in giro nei giorni scorsi) è che la scarsa considerazione, da parte dell'Amministrazione Obama, per i diritti umani e la sua - tipicamente "realista" - scarsa propensione ad impiegare la leadership golbale americana per la promozione della democrazia nel mondo, sarebbe un elemento di continuità, non di discontinuità, rispetto alla presidenza Bush.
In fondo, dice Kagan, Bush ce l'ha smenata per anni con la famigerata "freedom agenda" più che altro a parole; nei fatti, luoghi comuni e chiacchiere retoriche a parte, la mitica "esportazione della democrazia" bushiana si è esaurita - dice (ora) Kagan - in un pur pregevole impegno in Ukraina, in Georgia e in Libano. Mentre al contempo, Bush:

- non risulta aver fatto nulla contro la regressione antidemocratica della Russia;
- "clintonianamente", non ha lasciato che la questione dei diritti umani interferisse nel fare affari con la Cina;
- ha sostenuto ad oltranza il regime pakistano di Musharraf;
- nel 2005 ha omesso di sostenere Mubarak nella democratizzazione dell'Egitto, e dal 2006, dopo che Hamas ha vinto le elezioni in Palestina, si è sostanzialmente disinteressato della democratizzazione del Medio Oriente in genere;
- se l'è fatta con dittatori e despoti vari in Kazakistan, in Azerbaijan, in Arabia Saudita.

Quanto alla guerra in Iraq e a quella in Afghanistan, sono state iniziative che andavano nella giusta direzione, ma gestite nel modo sbagliato sotto il profilo della strategia militare impiegata.

Morale della favola: secondo Kagan, se davvero Obama vuol realizzare un change rispetto all'era Bush, deve inaugurare non una stagione di disimpegno, ma al contrario una di impegno molto più concreto, sul fronte della "esportazione della democrazia": ovvero, deve essere.... molto più "kaganiano".
Bella mossa.

giovedì 5 marzo 2009

RIENTRARE NEI GIOCHI


"Nel “ni” alle offerte di Obama c’è impressa a chiare lettere la controfferta di Mosca: l’apertura di un dialogo con la nuova amministrazione che abbia come oggetto l’equilibrio strategico, ma anche una risistemazione complessiva del Medio Oriente che porti al rientro della Russia nei giochi regionali. Da tempo, Mosca si sta muovendo in questa direzione".

Oggi su L'Occidentale, una attenta analisi, a firma Pietro Batacchi, delle questioni che annotavamo qui due giorni fa

WALZER CON BASHIR

Un esperimento. Una “terza via” fra l’appeasement tipico della realpolitik europea e l’interventismo militare tipicamente amerikano (uno dei flop clintoniani andò in onda 10 anni fa proprio in Sudan, e rimase celebre anche sul grande schermo).
Un regime change per via internazional-giudiziaria.
Mossa molto ambiziosa, forse velleitaria.

Questi processi oramai non sono fatti eccezionali. Giusto lunedì scorso era cominciato a l'Aja il processo sull'assassinio di Rafiq al-Harari, il premier libanese. E sempre a l'Aja Charles Taylor, già dittatore della Liberia, è sotto processo davanti a un tribunale internazionale speciale internazionale per i crimini di guerra in Sierra Leone. E Thomas Lubanga, signore della guerra congolese, è anche lui sotto processo alla ICC. E il mese scorso un tribunale "ibrido" ONU-Cambogia ha cominciato a processare “Duch”, un ex comandante dei Khmer Rossi.

Ma il caso di Bashir è diverso: per la prima volta, si vorrebbe processare un capo di stato mentre è in carica.
Nemmeno con Milosevich si arrivò a tanto: quando venne incriminato era già di fatto "uscente".

Al lato pratico, c’è un però.
Quando gli è stato notificato il mandato di arresto spiccato dalla Corte penale internazionale dell'Aja, Bashir era intento ad inaugurare una mostruosa, gigantesca diga sul Nilo con annessa titanica centrale idroelettrica, il tutto costruito, pensa un po', dai cinesi.

