martedì 31 gennaio 2012

CHE FINE HA FATTO JEB BUSH?


A quanto pare la vittoria che Mitt Romney si avvia a mettere a segno oggi nella primaria della Florida non porterà il marchio di nessuna delle due superstar della politica del Sunshine State. Ho scritto qualche giorno fa di quanto Marco Rubio si sia fatto notare per non aver concesso a nessuno il suo ambito endorsement; altrettanto assordante è stato in questi giorni il silenzio mantenuto dall'altro "pezzo grosso" dello Stato, Jeb Bush.
Che il "fratello furbo" dell'ex presidente, nonché "figlio furbo" dell'altro ex presidente, sia in un modo o nell'altro destinato a diventare in futuro il terzo presidente Bush (mettendo a segno la tripletta dinastica nella quale non sono riusciti nemmeno i Kennedy) è un luogo comune che ci ripetiamo in tutte le salse da almeno sette anni. Magari invece non accadrà mai, e Jeb resterà solo uno stimato ex governatore della Florida. Di certo però in questi tempi in cui il campo repubblicano soffre per il vuoto di leadership e il livello infimo dei candidati, gli occhi restano puntati su di lui come su pochi altri.
Quando un paio di mesi fa, in prossimità dell'inizio delle primarie, Jeb è uscito sul Wall Street Journal con un appassionato corsivo in favore del libero mercato e contro l'invadenza dello Stato, è parso a tutti che si stesse preparando quanto meno a fare il kingmaker.



E invece no. Oggi si vota nel suo feudo, e lui niente. Zitto. Assente. Come mai Romney, che pure mesi fa aveva ricevuto pubbliche manifestazioni di stima da parte di Jeb, e che ha già incassato il sostengo ufficiale di papà Goerge H. W., non è riuscito ad ottenere l'appoggio di Jeb?
Ieri il New York Times, con un articolo che ha attirato molta attenzione (qui da noi ne parla oggi Guido Moltedo su Europa), ha rivelato che quell'endorsement è stato insistentemente chiesto, ma non è arrivato; ed ha azzardato la spiegazione che se lui si è negato, lo si deve essenzialmente al suo dissenso nei confronti della linea dura sbandierata da Romney in tema di immigrazione (tema che sta molto a cuore all'ex governatore, che ai suoi eccellenti rapporti anche personali con la comunità ispanica deve parte del proprio successo).
Il Times nota come Jeb abbia persino trovato il modo di non presenziare all'importante evento elettorale che l'Hispanic Leadership Network, l'associazione repubblicana pro-latinos della quale egli stesso è a capo, ha tenuto venerdì scorso a Miami. Aveva un'ottima giustificazione: doveva accompagnare papà in visita alla Casa Bianca. Ma a molti la sua presenza su quel divano accanto ad Obama, a migliaia di kilometri da dove si decidevano le sorti del duello tra Mitt e Newt, è parsa molto strana, quasi polemica.
Sul sito del Weekly Standard, Fred Barnes, direttore esecutivo del settimanale neoconservatore, avanza un paio di ipotesi più sofisticate: Jeb potrebbe aver preferito riservarsi di intervenire come kingmaker più avanti, casomai il voto in Florida non chiudesse la partita e si rendesse necessario l'intervento di un "pacificatore"; oppure avrebbe voluto tenersi disponibile come possibile vicepresidente (mah). O come possibile candidato presidente per la eventualità che si arrivasse alla cosiddetta brokered convention, cioé che si dovesse scegliere un candidato in sede congressuale a causa di un esito troppo risicato delle primarie. Fantapolitica, ma nel silenzio dell'interessato la fantasia galoppa.

lunedì 30 gennaio 2012

GUARDATE COSA STA LEGGENDO ADESSO BARACK OBAMA


Vi ricordate che cosa leggeva - che cosa voleva che noi sapessimo che leggeva - Barack Obama quando era solo un aspirante candidato alla presidenza?
Era il maggio di quattro anni fa, e lui pensò bene di mostrarsi ai giornalisti mentre brandiva una copia del saggio di Fareed Zakaria “L'Era Post-Americana”Strano titolo da esibire in campagna elettorale per un futuro presidente degli Stati Uniti.
L'autore, all'epoca direttore dell'edizione internazionale di Newsweek, teneva a precisare che il suo “non è un libro sul declino dell’America, ma sull’ascesa di tutti gli altri” (in seguito avrebbe ribadito il concetto anche su Twitter: “ho intitolato il libro “Il Mondo Post-Americano” proprio perché non penso che stiamo andando verso un mondo cinese, o indiano”).
Eppure è difficile non percepire una inclinazione “declinista” in quel libro:
Gli americani” osserva Zakaria “sentono che un nuovo mondo sta per nascere, ma hanno paura che esso sia disegnato in paesi lontani e da popoli stranieri. Guardatevi attorno. Il più alto grattacielo del mondo è a Taipei. La società a più elevata capitalizzazione di Borsa è a Pechino. La più grande raffineria del mondo è in costruzione in India.… Quella in atto è il terzo grande spostamento di potere nella storia moderna. Il primo fu l’ascesa dell’Occidente, attorno al XV secolo. Il secondo, alla fine del XIX secolo, fu l’ascesa degli Stati Uniti. Il terzo è l’ascesa degli altri”.
Ma questa ascesa, sostiene Zakaria, non va vissuta con preoccupazione, mettendosi sulla difensiva: Trattandosi di qualcosa di ineluttabile, bisogna accettarla e, con buona dose di realpolitik, fare buon viso a cattivo gioco:
“Il mondo post-americano turba gli americani, ma non dovrebbe. … Se il mondo che si va creando ha più centri di potere, quasi tutti divengono responsabili di ordine, stabilità e progresso. Invece che inseguire l'ossessione per i nostri interessi a breve termine , la nostra principale priorità dovrebbe essere quella di portare queste forze emergenti nel sistema globale, per integrarle ...Se la Cina, l’India, la Russia e il Brasile sentono di essere parte dell’ordine globale esistente, ci saranno meno pericoli di guerra, depressione, panico e crisi”.


