lunedì 29 agosto 2011

MLK, LA ROCCIA DELLA SPERANZA "MADE IN CHINA"


Oggi su America24:

Out of a mountain of despair, a stone of hope” - “Da una montagna di disperazione, una roccia di speranza”: è una frase tratta, così come la ancor più celebre “I have a dream”, dallo storico comizio che il reverendo Martin Luther King Jr tenne a Washington il 28 agosto 1963, sulla scalinata del memoriale a Lincoln, al culmine della famosa “marcia” per i diritti degli afroamericani.
Ad essa è ispirato il nuovo memoriale a MLK realizzato sul National Mall, il viale monumentale di Washington, accanto a quello in memoria di Franklin Delano Roosevelt.
Il monumento è infatti incentrato su una scultura alta quasi dieci metri raffigurante il reverendo King che emerge da una grande roccia biancastra, la “Stone of Hope” per l'appunto, la quale si staglia davanti ad una roccia più grande, idealmente la “Mountain of Despair”, dalla quale sembra estratta lasciando un grande solco attraversando il quale i visitatori giungeranno ad ammirare le fattezze del campione del movimento per i diritti civili assassinato a Memphis nel 1968.
La frase che ne ha ispirato la struttura, così come altre di MLK, è incisa su una delle pareti di granito accanto alla statua; dirimpetto, è incisa la frase “Sono stato una grancassa per la pace e la giustizia”, una epitaffio con il quale lo stesso King aveva detto di voler essere un giorno ricordato. Più indietro, una lunga parete riporta una serie di altre sue citazioni che accompagnano il visitatore nel percorso che conduce al monumento vero e proprio.

La cerimonia di inaugurazione, pregna di significati anche perché officiata dal primo presidente di colore nella storia degli USA, era in programma per oggi, 48esimo anniversario di quel mitico comizio di King, ma è stata rinviata a data da destinarsi per via dell'uragano Irene.
Il Congresso aveva autorizzato la realizzazione del memoriale nel lontano 1996, in piena era clintoniana, ma – trattandosi di un'iniziativa privata, per la quale lo Stato ha solo messo a disposizione il terreno - ci sono voluti oltre dieci anni per reperire i fondi, in gran parte grazie alla fondazione di Bill Gates, a quella della Walt Disney Company, e al regista George Lucas.
Inoltre nel 2001 l'operazione aveva subìto una battuta di arresto per via di una controversia insorta tra ,la fondazione che ha promosso la realizzazione del monumento e gli eredi del reverendo King, i quali, per acconsentire all'utilizzo del nome e delle parole del loro avo hanno preteso il pagamento di un corrispettivo in denaro, da devolvere in beneficenza.

Il principale autore del monumento è lo scultore cinese Lei Yixin, il che, in tempi di crescente rivalità tra Pechino e Washington, non ha mancato di suscitare polemiche, anche perché l'artista si è avvalso di operai cinesi e ha scolpito la statua di King utilizzando granito cinese.
Ma in fondo, è pur vero che la Statua della Libertà – probabilmente il più rappresentativo di tutti i monumenti degli Stati Uniti – è francese, opera dello scultore Frédéric Bartholdi e dell'ingegnere Gustave Eiffel (quello della omonima torre parigina); ed anche il memoriale washingtoniano ai caduti nella guerra del Vietnam, inaugurato da Reagan nel 1982, è opera di Maya Lin, un'artista nata in Ohio ma da genitori cinesi (il che pure non mancò di destare polemiche all'epoca).
Si tratta, in fondo, di uno dei tradizionali punti di forza della proverbiale “religione civile” statunitense: la capacità di coltivare un forte patriottismo senza cadere nel puro e semplice nazionalismo.

venerdì 26 agosto 2011

CADUTO GHEDDAFI, OBAMA RIMANE SDOTTRINATO?