Già: i cinesi. Il regime sudanese, orfano dei faraonici investimenti di Bin Laden degli anni Novanta, è stato “salvato” negli ultimi anni da quelli di Pechino. Il Sudan è uno degli stati più poveri del mondo, senza massicci interventi esterni non è in grado di reggersi da solo (tanto per intenderci: noi ci preoccupiamo delle recessione, loro della carestia). Ma nel sottosuolo ha il petrolio, e si sa che i cinesi preferiscono approvvigionarsene affiliandosi qualche tiranno piuttosto che acquistandolo sul mercato (mica solo in Africa: nel 2006 il Venezuela di Chavez ha autorizzato le imprese cinesi a ricercare petrolio sia su terraferma sia off-shore, e nello stesso periodo anche il regime cubano ha stipulato un “accordo di cooperazione” con quello cinese per lo sfruttamento del grande giacimento di petrolio che si trova sotto i fondali marini dello stretto della Florida).
Ecco perché in questi anni la Cina ha difeso Bashir e i suoi killer, ponendo il veto nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU contro le sanzioni del genocidio in Darfur (anche dopo che, nel luglio del 2008, il procuratore capo del Tribunale Penale Internazionale ha chiesto il mandato d'arresto per genocidio concesso ieri).
Li ha difesi e li ha armati. Stando ai dati dell’ ONU, l’88% delle armi da fuoco importate in Sudan (violando l'embargo) sono di produzione cinese. Secondo la BBC, sono di fabbricazione cinese anche i bombardieri usati per massacrare i civili in Darfur, e la Cina si fa carico persino di addestrarne i piloti.

Forse ha ragione chi liquida come infondate e immorali le obiezioni dei “realisti”; è giusto però porsi il problema dei rischi connessi alla eventualità che Bashir se ne resti bel bello al suo posto, grazie alla protezione dei suoi padrini. Oggi intervistato sul Corriere lo fa Michael Walzer, un liberal ma non una mammoletta. E in definitiva spiega che se ne uscirà qualcosa di buono, sarà solo con una riconversione della "ingerenza" da giudiziaria a militare.

Oltreoceano, per ora, dalla Casa Bianca e dal Dipartimento di Stato un mix di "no comment" e di dichiarazioni iperprudenti. In stile quasi europeo, diciamo. Una timidezza della quale non è difficile ipotizzare le ragioni...
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UPDATE - Scetticismo sul sito de Il Foglio: "Il primo effetto del mandato d’arresto è che i ribelli, gli stessi che avevano siglato la pace a febbraio, si sono subito rimangiati l’accordo. Il secondo effetto è che Khartoum ha ordinato l’evacuazione forzata del personale di Medici senza frontiere, che in molte zone alla fame del paese è la sola organizzazione umanitaria. E Bashir appare così poco scosso da annunciare già visite all’estero".

mercoledì 4 marzo 2009

GOODBYE DIRITTI UMANI?

Mai visto un Michael Barone tanto incazzato:

"Una freccia nella faretra della politica estera americana è sempre stata il nostro esercitare pressioni sui regimi dittatoriali - talvolta sottovoce (come con gli accordi di Helsinki), talvolta con recite teatrali ("Sig. Gorbaciov, abbatta questo muro!") - affinché rispettassero i diritti umani. Hillary Clinton ha messo quella freccia sotto il suo ginocchio, l'ha spezzata in due e l'ha buttata via. E non è la sola. In questo, così come su altre questioni, si sta attenendo all'andazzo impresso da colui che l'ha sconfitta alle primarie democratiche. Nel suo discorso inaugurale, Barack Obama si è limitato ad una minima menzione dei diritti umani. E nel suo discorso del 26 febbraio davanti al Congresso, ha dedicato appena il 7% delle sue parole alle politiche estere e di difesa, ed ha pronunciato una sola volta la parola "libertà". Pare inoltre che sia ben determinato nel nominare a capo del National Intelligence Council un personaggio che approvò la repressione da parte del regime cinese del movimento studentesco pro-democrazia in Piazza Tienanmen nel 1989. E ha registrato con fredda indifferenza il successo delle recenti elezioni amministrative in Iraq".
[...]
"Nemmeno quando a portare avanti la causa dei diritti umani fu Ronald Reagan, nelle Filippine come contro l'Unione Sovietica, la sinistra osò dichiarare che fosse meglio rimanere indifferenti rispetto alla opportunità di espandere la democrazia e la libertà nel mondo. Ma ora sembra intenzionata a farlo, per il gisto di ripudiare dalla a alla z ogni politica che sia stata fatta propria da George W. Bush. Qualcuno dovrebbe forse far presente che una granitica indifferenza rispetto alla libertà altrui non è una cosa molto di sinistra - e non è una cosa molto generosa, nè molto attraente".