Preso atto che Obama aveva scelto questo libro come manifesto della nuova politica estera che prometteva di dare all'America (un messaggio magari non per l'elettore medio, ma certamente per le classi dirigenti più istruite),Dwight Garner del New York Times chiese: “qualcuno sa con quale libro va in giro John McCain?”

La risposta non tardò a venire: il libro-simbolo dell'antagonista repubblicano era “Il Ritorno della Storia e la Fine dei Sogni”, scritto dal politologo neoconservatore Robert Kagan che della campagna presidenziale del senatore dell'Arizona era anche consulente per la politica estera.
La tesi di Kagan è perfettamente antitetica a quella di Zakaria: il ridimensionalmento della potenza americana non è affatto una prospettiva ineluttabile. E' semmai una scelta. L'ascesa di una nuova potenza va quindi valutata e gestita caso per caso: se si tratta di un Paese democratico sarà bene farselo alleato, ma se si tratta di una dittatura sarà un problema da affrontare a testa a alta, anche a costo di creare attriti.
La versione 2.0 della sua teoria quindi è che gli USA perdono terreno per propri problemi interni, non perché costretti a cedere il passo a nuove potenze emergenti: il “Mondo Post-Americano” è un mondo che soffre di un “vuoto di leadership”.

La settimana scorsa, in occasione del Discorso sullo Stato dell'Unione ed in vista della imminente campagna per la sua rielezione, il presidente è tornato ad esibire l'interesse per un saggio; ma stavolta l'autore non è più Fareed Zakaria, bensì proprio quel Robert Kagan che quattro anni fa fungeva da alter ego intellettuale – oltre che da consulente – del suo avversario. Il nuovo libro di Kagan, che si intitola “Il Mondo che l'America ha Creato”, per la verità non è ancora uscito (sarà in libreria il 14 febbraio), ma è uscita sulla rivista The New Republic una corposa anticipazione che il Presidente ha appassionatamente citato in lungo e in largo, paragrafo dopo paragrafo, in un incontro “riservato” con alcuni importanti giornalisti.
Peccato solo che anche stavolta Kagan sia consulente del suo (probabile) avversario, essendo ufficialmente uno degli advisor della campagna elettorale di Mitt Romney.

Il libro di Zakaria e quello di Kagan si contrapponevano quindi in una singolare rappresentazione allegorica delle due presidenze possibili; le critiche che i due autori formulavano reciporcamente più che ad una disquisizione accademica davano luogo ad una campagna elettorale parallela (Kagan: "Barack Obama è davvero il candidato del declino americano? A stare a sentire alcuni dei suoi sostenitori tra gli opinionisti di politica estera si potrebbe pensarlo. Ogni settimana Fareed Zakaria celebra il “realismo” di Obama, intendendo la sua passiva accettazione di “un mondo post-americano”. […] E’ vero che, come nota Zakaria, la ruota panoramica più alta del mondo è a Singapore e il casinò più grande a Macao. Ma se guardiamo a indicatori di potere più seri, gli Stati Uniti non sono in declino, nemmeno relativamente alle altre potenze […] Il pericolo del declinismo di oggi non sta nel fatto che sia vero, ma nella possibilità che il prossimo presidente agisca come se lo fosse”).
Tutto questo, però, accadeva un'elezione ed una Grande Recessione fa. Il mese scorso Zakaria (che nel frattempo è passato a scrivere per TIME) osservava che “se il 2011 ci insegna qualcosa, quel qualcosa è l'incapacità[dei Paesi “emergenti”] di esercitare più di tanto un'influenza al di fuori dei loro confini. Continuano a veder crescere le loro economie, ma si trovano tutti alle prese con sfide interne ed esterne che li rendono meno interessati e meno capaci di esercitare un potere su scala internazionale o anche solo regionale”.
Questa seconda versione è stata formulata da Zakaria in una appositaseconda edizione del libro; ma stavolta non è questo il volume che vedrete in mano a Barack Obama durante la campagna elettorale.