Dunque finalmente Gheddafi è caduto - Obama aveva proclamato che sarebbero bastati "giorni, non settimane", e invece ci sono voluti cinque mesi; ma il risultato c'è, e non è da poco.
In molti ora scommettono che Assad è "il prossimo della lista", parlano addirittura di "effetto domino" proprio come ai tempi di Wolfowitz, qualcuno addirittura pronostica che in questo caso non sarà nemmeno necessaria una guerra vera e propria.
Quel che è certo è che sul caso siriano - che da lungo tempo è una sorta di simbolo del groviglio infernale del Grande Gioco mediorientale - si giocherà la prova dell'esistenza e dell'efficacia della "non-dottrina Obama".
Il direttore del New Yorker David Reminck, raffinato biografo di Obama, rivendica, all'indomani della caduta di Gheddafi, il merito del "suo" Ryan Lizza di aver visto giusto quando ad aprile coniò la controversa definizione "guidare da dietro" per definire la politica estera del 44esimo presidente così come si andava dipanando nel caso della guerra libica ("ancora meglio sarebbe stato "guidare da dietro le quinte" ", puntualizza Remnick anche nel titolo del suo editoriale).
A scanso di equivoci - ché quando le cose girano bene l'equivoco è sempre dietro l'angolo - mi pare valga la pena di evidenziare questo passaggio:
"Che cosa l'esempio libico suggerisca rispetto al vicino teatro insanguinato della Siria, non è chiaro. Parte della dottrina anti-dottrinaria di Obama è che essa insiste sul riconoscimento delle differenze in una maniera che non si trovava nelle idee fisse di Bush. Se la Libia era, ed è, complicata, la Siria lo è infinitamente di più. Gheddafi era stato disprezzato nel mondo arabo per decenni, eppure il sostegno nella regione per il suo abbattimaneto è stato quasi impossibile da evocare. Bashar al-Assad si sta dimostrando un tiranno non meno di Gheddafi, ma la Siria, a causa del suo rapporto con l'Iran, ha legami con Paesi membri del Consiglio di Sicurezza (la Russia, per dirne uno) che la Libia non aveva. Obama ha cercato di dare modo all'opposizione di rinvigorirsi, ha fatto pressione su Paesi come la Turchia affinché tagliassero i rapporti commerciali [con Damasco] e ha spinto per sanzioni più dure, per rendere chiaro che dar prova di politiche dittatoriali non resterà privo di conseguenze. Con quali risultati?"

martedì 16 agosto 2011

I SEE THE FREEDOM TOWER RISING / 4


A meno di un mese dal decennale dell'Undici Settembre, Discovery Channel ha pronto il suo documentario sulla ricostruzione, prodotto nientemento che da Steven Spielberg. Titolo: The Rising , chiaramente preso in prestito dalla canzone di Springsteen.
Intanto la Freedom Tower (come si ostina a chiamarla il governatore Pataki, e fa bene), crescendo di un piano alla settimana, è arrivata al 78esimo piano (con l'acciaio - al 69esimo con il cemento e al 50esimo con il rivestimento esterno in vetro), e svetta già come l'edificio più alto di Lower Manhattan.

domenica 14 agosto 2011

L'UOMO DEL MIRACOLO TEXANO CHE VUOLE BATTERE OBAMA


Oggi su Linkiesta:

In teoria, la politica americana in queste ore dovrebbe ruotare attorno al risultato dello “straw poll” tenutosi sabato in Iowa, una sorta di simulazione delle primarie repubblicane che si terranno fra cinque mesi per scegliere il candidato che sfiderà Obama. E quindi attorno alla vittoria della signora dei “Tea Party” Michele Bachmann, alla sconfitta dell'ex governatore del Minnesota Tim Pawlenty (che oggi ha annunicato il ritiro della sua candidatura), e così via.
E invece, per dirla con le parole dell'autorevole stratega repubblicano Mike Murphy, l'unica vera notizia è che il palazzetto dello sport in cui si teneva lo “straw poll” è stato “spazzato via da un uragano proveniente dal Texas”.
Domenica a Charleston, in South Carolina, Rick Perry, il governatore del Lone Star State, ha annunciato la propria candidatura, tardiva quanto carica di aspettative. Il che cambia tutto. Tanto per dare un'idea: l'ex governatore del Massachussetts Mitt Romney, sino ad ora considerato il favorito, pur non partecipando ufficialmente alla consultazione ha preso 567 voti; Perry, che oltre ad essere anche lui formalmente fuori dalla votazione si era candidato da poche ore, ne ha presi 718.

