giovedì 27 giugno 2013

#LOVEISLOVE?

Un passaggio storico, ma con tanti “se” e tanti “ma”. Ieri dichiarando incostituzionale la “sezione 3” del Defense of Marriage Act, la legge del 1996 che stabiliva che per il governo federale il matrimonio è solo l’unione fra un uomo e una donna, la Corte Suprema ha di fatto aperto alle numerose coppie gay americane sposate l’accesso a molti benefici, soprattutto fiscali e di welfare, previsti da leggi federali; ma lo ha fatto senza toccare la “sezione 2” della stessa legge, quella che accorda a ciascuno dei cinquanta Stati il diritto di non riconoscere i matrimoni tra coppie omosessuali celebrati e riconosciuti in un altro Stato. Quindi per il movimento americano per i diritti degli omosessuali una vittoria importante ma parziale, che non mette in discussione l’autonomia dei singoli Stati di mantenere le normative locali ancorate alla definizione “tradizionale” di matrimonio come unione eterosessuale. Bizzarro che questa soluzione fondamentalmente federalista – nel senso di rispettosa della autonomia dei singoli Stati, orientamento che solitamente, dai tempi del New Deal, è amato dai giudici più conservatori – sia stata adottata da una maggioranza di cinque giudici formata da Anthony Kennedy, il centrista ago della bilancia per antonomasia, e dai quattro giudici di orientamento liberal, mentre i quattro giudici conservatori hanno votato contro.

Ancora più ambigua l’altra sentenza emessa ieri dalla Corte Suprema sulla questione dei matrimoni omosessuali: si tratta della decisione sul caso del referendum “Proposition 8” che nel novembre del 2008, nel giorno della prima elezione di Barack Obama alla Casa Bianca, aveva introdotto il divieto di nozze gay nella Costituzione della California. Questa causa, intentata nel maggio del 2009 da una coppia lesbica che aveva impugnato davanti al Tribunale federale di San Francisco il rifiuto della contea di trascrivere il loro matrimonio, era frutto di una precisa strategia accuratamente pianificata da un team animato da Chad Griffin, uno dei principali strateghi politici del movimento gay statunitense, e patrocinata da un super collegio legale con il preciso scopo di indurre la Corte Suprema a dichiarare incostituzionali anche le norme che in molti dei singoli Stati impediscono il riconoscimento delle nozze gay, proprio come accadde esattamente dieci anni fa quando la Corte – anche in quel caso con il voto decisivo di Anthony Kennedy, che anche allora fu l'estensore della sentenza - decretò l’incostituzionalità della legge del Texas che vietava la sodomia, facendo “saltare” tutte le leggi contro la pratiche omosessuali sino ad allora vigenti in molti Stati del Sud. E invece, ieri sul caso californiano la Corte ha deciso di non decidere, con una sentenza pilatesca che, creando un precedente ad oggi inedito, ha giudicato improcedibile il ricorso per via della decisione delle autorità statali californiane di non battersi per difendere il risultato del referendum del 2008. Il divieto di matrimoni gay viene quindi eliminato, ma solo in California e solo tenendo buona la sentenza che lo aveva già fatto limitatamente a quel caso, senza che il principio venga in alcun modo esteso agli altri 49 Stati dell’Unione.
In effetti questa vittoria, proprio perché decisamente parziale e di portata molto contenuta, è esattamente il genere di compromesso cui puntava il presidente Obama – il quale nel 2008 si era proclamato contrario “come cristiano” al matrimonio omosessuale, ma poi nel maggio dell’anno scorso aveva annunciato di aver cambiato idea, seppure solo “a titolo personale”, ed in seguito ha più volte utilizzato il riferimento ai pari diritti per gli omosessuali per connotare i suoi discorsi pubblici, da quello di inaugurazione del suo secondo mandato presidenziale (è stato il primo presidente della storia a pronunciare la parola “gay” in un simile contesto),fino al comizio tenuto a Berlino una settimana fa.

A febbraio, nell'ultimo giorno utile, la Casa Bianca aveva preso posizione chiedendo alla Corte Suprema di pronunciarsi contro il divieto di matrimoni gay in California, ma nel farlo si era ben guardata dal chiedere una pronuncia che decretasse che l’accesso all’istituto del matrimonio debba essere immediatamente accordato alle coppie omosessuali in tutti i 50 Stati dell’Unione. La pronuncia “minimalista” di ieri ha decisamente esaudito questo auspicio: vi è di che sospettare che alla Casa Bianca si sia esultato soprattutto per questo, anche se ovviamente la comunicazione politica del caso ha cercato di colorire il tutto in modo molto più romantico:

Propaganda a parte, la verità è che il prosieguo di questa storia sarà molto complicato. Parlare di “vittoria di Pirro”, come accadeva ieri sul popolare sito Talking Points Memo, potrebbe non essere eccessivo, se si considera che non solo i fautori delle nozze gay hanno mancato l’obiettivo più ambito, ossia il riconoscimento della parità di accesso all’istituto del matrimonio come diritto costituzionale, ma che ora la battaglia si sposta nei singoli Stati, che attualmente sono in maggioranza governati dai repubblicani: impressionante come sulla mappa gli Stati “rossi”  coincidano quasi del tutto con quelli nei quali i matrimoni gay sono - e restano - vietati). Anchenell'editoriale del New York Times di oggi si parla di "occasione storica mancata", e di una Corte Suprema trattenuta dall'idea che il Paese non fosse ancora pronto per una svolta più importante. Le due sentenze di ieri, tecnicamente, sono l’esatto contrario di ciò che fu 40 anni fa la storica sentenza nel caso “Roe contro Wade”: se in quel caso, nel decidere della libertà della donna di scegliere di abortire, la Corte Suprema impose con un colpo d’accetta una soluzione radicale in tutti gli Stati Uniti, sottraendo la questione alla potestà dei parlamenti democraticamente eletti (sia quello federale che quelli locali dei singoli Stati), ieri invece i nove giudici hanno optato per una soluzione antitetica. Anche dopo le sentenze di ieri, esiste un'America "con" i matrimoni gay ed una "senza": in quella "con" vivono oltre novanta milioni di americani, quasi un terzo della popolazione Usa - una parte molto consistente, ma pur sempre una minoranza. E ora? E ora si prospetta una battaglia “Stato per Stato”, che potrebbe anche durare generazioni, come per la questione della pena di morte.
Uscito su America24

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