Obama, insomma, ci tiene a farci sapere che adesso non la pensa più come Zakaria, ma al contrario la pensa proprio come Kagan: cioé che bisogna guardarsi dalla tentazione “declinista”, e credere che da questa crisi si uscirà, come dalle precedenti, con una leadership globale americana forte e chiara.

venerdì 27 gennaio 2012

GINGRICH LUNARE, OBAMA MARZIANO


Detto fra noi: la promessa di Newt Gingrich di realizzare, se eletto presidente, una base lunare americana (che ieri segnalavo qui tra i morning must) non è la sparata da scolapasta in testa che molti giornalisti hanno voluto vedere. Questo tipo di uscite è normale quando si fa campagna elettorale in Florida, sulla cosiddetta Space Coast dove la NASA è il datore di lavoro di tantissime famiglie. Ciò nondimeno, l'argomento è talmente pittoresco che i giornalisti sono sempre tentati di buttarla in farsa. Nel giugno del 2008 il candidato repubblicano alla Casa Bianca John McCain, intervistato dal direttore di un quotidiano della Florida (appunto) si disse intenzionato, se eletto, a mandare un uomo su Marte. "Non ha precisato se quell'uomo sarà il senatore Barack Obama", ghignò Robert Barnes del Washington Post. In realtà neanche quella volta si trattava di una stravaganza: alla NASA tirava aria di tagli pesanti, e i voti di chi ci avrebbe rimesso erano su piazza.
E in effetti poco dopo l'elezione di Obama venne definanziato il “Programma Constellation”, cioé la pianificazione dell'attività della NASA così come stabilita dall'amministrazione Bush nel 2005, che prevedeva la missione su Marte ed anche – pensa un po' – la creazione di una base lunare entro il 2020 (proprio la scadenza del “secondo mandato” vagheggiato dall'incauto Gingrich).
Di lì a un anno però, siccome senza vincere nel Sunshine State non si viene eletti (né rieletti) alla Casa Bianca, Obama, bersagliato da proteste e petizioni (tra i firmatari anche il mitico astronauta Neil Armstrong, quello del piccolo passo eccetera), fece dietrofront ed annunciò, in un comizio al Kennedy Space Center in Florida (appunto) in occasione del decollo del'ultima missione dello Shuttle, l'intenzione di spedire astronauti americani su Marte entro il 2030. Ecco quindi un nuovo piano spaziale per il quale Obama ha esibito agli elettori lo stanziameto di sei miliardi di dollari, con creazione di nuovi 2.500 posti di lavoro. Promessa che il Presidente ha ribadito nel luglio dell'anno scorso, e che potremmo sentire nuovamente entro pochi mesi, in campagna elettorale.
Perché poi l'estroso Gingrich abbia deciso di parlare della missione lunare anziché di quella marziana, non è chiaro. Potrebbe semplicemente aver voluto differenziarsi dal Presidente; oppure potrebbe aver voluto giocare sul fatto che il programma marziano è talmente di lungo periodo che per ora non interessa la base NASA della Florida, dove si fanno i lanci, ma quella di Huntsville, nel nord dell' Alabama (per gli amici Rocket City), dove si lavora alla progettazione e alla realizzazione dei componenti.
Nel dibattito televisivo di ieri sera a Jacksonville l'argomento è stato puntualmente riproposto. Il vecchio Newt l'ha riformulato in versione più adatta alla platea nazionale: “voglio che ci arriviamo prima noi dei cinesi” (esattamente lo stesso tipo di suggestione usata da Obama nel discorso sullo Stato dell'Unione dell'anno scorso, quello in cui rievocò il “momento Sputnik” per rendere l'idea del suo nuovo slogan “win the future”, vincere la sfida del futuro, che per la verità sembra poi essersi perso per strada).
Romney se l'ègiocata veramente bene. Ha controbattuto mettendola sul piano della spesa: "io ho lavorato per 25 anni nel mondo degli affari. Se un manager fosse venuto da me e mi avesse detto che voleva spendere qualche miliardo di dollari per stabilire una colonia lunare, gli avrei detto: sei licenziato". E ha aggiunto, strappando l'applauso: "Questa idea di andare di Stato in Stato e promettere alla gente quello che lì la gente vorrebbe sentirsi dire, promettere miliardi, centinaia di miliardi di dollari per far felice la gente, è proprio questo che ci ha cacciati nei guai in cui ci troviamo ora".
Scacco matto?