Aveva ragione Paul Burka. Che non è un elettore di Rick Perry, né un suo ammiratore: è uno che ha cominciato a tenerlo d'occhio e a prenderlo sul serio molto prima degli altri, fin da quando mosse i primi passi in politica negli anni Ottanta. All'epoca Burka era un redattore del Texas Monthly, il principale periodico texano, che oggi dirige; e Perry era un giovane deputato democratico del parlamento di Austin. Oggi Burka può vantarsi di essere stato un buon osservatore. Quando, nel febbraio del 2010, si capì che Perry si avviava a vincere delle altre primarie, quelle in cui si giocava la possibilità di candidarsi ad una terza rielezione come governatore, il Texas Monthly fece una copertina con il titolo "Perry for President!?!" e un photoshop che lo ritraeva nel giardino della Casa Bianca al posto di Barack Obama che vi si era appena insediato. “Credetemi” scriveva Burka “qui non si tratta del 2010, ma del 2012”.

Ma all'epoca nessuno era disposto a prendere sul serio quella ipotesi; nessuno dubitava che Perry, che secondo molti a malapena poteva sperare nella rielezione come governatore, facesse sul serio quando si schermiva dichiarando di non avere altre mire se non quella di continuare a fare quello che lui stesso definiva “il lavoro più bello del mondo”.

Certo, essere governatore del Texas non è cosa da poco.
Se fosse una nazione indipendente oggi sarebbe la dodicesima potenza economica del mondo, grosso modo alla pari con la Russia; e negli anni in cui il Massachussetts governato da Mitt Romney si piazzava al 47esimo posto su 50 nella classifica della creazione di posti di lavoro, il Lone Star State ha conquistato saldamente il primo posto. Si calcola che nell'ultimo decennio, mentre gli Usa nel loro complesso hanno perso più di due milioni di posti di lavoro nel settore privato, il Texas ne abbia guadagnati oltre settecentomila. Ma soprattutto dall'estate del 2009 ad oggi, da quando cioè si considera conclusa la Grande Recessione e partita la fase di “ripresa” che in questi giorni si teme stia precocemente esaurendosi, il Texas, da solo, ha prodotto più di metà dei nuovi posti di lavoro creati in tutti gli Usa. Lo scorso dicembre la democratica Brookings Institution ha sfornato la classifica delle “venti città che guidano la ripresa” in base alle nuove assunzioni: in una Top20 nella quale nessun altro Stato era presente con più di due città, sei erano texane. Ad identiche conclusioni giunge la rivista Forbes che ogni anno stila una classifica “The Best Cities for Jobs”: le prime postazioni sono esclusivo appannaggio delle città texane.
Questi risultati fanno la gioia dei fautori dello small government, perché il “modello texano” è caratterizzato da pochissime tasse, welfare ridotto all'osso, spesa pubblica ai minimi termini, e sindacati quasi inesistenti. Peggio le cose vanno altrove, più le aziende spostano lì le loro sedi e i loro stabilimenti; di conseguenza, sempre più gente emigra in Texas in cerca di impiego. Secondo il censimento nazionale dell'anno scorso, il tasso di immigrazione interna del Texas è più che doppio rispetto alla media nazionale: la sua popolazione, in crescita di mezzo milione all'anno, è passata nell'ultimo decennio da 21 a 25 milioni di abitanti. Solo la California rimane per ora più popolosa – primato che detiene dal 1962 – ma la sua popolazione, che supera di poco i 37 milioni, non è cresciuta neanche di due rispetto al 2000. A questo ritmo, in meno di dieci anni i texani saranno più numerosi dei californiani. Il che determina la redistribuzione fra gli Stati dei seggi alla Camera dei Deputati, e quindi la riattribuzione di altrettanti “voti elettorali”, cioè del peso che ciascuno Stato avrà nell'elezione del presidente degli Stati Uniti a partire dal 2012. Il Texas, Stato conservatore per antonomasia (l'ultimo candidato democratico alla Casa Bianca a vincere laggiù fu Jimmy Carter nel 1976), guadagna ora la bellezza di quattro nuovi seggi, mentre la liberal California per la prima volta da quando esiste come Stato (1850, l'epoca della Corsa all'Oro) non vede aumentare nemmeno di uno la sua attuale delegazione di 53 deputati.

