martedì 29 settembre 2009

"SARKO HA IL COMPLESSO DI OBAMA"


Spassoso pezzo sull'ultimo numero di Newsweek dedicato al rapporto difficile nella “strana coppia” Nicolas Sarkozy - Barack Obama. O meglio: alla difficoltà che Sarko avrebbe nel gestire la propria "invidia".
Secondo il settimanale americano (testata da sempre schieratissima con il 44esimo inquilino della Casa Bianca), il presidente francese sarebbe affetto da un vero e proprio “Complesso di Obama”. Primadonna com'è, non digerirebbe il fatto di essere destinato a vedersi costantemente rubare la scena dal collega amerikano, altrettanto egocentrico ma sempre avanti di una spanna, non solo in termini di importanza del paese che governa ma anche in fatto di popolarità:
“un recente sondaggio della Transatlantic Trends mostra che Obama gode di un fenomenale 88% come tasso di popolarità in Francia, mentre Sarkozy solitamente si ferma sotto al 50%”.
Inoltre, l'Eliseo si vedrebbe frequentemente scippare dalla Casa Bianca il merito di importanti iniziative. Il G20 in cui Obama ha giocato da protagonista ben oltre l'ovvio status di padrone di casa “è un consesso che proprio Sarkozy ha insistentemente voluto istituire, l'anno scorso”; e anchela linea dura contro le ambizioni nucleari dell'Iran Sarko l'adottò molto prima di Obama.

Ma più che i fatti, qui contano le emozioni. Sarko va fiero del fatto che “il suo stile consiste nell'essere sempre dappertutto nello stesso momento – il superpresidente lo chiamano i francesi; e anche in questo Obama sembra a volte seguirlo. Ma non è così”.
Un po' come il Nando Moriconi di Alberto Sordi, il presidente francese dalle sue parti è ormai accreditato come “l'Americano”, ma quando si viene al dunque si vede un po' troppo poco considerato dall'americano “quello vero”.

“Entrambi pretendono di essere in prima fila su ogni iniziativa: Obama perchè è il presidente degli Stati Uniti, e Sarkozy perché è così ambizioso”.
Due galli in un pollaio – con inevitabile contorno di servizi fotografici rifiutati, dispettucci, ripicche. “Pare che in primavera Sarkozy abbia detto a un gruppo di parlamentari con i quali stava pranzando che Obama “non ha mai gestito un ministero in vita sua””.

In tutta questa facezia (di un certo pregio anche perché evita di scadere in facili ironie sulla statura fisica dei due personaggi), il quadretto che da solo vale la lettura dell'intero pezzo è questo:

“Le personalità dei due presidenti possono entrare in collisione: Obama, sorridente ma distaccato, tratta Sarkozy come uno dei tanti suoi non-esattamente-pari in Europa, mentre Sarkozy, tutto pacche sulle spalle, ama chiamare il presidente USA “amico”, ma non si vede ricambiare il favore. Guardarli insieme sul palco, come quando sono apparsi alle commemorazioni per l'anniversario del D-Day in Normandia a giugno, è come guardare Joe Pesci recitare faccia a faccia con Denzel Washington”.

Chissà, magari certe tensioni verranno risolte grazie a certi interessi comuni che i due hanno ripetutamente dimostrato di condividere...

venerdì 25 settembre 2009

PERCHE' PROPRIO A PITTSBURGH


Dopo il G8 a L’Aquila post-terremoto, i potenti del mondo si beccano una gitarella in un altro posto sfigatissimo: il G20 sulla finanza si tiene in queste ore a Pittsburgh, in Pennsylvania al confine con l’Ohio.
Strano posto, per un evento tanto prestigioso.
Raccontava ieri un cronista di TIME:
"Quando l'addetto stampa della Casa Bianca Robert Gibbs annuniò, a maggio, che l'Amministrazione Obama aveva deciso di tenere il G20 a Pittsburgh, i giornalisti presenti esplosero in una risata. E come dargli torto?".
La “fascia” che corre tra Illinois, Indiana, Michigan, Ohio e Pennsylvania occidentale, è da molti anni soprannominata “Rust Belt”, la Cintura della Ruggine: desolazione e degrado, piccoli paesi e grandi città “fantasma”, costellati da stabilimenti industriali da tempo abbandonati.
Cleveland, la città più importante dell’Ohio, è oggi considerata la più povera degli Stati Uniti. Detroit, in Michigan, storica capitale dell’industria americana dell’auto, non sta meglio (un tempo era la quarta città USA, ora è l'undicesima. Qui un recente reportage su TIME).
Pittsburgh era fino a qualche tempo fa nelle stesse miserevoli condizioni, ma recentemente sta venendo “rilanciata” puntando sui settori più “innovativi”.
Spiega Gideon Rachman del Financial Times:
“Pittsburgh è considerata una vetrina della ripresa post-industriale. La popolazione cittadina era stata decimate dal naufragio dell’industria siderurgica. Metà della popolazione era andata a vivere altrove, man mano che i posti di lavoro evaporavano […] Ma oggi nuove industrie sono spuntate nel campo dei servizi sanitari, della robotica e dell’informatica. Il tasso di disoccupazione è “solo” il 7,7%, più basso del resto degli USA. Dovrebbero fare delle magliette per il G20, con su lo slogan “si può sopravvivere alla globalizzazione”.
Soprattutto, l’amministrazione vuole sbandierare il “nuovo potenziale” di posti come Pittsburgh generato dal matrimonio tra i business delle nuove tecnologie e quello legato all’ecologia, che si spera possa generare nuovi posti di lavoro che vadano a rimpiazzare quelli persi con la crisi della siderurgia, cioè “emigrati” con la delocalizzazione, che tanto ormai è chiaro non torneranno più.
Qui un video preparato dal Dipartimento di Stato per propagandare agli occhi del mondo questo rilancio “dalla ruggine al verde”.
(Per inciso: identiche politiche erano nel programma dello sconfitto candidato repubblicano John McCain, il quale nell’aprile dello scorso anno tenne uno dei suoi primi comizi nella cittadina di Youngstown, in Ohio, uno dei luoghi più disperati della Rust Belt, in cui propose di detassare “le nuove società ed industrie del settore tecnologico, in particolare di quello delle tecnologie ecologiche come quelle di trasformazione dell’energia solare ed eolica, che stanno cercando a fatica di crescere proprio qui, cercando nuovi mercati ed assumendo nuovi lavoratori”).