giovedì 26 gennaio 2012

MARCO RUBIO CI METTE LO ZAMPINO


“Benvenuti alla primaria della Florida, cari candidati repubblicani per il 2012. Non vediamo l'ora di contribuire a scegliere il prossimo Presidente degli Stati Uniti e a battere Barack Obama”.
Così l'altro giorno su Twitter faceva ammiccante gli onori di casa ai quattro sopravvissuti della South Carolina il venerato Marco Rubio, piacente senatore quarantenne della Florida di origini cubane, idolo dei Tea Party.
Rubio sa bene di essere la ragazza più corteggiata del liceo, e ci marcia: è una sorta di versione ispanica e repubblicana di ciò che è stato Obama (su questo c'è concordia bipartisan, da Christian Rocca a Guido Moltedo), e proprio per questo è il candidato vicepresidente ideale di chiunque riescirà a candidarsi come sfidante di Obama.
Rubio aveva deciso di candidarsi al Senato nello stesso anno in cui aveva deciso di provarci anche Charlie Crist, il governatore dello Stato dopo Jeb Bush, un repubblicano aristocratico e centrista affine per molti versi al Mitt Romney che governava il Massachusetts. Ben presto Crist capì che nella nuova stagione politica, infausta per i moderati specie se esponenti del vecchio establishment, alle primarie sarebbe stato umiliato, per cui si ritirò e si candidò da indipendente - e venne umiliato anche così.
L'anno scorso Rubio aveva messo le mani avanti dichiarando che non avrebbe dato a nessuno il proprio endorsement, e lo ha ribadito qualche giorno fa - ma era difficile credere che avrebbe potuto davvero mantenersi del tutto neutrale.
A stanarlo è stato Newt Gingrich, che martedì con mossa un tantino maldestra ha paragonato la competizione tra sé e Romney a quella tra Rubio e Crist (complice il fatto che alcuni ex consulenti di Crist lavorano alla candidatura di Romney in Florida). Il diretto interessato, che peraltro in quella competizione aveva ricevuto l'endorsement di Romney, si è visto costretto a sconfessare ufficialmente quell'ardito paragone.
Ieri la dose è stata rincarata allorché il vecchio Newt ha mandato in onda uno spot radiofonico in lingua spagnola nel quale taccia Romney di avere una linea “anti-immigrazione”. Il “neutrale” Rubio è intervenuto per la seconda volta in due giorni, deprecando il “linguaggio inappropriato” e il “messaggio incendiario”. Stavolta l'intervento del giovine Marco è stato del tutto gratuito, sia perché stavolta non era stato tirato in ballo personalmente (anche se era stato invaso il suo territorio tribale, quello del voto ispanico), sia perché lo spot di Gingrich era veritiero (l'immigrazione è uno dei temi sui quali il centrista Romney ha assunto posizioni molto muscolari per recuperare a destra).
In Florida si vota fra cinque giorni, c'è tempo almeno per una terza puntata della telenovela.
Intanto, domani Rubio terrà un discorso ad un evento dell' Hispanic Leadership Network, associazione repubblicana pro-immigrazione fondata dall'ex governatore Jeb Bush. Jeb (fratello di George W.), che parla fluentemente spagnolo ed ha una moglie messicana, è l'altro "pezzo grosso" del Partito Repubblicano in Florida, ed ha anche lui annunciato che non esprimerà endorsement prima dell'esito delle primarie (mesi fa, però, aveva manifestato apprezzamento per Romney, che ha già incassato l'appoggio del padre George H. W.).

martedì 24 gennaio 2012

IL MIRAGGIO MITCH DANIELS


“Mitch Daniels, l'uomo che potrebbe trasformare completamente il campo repubblicano”. E' il titolo di un pezzo di Chris Cillizza del Washinton Post datato 9 maggio 2011. Eppure calzerebbe alla perfezione ad uno di quelli chi si leggono in queste ore. E questo è niente: c'è un pezzo dell'Economist che risale addirittura al ferragosto del 2010 – un anno e mezzo fa – nel cui sottotitolo ci si chiede, retoricamente, se Daniels possa “salvare i repubblicani da se stessi e proporre un'alternativa pragmatica a Barack Obama”.
Dopo tutto questo tempo, siamo al punto di partenza: si discute daccapo sulla possibilità che il Governatore dell'Indiana ci ripensi, si conceda e cali come un deus ex machina a salvare le primarie repubblicane dall'autodistruzione.
Questa sera il Presidente Obama terrà in diretta televisiva l'ultimo Discorso sullo Stato dell'Unione del suo primo mandato; pochi minuti dopo andrà in onda il tradizionale controdiscorso dell'opposizione repubblicana, e il portavoce designato quest'anno per fare da controcanto ad Obama sarà proprio lui, l'ineffabile Mitch. Lo si è saputo nelle stesse ore in cui l'esito della primarie della South Carolina metteva i repubblicani di fronte all'amara realtà della mancanza di un candidato vincente, e il contesto ha istantaneamente generato una nuova giostra di speculazioni sulla possibilità che Daniels scenda in campo tardivamente e colmi come per magia il vuoto creatosi nel processo di selezione dell'anti-Obama – e che magari la ribalta stasera gli sia stata data proprio per vedere l'effetto che fa in vista di un suo possibile “lancio”.