Di tutto questo Rick Perry non è l'artefice, ma può facilmente proporsi come l'uomo-simbolo. Può bastare per ambire alla carica di leader del Mondo Libero? Sono passati appena tre anni da quando l'America ha eletto Barack Obama. Allora parve quasi volesse redimersi dalla presidenza di un altro texano, del quale Perry è stato vice e poi successore. Ma attenzione: quella che Perry rappresenta non è una semplice riedizione di George W. Bush, magari un po' più fotogenica. Bush al confronto di Perry è un texano di cartapesta, il rampollo viziato di una dinastia di patrizi da country club trapiantatasi con successo dal New England a Houston, un figlio di papà dalla vita facile - il cui papà, oltre che petroliere, era stato capo della CIA, ambasciatore a Pechino, ed accidentalmente pure vicepresidente e poi presidente degli Stati Uniti.
Quella di Perry è tutta un'altra storia, e non solo perché quando si mise in politica il suo cognome era sconosciuto e i fondi per pagare la campagna elettorale non li procurava papà.
Per capire di chi stiamo parlando, scrive Paul Burka nel suo blog, bisogna partire dal luogo in cui è nato e cresciuto, una località del Texas occidentale di nome Paint Creek: “non è una città, nemmeno un paese: è il letto asciutto di un corso d'acqua che corre attraverso i campi di cotone nel Sud della contea di Haskell. I suoi genitori erano contadini, e per di più contadini in una terra arida, che è la più dura tra le versioni possibili della vita contadina”. Lo stesso Perry racconta che “c'erano parti della casa in cui si poteva guardare fuori attraverso le crepe”, e che ci si lavava in una vasca esterna finché suo padre non installò dei tubi per l’acqua corrente.
Quando arrivò il momento degli studi universitari, Bush venne mandato a Boston per farsi la sua brava laurea ad Harvard, da buon aristocratico; Perry invece rimase in Texas e studiò alla “A&M University”, un college statale locale, dove si laureò in scienze zoologiche, da perfetto contadino. Poi si arruolò nell'aviazione militare e trascorse buona parte degli anni Settanta a pilotare i C-130 Hercules in Europa ed in Medio Oriente, per poi congedarsi con i gradi di capitano. Anche qui balza all'occhio il confronto con Bush che si era imboscato nell'aviazione della Guardia Nazionale per non andare in Vietnam.
Ma alla differenza biografica si somma quella politica: Bush, che preparò la propria ascesa sulla scena politica nazionale nell'epoca di vacche grasse della prosperità tardo clintoniana (e all'indomani della battuta d'arresto subita dall'antistatalismo duro e puro di Newt Gingrich), professò e praticò una propensione all'intervento statale, dalla pubblica istruzione alla sanità, che non sarebbe ammissibile per i repubblicani di questi giorni. Se l'interventismo spendaccione di Bush veniva venduto come “conservatorismo compassionevole”, quello di Perry, ha notato il direttore della National Review Rich Lowry, è un conservatorismo decisamente non compassionevole, disposto a tagliare con l'accetta non solo le tasse ma anche la spesa pubblica, tutto giocato sulla polemica antistatalista contro l'invadenza del governo negli affari dei privati cittadini e delle imprese e su quella federalista contro l'invadenza di Washington negli affari dei singoli Stati membri dell'Unione.
Inoltre Perry, a differenza di Bush, non ha mai perso una sola elezione in tutta la vita. Vinse nel 1989, quando semisconosciuto, subito dopo essere passato al Partito repubblicano, riuscì a farsi eleggere commissario per l'Agricoltura del Texas al posto del democratico Jim Higtower, uno talmente popolare che si fantasticava un giorno avrebbe potuto diventare presidente. Dieci anni dopo, anziché farsi rieleggere per la terza volta a quella carica, riuscì a battere il democratico John Sharp nell'elezione a vicegovernatore dello Stato, quando Bush venne eletto governatore (in Texas si tratta di due elezioni disgiunte, non in ticket). Ironia della sorte, lo stratega della campagna dello sconfitto Sharp era David Axelrod, futuro guru delle vittorie elettorali di Barack Obama. Nel 2000, quando Bush divenne presidente, Perry gli subentrò come governatore; e poi venne eletto direttamente nel 2002, e poi ancora nel 2006.
Quando nel 2009 si dichiarò intenzionato a proporsi per una terza rielezione, sembrava avere poche chance nelle primarie repubblicane, nelle quali si era candidata la potentissima Kay Bailey Hutchinson: prima senatrice donna nella storia del Texas, fortemente appoggiata dall'establishment del partito e sino ad allora detentrice del record di voti elettorali in quello Stato (era stata eletta al Senato quattro volte, sempre con più del 60%). Come se non bastasse, sull'ala destra correva la candidata dei Tea Party Debra Medina, una libertarian vicina a Ron Paul. Eppure Perry, pur essendo al potere da dieci anni, riuscì ad imporsi con una campagna populista, accaparrandosi il sostegno di Sarah Palin e facendo apparire la Hutchinson come troppo moderata e troppo legata alla ormai odiatissima “casta” di Washington.
Quando a marzo stravinse le primarie, Paul Burka ribadì quello che aveva scritto il mese prima: che in ballo c'era molto di più del governatorato del Texas, che stavolta veniva usato come trampolino. “Chi meglio di lui sarebbe un perfetto candidato repubblicano alla presidenza? Mitt Romney è probabilmente il migliore sul piano dell'armamentario intellettuale, ma non è in grado di ispirare nulla alla gente. Tutti parlano dell'inconveniente legato al fatto che è di religione mormone, ma il suo problema maggiore è che non riesce ad apparire come uno normale con cui vorresti andare a caccia. Sarah Palin, al contrario, ha le qualità comunicative per essere presidente, ma non quelle intellettuali. Ed è troppo di parte per vincere un'elezione generale. Perry invece è perfetto. Ha vinto le primarie espandendo la base del Partito repubblicano. Lui e i suoi hanno appreso il potere dei social media da come Obama li aveva usati nella campagna del 2008. Non ha appeso manifesti, non ha bussato a nessuna porta. Ha puntato tutto su apparizioni personali e sul contatto diretto con gli elettori tramite i media elettronici... Lo sfidante democratico per il governatorato del Texas farebbe bene a non sottovalutarlo: sarà anche più intelligente di lui, ma deve considerarsi come un principiante contro un professionista. Altrimenti farà la stessa fine della Hutchinson”.
Lo sfidante democratico era Bill White, già sottosegretario all’energia nell'amministrazione Clinton e poi sindaco di Houston. Ne uscì con le ossa rotte. In Texas per diventare governatore basta la maggioranza relativa dei voti, e Perry nel 2006 era stato rieletto con appena il 39%; nel 2010 ha incassato il 55%. L'elezione si è tenuta assieme a quella di mid-term con la quale i repubblicani hanno ripreso il controllo del Congresso a Washington e in quasi tutti i parlamenti locali, e in Texas la rimonta è avvenuta all'ennesima potenza. Dopo le elezioni del 2008, concomitanti con l’elezione di Obama alla Casa Bianca, i centocinquanta seggi della Camera dei Deputati di Austin erano perfettamente ripartiti fra 75 Repubblicani e 75 Democratici; lo scorso novembre 99 sono andati ai Repubblicani e 51 ai Democratici.