martedì 3 marzo 2009

SE OBAMA GIOCA ALLA ROULETTE RUSSA

Oggi sulla prima pagina de Il Foglio trovate una doppia colonna di spalla sinistra contenente:

1) un articolo “americano” (presumo di Christian Rocca) in cui si dà conto di come il Pentagono abbia annunciato che l’Iran è già in possesso dell’uranio arricchito sufficiente a farsi l’atomica - e ciò facendo ha sputtanato la CIA che nel 2007 cautamente parlava di un rischio concreto solo a partire dal 2012 (ma sarebbe opportuno precisare: la CIA bushiana, ché il nuovo capo di quella Obamiana è partito zufolando tutt'altra musica...) [DAY-AFTER UPDATE: 24 ore dopo il WSJ rincara la dose segnalando che la sortita del Pentagono si basa sull'ultimo rapporto dell'IAEA, l'organismo dell'ONU preposto a vigilare sulla proliferazione nucleare];

2) un articolo “romano” (scritto leggendo il Financial Times di ieri) in cui si racconta di un rapporto dell’Institute for Near East Policy che avverte la Casa Bianca del fatto che, ormai, l’unica via per stoppare Teheran è quella di mettersi d’accordo con il Cremlino, posto che sarebbero i russi a fornire all’Iran “la nuova versione dei missili SS300 e i sofisticati sistemi di difesa aerea” che renderebbero potenzialmente operativo l’arsenale nucleare dei Mullah, con “un contratto da 800 milioni di dollari che Medvedev ha “congelato” in attesa del prossimo vertice USA-Russia” . e in cui si segnala che “Ieri Mosca ha offerto a Teheran di quotare il greggio alla Borsa di San Pietroburgo,aggirando così le sanzioni”.

3) un editoriale del direttore in cui si sospira: “Se Obama dedicasse alla prevenzione del nucleare iraniano la stessa ferma volontà che ha impiegato nel seguire e consolidare la strategia irachena portata a compimento dal predecessore, ci sarebbe da leccarsi i baffi”...

A questo trittico manca decisamente un quarto tassello: Ieri il NYT ha messo a segno un discreto scoop, rendendo pubblica la soffiata di un anonimo funzionario dell’attuale amministrazione, stando alla quale il mese scorso il presidente Obama avrebbe fatto recapitare nelle mani del premier russo Medvedev una “lettera segreta” (ehm...) con la quale offriva l’abbandono del piano americano di scudo spaziale da installare nell’Europa dell’Est (Rep. Ceca e Polonia), in cambio di una rinuncia da parte dell’Iran di dotarsi di ordigni nucleari e di missili balistici.

E guarda caso, nelle stesse ore il ministro degli esteri russo preannuncia proposte di rinegoziazione globale del disarmo balistico, che coinvolgano anche Teheran.

Guardando questo quadretto, mi torna in mente un'analisi sorprendentemente datata, di quasi un anno e mezzo fa, nella quale Victor Zaslavsky si domandava "se Putin cerca di ingannare Ahmadinejad promettendogli l’appoggio al programma nucleare o piuttosto gli americani dichiarandosi pronto ad impedire la costruzione della bomba atomica iraniana", e giungeva alla conclusione che "Putin intende giocare la carta di Ahmadinejad per strappare concessioni agli americani e spingerli a rivedere la loro intenzione d’installare missili in Polonia e il sistema radar nella Repubblica Ceca".
Se davvero la nuova amministrazione USA si stesse rassegnando ad accettare quell'affare, il prezzo della nuova strategia per fottere Teheran sarebbe quello di concedere a Putin la creazione - uso le parole di Robert Kagan - di "una zona di influenza all'interno della Nato, con uno status di sicurezza inferiore per i paesi lungo i confini strategici della Russia".
PS - LATE NIGHT UPDATE - Il Presidente in serata "smentisce" lo scoop del NYT, ma le virgolette sono d'obbligo: a ben vedere, si tratta, in buona sostanza, di una vera e propria conferma.