Il principale sponsor di questa fantomatica opzione è il direttore del Weekly Standard Bill Kristol, il quale stanotte, dopo aver assistito al dibattito tra i candidati in Florida, si è spinto a proclamare che il vero vincitore sarebbe lui, il convitato di pietra Mitch, uno che non ha nell'armadio nè gli scheletri di Romney nè quelli di Gingrich.
Amministratore stimato, uomo pacato e riflessivo, gradevole anche se né bello né carismatico (anzi un tantino incolore), Daniels è un “conservatore fiscale”, campione dei tagli alla spesa e del pareggio di bilancio. Un anno fa si era messo in mostra alla CPAC, la conferenza annuale dell'area conservatrice, proclamando che “il debito pubblico è la nuova “Minaccia Rossa”: nel senso che è il mostro per sconfiggere il quale le varie componenti della galassia repubblicana dovrebbero coalizzarsi, rinunciando ad altre priorità, come fecero negli anni della Guerra Fredda.
David Brooks scrisse sul New York Times che si era trattato nientemeno che di “uno dei migliori discorsi repubblicani degli ultimi decenni”. Si fece un gran discutere di come il governatore dell'indiana fosse il candidato ideale, quello che avrebbe potuto mettere d'accordo l'establishment del partito e la base arrabbiata dei Tea Party.
Poi, a maggio l'interessato si chiamò ufficialmente fuori, annunciando che aveva deciso di non candidarsi. Ma ora, nel caos di questi giorni, si rincorrono le voci di un suo ripensamento – complice il fatto che Daniels,contrariamente al governatore del New Jersey Chris Christie che si è schierato con Romney, si è ben guardato dal dare il proprio endorsement ad alcuno dei candidati in lizza.
In realtà questa della candidatura Daniels è un'ipotesi un po' folle: essendosi tenuto fuori dal processo delle primarie, non ha costruito la rete di persone ed organizzazioni sul territorio, non ha raccolto i denari, non ha nemmeno abbozzato un programma elettorale su temi importanti come ad esmepio la politica estera, e soprattutto non si è fatto conoscere (oggi come oggi solo la ristretta minoranza di elettori che segue assiduamente la politica sa chi sia: l'americano medio non l'ha mai sentito nominare).
Ma il solo fatto che sulla sua fantomatica tentazione di ripensarci si stia facendo tutto questo chiasso, la dice lunga sul senso di inadeguatezza che serpeggia tra le fila dei repubblicani, che a tempom ormai quasi scaduto si sentono sempre più sprovvisti di un leader.

lunedì 23 gennaio 2012

IL LEADER DI CRISTALLO


Buffo, no? Quando alla vigilia delle primarie il New Hampshire Union Leader diede il suo endorsement a Newt Gingrich, in molti alzammo il sopracciglio con sufficienza. Il vecchio Newt, in fondo, non solo aveva già avuto il suo momento d'oro ai tempi di Bill Clinton per poi finire totalmente fuori dai giochi per un buon decennio, ma aveva anche già avuto il suo breve momentum in queste primarie, secondo i sondaggi di dicembre, e ben presto se l'era fatto sfuggire. Anzi, pareva già un miracolo che non si fosse ancora ritirato, dopo un esordio condito da piccoli scandali e dalle dimissioni in massa del suo staff.
Quando poi nelle primarie del New hampshire il vecchio Newt si piazzò ad un patetico quinto posto, quell'endorsement parve ancora più patetico.
Ma sabato sera, quando sono usciti i risultati della primaria in South Carolina, quelli dello Union Leader si sono presi una grassa rivincita.