A gennaio Perry – che nel frattempo è stato messo a capo anche della associazione dei governatori repubblicani - si era (re)insediato per la quarta volta, con un discorso spavaldo tutto giocato sull'antagonismo verso la democratica ed indebitata California: «Un domani gli storici guarderanno indietro a questo come al secolo texano. Un tempo gli americani in cerca opportunità ed inspirazione guardavano alla East Coast; poi si sono rivolti alla West Coast; oggi guardano alla Costa del Golfo, guardano al Texas».
Domenica con il suo discorso in South Carolina, ha fatto il salto di qualità vaticinato da Burka, invitando Obama a farsi da parte perché «il cambiamento che vogliamo non verrà emanato da Washington: verrà dalle ventose praterie nel cuore dell'America, dalle fattorie e dalle fabbriche sparse per questa grande terra, dai cuori e dalle menti degli americani timorati di Dio che non accetteranno un futuro che sia qualcosa di meno del nostro passato, che non si arrenderanno ad un destino di meno libertà in cambio di più Stato».
Perry ha già mostrato una abilità non comune saltando a pie’ pari non solo lo “straw poll” dell'Iowa, ma tutta la tradizionale trafila del comitato esplorativo, dei primi dibattiti televisivi e delle comparsate primaverili alle sagre paesane del Midwest. Mentre i candidati della prima ora si sfinivano zelanti in quel rituale, gli elettori avevano ben altro di cui preoccuparsi: la disoccupazione, il debito pubblico fuori controllo, e infine persino l'incubo della ricaduta in una Seconda Grande Recessione. Mai come ora la profezia di Paul Burka sembra in procinto di avverarsi: “se guardate alla sua carriera, pare che il destino stia sempre combinando l'universo in modo da consentirgli di trovarsi sempre nel posto giusto al momento giusto”.