Il 40% di Gingrich (e la maggioranza in 43 contee su 46) non è solo una vittoria: è un trionfo che nessuno, probabilmente nemmeno lui, aveva preventivato sino a poche ore prima. Non perché nessuno prima avesse riportato in quello Stato una vittoria di quelle dimensioni - anzi, molti hanno fatto anche di meglio - ma perché appena tre giorni prima ci si avviava al voto in South Carolina come ad un'ultima, disperata prova di resistenza da parte dei conservatori sudisti rispetto ad una candidatura Romney ormai pressoché ineluttabile. E invece, è bastato unallineamento di piccoli eventi nella giornata di giovedì a "sbloccare" i conservatori dalla frammentazione cui parevano ormai inesorabilmente condannati, dando la stura ad un exploit del quale ancora si stenta a capacitarsi.
Jonathan Allen di The Politico sabato confessava su Twitter tutta la sua incredulità: "Una cosa è la redenzione, un'altra è la resurrezione; ma la storia di Newt verrebbe rifiutata da Hollywood perché per crederci è necessario un atto di fede troppo spinto!"
Il limite di questo voto a valanga per il vecchio Newt sta nel fatto che chiaramente si è trattato soprattutto di un voto "contro", un gesto di rivolta. Erick Erickson sul sito conservatore RedState sintetizza l'accaduto come "la base del partito repubblicano che fa il dito medio all'establishment repubblicano di Washington: sono arrabbiati, e ora come ora è rimasto solo Newt a battersi per loro, per imperfetto che sia". Forse un po' prosaico, ma nella sostanza è esattamente la stessa cosa che hanno scritto Mark McKinnon sul centrista DailyBeast, David Weigel sul liberal Slate, ed innumerevoli altri.
Più che della forza della candidatura di Gingrich, quindi, il voto di sabato la dice lunga sulla fragilità della candidatura di Romney, che pure aveva affrontato questo voto con tutti i vantaggi: più soldi, più appoggi, più mezzi, più endorsement, più preparazione, più professionalità, più tutto (e anche la partenza vincente, mentre Newt era partito a volo radente).
Ancora una volta Romney ha dimostrato di non avere la cosa più importante (della quale il vecchio Newt è invece ben dotato, peccato glie ne manchinio molte altre): la capacità di sintonizzarsi con la base, di cogliere gli umori della gente e catalizzare le emozioni. Per questo il suo 28%, risultato più prossimo a quello ottenuto da Rick Santorum che a quello del vincitore, non è solo una sconfitta: è una disfatta che annulla tutto quello che egli aveva conquistato sino a qui.
C'è poi un altro grande sconfitto che esce dal voto di sabato, e mi sorprende che pochi lo abbiano notato: la mitica "Destra religiosa". Gingrich, approdato al cattolicesimo alla sua terza conversione e al suo terzo matrimonio, ha trionfato anche grazie alla sua performance un dibattito in diretta sulla CNN nel bel mezzo del quale è stata mandata in onda un'intervista alla sua seconda moglie, la quale ha rivelato che quando colei che oggi è la terza moglie era solo la sua giovane amante, lui aveva proposto la soluzione del "matrimonio aperto". Non solo: una settimana fa i leader di quella che un tempo si chiamava la "Christian Coalition" si erano riuniti a Houston in un tormentato conclave di due giorni per esprimere un candidato "unitario" e così fermare l'avanzata di Romney prima che fosse troppo tardi. Ebbene, il nome uscito da quel conclave texano era quello di Rick santorum, e, visto quanto è accaduto - in uno Stato in cui il 63% degli elettori repubblicani si autodefiniscono evangelici o "cristiani rinati", il voto è andato a Gingrich per il 43%, la stessa proporzione ottenuta quattro anni fa da Mike Huckabee che è un ministro del culto - chi ha puntato su Santorum poteva apparire più inifluente di così. 
Intendiamoci: Romney sabato non ha affatto perso la nomination, esattamente come in New Hampshire  non l'aveva ancora vinta. Può ancora recuperare, e possono ancora accadere molte cose. La partita si sposta ora in Florida, uno Stato enormemente più grande e più cruciale, che assegna molti più delegati e che, contrariamente agli Stati nei quali si sono disputati i primi tre match, li assegna con il sistema winner-takes-all, cioé non li spartisce proporzionalmente ma li dà tutti al più votato. Lì Romney è nettamente avanti nei sondaggi, è molto ben attrezzato dal punto di vista organizzativo, e non affronta un elettorato conservatore quanto quello della South Carolina.
Tuttavia è pur vero che quattro anni fa McCain era sguarnito di uomini e mezzi nelSunshine Statefinché la vittoria contro Huckabee in South Carolina non diede nuovo slancio alla sua candidatura. E alla fine vinse anche lì, costringendo al forfait un avversario agguerrito ma debole, di nome Mitt. 
Uscito su Notapolitica e su L'Opinione

IL PRESIDENTE E L'UOMO IN CIMA AL MURO


Ieri il clamore generato dalle primarie repubblicane in South Carolina ha fatto passare inosservata una ricorrenza sulla quale sarebbe forse valsa la pena di soffermarsi: ha compiuto tre anni la primissima promessa che Barack Obama aveva fatto solennemente all'America e al mondo subito dopo essere entrato in carica come quarantaquattresimo Presidente degli Stati Uniti.
Era il 22 gennaio 2009. Il Presidente della Speranza e del cambiamento aveva giurato da appena due giorni. Davanti alle telecamere, circondato da generali ed ammiragli in pensione, impugnò la penna e firmò trionfalmente un “ordine esecutivo” che imponeva la chiusura “il prima possibile, e comunque entro un anno” del carcere speciale di Guantanamo Bay.

I media di tutto il mondo non aspettavano altro: quel gesto dimostrava che “l’America di Obama” era diversa da quella di Bush. Del resto, era quello che l'allora senatore dell'Illinois aveva promesso quando si era candidato, addirittura prima delle primarie, in un discorso sull'Undici Settembre e la Guerra al Terrorismo tenuto nell'agosto del 2007 a Washington, al Woordow Wilson International Center:
Io ho fiducia nei tribunali degli Stati Uniti, e ho fiducia nei nostri avvocati militari. Da Presidente, chiuderò Guantanamo, abrogherò l'atto che l'ha istituita, e aderirò alla Convenzione di Ginevra”.

Bush non l'aveva avuta, quella fiducia. Per lui i terroristi (o sospetti tali) dovevano poter essere tenuti prigionieri a tempo indeterminato, in attesa non solo di giudizio ma anche di imputazione; il Pentagono e la CIA dovevano poter decidere discrezionalmente se, quando e come processare ogni nemico catturato in Afghanistan e negli altri luoghi in cui si sarebbe combattuta la War on Terror.
La soluzione, congegnata dieci anni fa dal giovane costituzionalista John Woo, poggiava su due idee: la prima era quella di sottrarre le persone catturate allo status di “prigionieri di guerra”, in modo da sfuggire all'applicazione della Convenzione di Ginevra. Quindi nessuna possibilità di scegliersi un avvocato difensore, né di adire un tribunale competente a stabilire il proprio status. A questo scopo le persone catturate sarebbero state definite “nemici combattenti”, formula coniata sessant'anni prima dalla Corte Suprema nel decidere il caso di otto sabotatori nazisti catturati a Long Island e condannati a morte da una commissione militare costituita dal Presidente Franklin Delano Roosevelt.
La seconda trovata era quella di dislocare il campo di prigionia offshore, per evitare che i prigionieri, trovandosi sul territorio nazionale, avessero diritto a farsi processare dagli ordinari tribunali federali. La scelta era così caduta su “GITMO”, come la chiamano i militari: la base navale che la marina americana possiede sull'isoletta cubana in virtù di un “contratto di locazione perpetua” stipulato nel 1903, quando gli Stati Uniti di Teddy Roosevelt avevano liberato Cuba dalla dominazione coloniale spagnola.

Molti di noi magari non se ne ricordavano, ma avevano già sentito parlare di GITMO dieci anni prima al cinema, guardando il film di Codice d'Onore (“A Few Good Men”), girato da Rob Reiner su soggetto e sceneggiatura di Aaron Sorkin. Il protagonista, interpretato da Tom Cruise, è un giovane avvocato militare del JAG che difende davanti alla corte marziale due marine accusati dell'omicidio di un commilitone proprio nella base di Guantanamo. Alla fine scopre che l’ordine di aggredire il compagno era venuto dal comandante in capo della base, un cinico e burbero colonnello magistralmente interpretato da Jack Nicholson, per castigarne la insubordinazione; chiamato il superiore a testimoniare, riesce anche a provocarlo fino a fargli scappare una confessione, e quindi a farlo arrestare. Quello che il giovane avvocato non riesce a fare è controbattere allorché, avendo egli proclamato in aula di pretendere “la verità”, il colonnello lo zittisce ruggendogli addosso un concitato, indimenticabile monologo:

“Tu non puoi reggerla la verità! Figliolo, viviamo in un mondo pieno di muri e quei muri devono essere sorvegliati da uomini col fucile. Chi lo fa questo lavoro, tu? Io ho responsabilità più grandi di quello che voi possiate mai intuire. Voi vi potete permettere il lusso di non sapere quello che so io… Voi non la volete la verità, perché nei vostri desideri più profondi che in società non si nominano, voi mi volete su quel muro: Io vi servo in cima a quel muro!”.

C’è qualcosa di terribilmente profetico nel fatto che quella storia fosse ambientata proprio a Guantanamo, dieci anni prima che quel luogo divenisse davvero in tutto il mondo il simbolo di quella verità ingestibile.
Durante la campagna elettorale del 2008, tutti gli aspiranti presidenti – non solo Barack Obama - avevano ostentato di essere pronti a gestirla, eccome. Anche il candidato repubblicano John McCain in più di un’occasione si era speso nella stessa promessa, colorita nel suo caso dal fatto che egli stesso è un ex prigioniero di guerra.
Ma è ad Obama che è toccato misurarsi con la prova dei fatti. Nella sua prima intervista dopo l'elezione, nella popolare trasmissione televisiva “60 Minutes”, si affrettò a ribadire quella promessa. Ma, come si è poi appreso, né allora né a gennaio aveva idea di come fare.
Il problema era: come e dove processare quelle persone?
Nel maggio del 2006 la Corte Suprema aveva decretato la illegittimità dei tribunali militari speciali appositamente istituiti dall'amministrazione Bush, perché incompatibili con gli accordi internazionali sul trattamento dei prigionieri di guerra. La Casa Bianca era corsa ai ripari facendo istituire dal Congresso un nuovo circuito di tribunali speciali, diversi da quelli inizialmente previsti ma comunque alternativi rispetto a quelli ordinari. Nel febbraio del 2007 la Corte Federale d’Appello del Distretto di Columbia aveva pure giudicato costituzionalmente legittima questa nuova soluzione; ma la Corte Suprema nel giugno del 2008 aveva bocciato anche questa seconda versione, con una sentenza che ribadiva il diritto dei prigionieri di guerra ad essere giudicati dai tribunali ordinari e non da quelli militari (il giudice Scalia, che capeggia la fazione conservatrice della Corte, nello schierarsi con la minoranza dissenziente si era spinto a profetizzare che quella decisione avrebbe causato “l’uccisione di altri americani” da parte dei terroristi islamisti).
Obama (che è stato anche avvocato e docente universitario di diritto costituzionale) aveva promesso al Paese proprio questo: di farla finita con questi espedienti. Nel novembre del 2009 il suo ministro della giustizia Eric Holder annunciò spavaldo che la mente dell’11 settembre, Khalid Sheikh Mohammed, sarebbe stato presto processato a New York, in un normalissimo tribunale federale. Ma dopo un paio di mesi il progetto era già naufragato. Il quel tribunale è stato invece celebrato, come una sorta di esperimento, il processo ad Ahmed Ghailani, responsabile degli attentati alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nel 1998 (223 morti, oltre quattromila feriti). Dei ben 280 capi d’imputazione il giudice ne ha riconosciuto come fondato soltanto uno, non punito con la pena di morte. Holder ne ha tratto le debite conclusioni: lo scorso aprile, proprio nel giorno in cui Obama lanciava ufficialmente la campagna per la rielezione, ha annunciato che Khalid Sheikh Mohammed verrà sì processato, ma lo sarà laggiù a Guantanamo, e da uno speciale tribunale militare – proprio come avrebbe fatto Bush.
Alla fine, l'unica soluzione che il Presidente Premio Nobel per la Pace è riuscito a mettere in pratica è stata la stessa che veniva già praticata da Bush: trasferire i prigionieri altrove, in paesi terzi. Ma non è stato possibile trasferirli tutti: dei 241 che si trovavano nel carcere cubano quel 22 gennaio di tre anni fa, 171 sono ancora lì.
A marzo dell'anno scorso Obama ha firmato un nuovo ordine esecutivo, che autorizza la “detenzione a tempo indeterminato” per una cinquantina di loro ritenuti troppo pericolosi anche solo per spostarli. Molti l’hanno vista – e criticata – come la definitiva rinuncia a mantenere quella promessa. Pochi giorni dopo, il 1 maggio, la CIA e i Navy SEALS hanno ucciso Osama Bin Laden in Pakistan. Se lo avessero preso vivo, probabilmente lo avrebbero incarcerato proprio lì, nel carcere della vergogna del quale Obama ha scoperto di non riuscire a fare a meno.