venerdì 5 agosto 2011

FERMATE QUELL'UOMO!


"Momenti di alta tensione questa settimana alla Casa Bianca, quando un uomo ha cercato di saltare al di là della recinzione. Ma gli uomini dei Servizi Segreti sono intervenuti, hanno parlato al presidente e lo hanno convinto a tornare dentro e portare a termine il suo mandato".

giovedì 4 agosto 2011

CHE SCHIFO DI COMPLEANNO, MR. PRESIDENT


Oggi su Libertiamo:
Quando lunedì mattina l'America si è svegliata, come da copione, salvata con un accordo in extremis dal default per sfondamento del tetto legale al debito pubblico, il clima era più che altro isterico.
L'accordo, per ora - una parte andrà definita a novembre - è fatto esattamente come i repubblicani hanno preteso con una insistenza di fronte alla quale Obama (del quale è risaputo il passato di provetto giocatore di poker) due settimane fa aveva fatto inutilmente la faccia feroce diffidandoli anon sfidarlo per vedere se stava bluffando: solo tagli alla spesa pubblica e nessuna nuova tassa (la principale concessione da parte del GOP è la messa in discussione della spesa militare, ma solo in termini eventuali, nella parte della manovra da ridiscutere in autunno).
Ma va anche detto che sono tagli spalmati nel prossimo decennio: fin tanto che è in carica questo congresso – e questo presidente - entreranno in vigore in misura a dir poco marginale. Difficile intravedere una svolta epocale, in positivo o in negativo.
 Ciò nondimeno, lunedì l'editoriale del Wall Street Journal, intitolato euforicamente “Un trionfo del Tea Party”, gongolava per la "vittoria per la causa dello "small government”, la più grande dalla riforma del welfare dal 1996”. “Se i tagli reggono” commentava il WSJ "questo provvedimento potrebbe riuscire a cancellare il danno arrecato dallo stimulus Obama-Nancy Pelosi. Il che non è poco, considerato che i repubblicani non controllano né il Senato né la Casa Bianca”. Merito dei teapartier, che "hanno costretto i due grandi partiti ad attuare i più importanti tagli degli ultimi 15 anni" (da notare la ripetuta rievocazione del ridimensionamento del welfare che il Congresso a maggioranza repubblicana impose a Bill Clinton al termine del suo primo mandato).

Sul fronte opposto, il New York Times ha affidato la lamentazione ad un Paul Krugman ormai sempre più ideologo e sempre meno economista, il quale ha maledetto l'accordo raggiunto come "una catastrofe, su più piani": sul piano economico, perché (dato per sottinteso che la spesa pubblica era – secondo lui - l'unico espediente in grado di combattere la recessione) "quelli che in questa fase vogliono tagliare la spesa sono come i medici del medio evo che trattavano i malati con il salasso, e così li rendevano ancora più malati"; e sul piano politico, perche' stabilendo questo precedente si e' dimostrato che il sistema fa vincere chi e' più spregiudicatamente disposto a generare una grave crisi pur di imporre la propria linea, e quindi si sono declassati gli USA a “repubblica delle banane”. Colpa di Obama, ha tenuto a sottolineare Krugman sin dal titolo: il presidente "si e' mosso troppo tardi", "ha ceduto al ricatto", eccetera.




Tempo qualche ora, l'isteria ha ceduto il passo alla depressione. Nessun vincitore: non Obama, che ha portato a casa l'accordo solo concedendo alla controparte praticamente tutto; non i Tea Party, che pretendevano quasi il doppio dei tagli concordati (e l'introduzione dell'obbligo legale di portare il bilancio in pareggio); e neanche l'establishment repubblicano, considerato che nel negoziato lo speaker della camera Boehner ha mostrato scarsa capacità di governare le divisioni interne al partito ed è apparso non leader ma trascinato dalla corrente (lui stesso appena approvata la legge si è affrettato a commentare su Twitter che “non c'è niente da festeggiare”), e che tutti i candidati alle primarie del GOP (unica eccezione, che conferma la regola, l'ultra-centrista Huntsman, sempre più minuscolo nei sondaggi) hanno fatto a gara nel prendere le distanze manifestando dissenso.
Alla Camera la legge è passata lunedì con il voto favorevole di quasi tre quarti dei repubblicani, 174 contro 66 (32 contro 28 nell'ambito del “Tea Party Caucus”), e la metà secca di quelli democratici, 95 contro 95. L'indomani al Senato, quando ormai il voto contrario aveva valenza meramente simbolica, si sono schierati per il “no” ben 19 repubblicani (tra i quali l'astro nascente Marco Rubio), contro appena 6 democratici e un indipendente.

Oggi il dato politico più pesante è l'ulteriore azzoppamento della presidenza Obama.
Già prima dell'epilogo dello psicodramma del debito, la Gallup aveva rilevato che il consenso verso l'operato del presidente era precipitato al 40% (ai primi di giugno era al 50), segnando un record negativo, e che gli elettori registrati inclini a votare alle presidenziali dell'anno prossimo per “un candidato repubblicano qualunque” sono saliti al 47% contro il 39% di propensi a votare per la rielezione di Obama (altro record).
A seguire, sono arrivati i dati sulla crescita del PIL, tragicamente più miseri rispetto alle stime iniziali che pure erano piuttosto anemiche: la ripresa anziché ingranare sembra stia già perdendo quota, e c'è chi comincia a paventare una ricaduta nella recessione. Difficile venir rieletti con questi numeri, perché, si sa, it's the economy, stupid.
Infine domenica, il giorno del sospirato accordo, Rasmussen ha rilevato che la percentuale degli elettori che trovano Obama “troppo incline allo scontro” è schizzata al 30% (un mese fa era al 21).

Un anno fa, in occasione del compleanno di Barack Obama, facevo il punto sulle pessime prospettive per le elezioni di mezzo termine rilevando pessime previsioni, a meno di grossi cambiamenti. Si sono avverate.
Oggi tirerà un'aria ancora meno spensierata quando il presidente soffierà le sue 50 candeline, ad un party nella sua sweet home Chicago che più che cool si preannuncia tristemente cold, a dispetto del concerto di Herbie Hancock. Il biglietto costa fino a 35.800 dollari a coppia: serve per finanziare una campagna di rielezione che si preannuncia a dir poco in salita. A meno di grossi cambiamenti.