venerdì 20 gennaio 2012

PERRY TORNA IN TEXAS, GINGRICH TORNA IN TESTA


"Voialtri ve ne potete andare tutti quanti all'inferno; io me vado in Texas".Con questa celebre frase nel 1834 il mitico Davy Crockett si accomiatò dai suoi elettori del Tennessee che non gli avevano accordato la rielezione a deputato, e voltò pagina andnado incontro al suo eroico destino di martire dell'indipendenza Texana nella battaglia di Alamo.
Avrebbe potuto finire così anche l'avventura di Rick Perry alle primarie, con un'uscita polemica, sbattendo la porta. E ci sarebbe stato da capirlo, vista la fine ingloriosa - non per malasorte ma per colpa sua, beninteso - di una candidatura che era partita in quarta suscitando aspettative enormi.
Ma Perry è un politico astuto, non è un caso se quella consumatasi ieri è stata la sua primissima sconfitta in trent'anni (e anche la prima in una competizione disputata fuori dal Lone Star State, per la verità). Di una disfatta ha fatto una mezza vittoria, giocado la sua uscita da kingmaker come qualcuno il giorno prima aveva ben pronosticato (si veda l'ottima segnalazione di Andrea Mancia di quanto Erick Ericksson aveva scritto mercoledì sul sito conservatore RedState).
L'endorsement a Newt Gingrich, con il quale Perry - per dirla con le parole diJohn Cassidy del New Yorker - - ha "lanciato una granata innescata in braccio a Romney, ponendo fine almeno per ora ai discorsi sulla "inevitabilità" della sua candidatura", ha creato clamore non certo perché imprevisto: Perry e Gingrich sono talmente affini che il vecchio Newt aveva persino firmato la prefazione al "libro elettorale" del governatore del Texas. Il clamore si deve al contesto: quel ritiro con endorsement è giunto nel bel mezzo di una giornata incredibile, subito dopo la notizia che Romney, fatti i riconteggi del caso, in realtà non ha affatto vinto i caucus dell'Iowa come inizialmente pareva, e subito prima di una raffica di ben quattro sondaggi che improvvisamente davano Gingrich davanti a Romney in South Carolina. Sondaggi, si badi, resi noti ieri ma elaborati su interviste fatte prima di ieri, e quindi non influenzati dagli eventi della giornata. E' difficile, peraltro, che escano sondaggi attendibili prima del voto nel Palmetto State, che si terrà domani.
Questa improvvisa congiuntura ha conferito alla confluenza di Perry sulla candidatura di Gingrich un impatto potenzialmente devastante. Ora i giochi potrebbero essersi riaperti, forse tutto può ancora succedere.
Poi, siccome Newt Gingrich è pur sempre il personaggio che è, in serata si è aggiunta la spinta contraria: l'intervista alla sua seconda moglie che ha rivelato che, quando la signora Callista sua attuale terza moglie era solo la sua giovane amante, lui aveva proposto la soluzione del "matrimonio aperto", certo più economica di un secondo divorzio ma poco confacente all'elettorato evangelico (e pensare che all'epoca guidava la rivolta contro l'immoranle adultero Bill Clinton. E vabbè: se non altro, avrà pensato Romney, d'ora in poi niente più malignità sui mormoni e la poligamia...).
A volte le primarie americane "sono il più grande spettacolo del mon, specie se siete repubblicani” scriveva qualche anno fa l'Economist. Fino a mercoledì sera questo non pareva proprio uno di quegli anni; ma ora è tutta un'altra storia.