In perfetto stile obamiano (soprattutto michelleobamiano) il tutto viene confezionato nel modo più “trendy”, senza timore di sconfinare nel radical-chic. E così l’allevamento bio va a braccetto con i quadri pop. Racconta Maurizio Molinari su La Stampa di oggi:
“il gran finale studiato a tavolino nella West Wing della Casa Bianca avviene nel segno del cittadino di Pittsburgh forse più noto al mondo: il pittore Andy Warhol al quale è intitolato un museo che raccoglie numerosi dipinti che raccontando la carriera dell’artista che ritrasse Marylin Monroe in una memorabile posa. Sarà in questa cornice che le First Lady concluderanno il pranzo e il summit prima del rituale arrivederci.”
Ed è subito Manhattan, anche a Pittsburgh.

giovedì 24 settembre 2009

"NON SI IMPONE DALL'ESTERNO". E DALL'INTERNO?


Tutti i titoli dei “grandi” media nostrani dedicati all'intervento di Obama ieri all'ONU sono incentrati su questo passaggio:

“Democracy cannot be imposed on any nation from the outside. Each society must search for its own path, and no path is perfect. Each country will pursue a path rooted in the culture of its people and in its past traditions. And I admit that America has too often been selective in its promotion of democracy”.

Inevitabile che fosse quella frase a fare chiasso; ma per leggerla sensatamente, bisogna focalizzare sul fatto che essa è letteralmente incastonata fra questa:

“I pledge that America will always stand with those who stand up for their dignity and their rights -- for the student who seeks to learn; the voter who demands to be heard; the innocent who longs to be free; the oppressed who yearns to be equal”

…e quest’altra:

“There are basic principles that are universal; there are certain truths which are self-evident -- and the United States of America will never waver in our efforts to stand up for the right of people everywhere to determine their own destiny”.
Altrettanto trascurato, sui nostri giornali, il fatto che il tutto era stato introdotto da questa premessa:

“we must champion those principles which ensure that governments reflect the will of the people. These principles cannot be afterthoughts -- democracy and human rights are essential to achieving each of the goals that I've discussed today, because governments of the people and by the people are more likely to act in the broader interests of their own people, rather than narrow interests of those in power”

E da questo ammonimento:

“The people of the world want change. They will not long tolerate those who
are on the wrong side of history”.
Quest’ultima frase non suona troppo reaganiana solo perchè il soggetto sono “loro” (i cittadini del pianeta), e non “noi” (americani, occidentali, ecc.); tuttavia, il concetto " siete dalla parte sbagliata della storia” (ricicciato: gli speechwriter di Obama l’avevano già usato nel discorso di inaugurazione della sua presidenza, quale "bastone" seguito dalla "carota" , “ma vi porgeremo la nostra mano se voi siete disposti a sciogliere il pugno” – già allora Camillo lo sottolineò come “molto bushiano”), ha comunque un retrogusto vagamente reaganiano (ricorda un po' la profezia che Ronnie infilò nel suo mitico discorso al parlamento inglese nel giugno del 1982 , quello dell’ “impero del male”, in cui sentenziò il comunismo sarebbe stato “consegnato alla storia come un mucchio di ceneri”), che conferisce al discorso un tono decisamente – come dire? – “non europeo”.

Non a caso Paolo Valentino nota sul Corriere che quando si passa dall’empireo delle belle parole al concreto delle questioni aperte “Obama e George W. appaiono meno conflittuali, e la politica estera americana mostra le sue continuità di fondo”.

Uno potrebbe anche sintetizzarla così: la democrazia non può essere imposta dall’esterno, ma noi siamo dalla parte giusta della storia e se qualcuno avrà bisogno di noi per rovesciare (dall’interno?) qualcuno di quei tiranni che stanno dalla parte sbagliata (in Iran? In Birmania? In Georgia? In Tibet? A Cuba?...), non ci tireremo indietro…

Sul piano della retorica, il 44esimo presidente si conferma (come già nel famoso -? – discorso del Cairo) ambivalente, generico, molto attento a strappare applausi senza mai sbilanciarsi e senza mai vincolarsi ad un contenuto concreto.
Continua a non esistere una “dottrina Obama” (benché i conservatori incazzati del Washington Times la riassumano polemicamente : “resa, indorata con una glassa di belle parole”).
Continuiamo a non sapere che farà questa amministrazione del National Endowment for Democracies, del USAID, e di altre cosucce del genere che tanto ingrifano i dietrologi.

Le chiacchiere stanno a zero, restiamo appostati in paziente (ehm) attesa di fatti. O di decisioni, per dirla con l'elefantone.

lunedì 21 settembre 2009

SI STA COME D'AUTUNNO

Anni fa i giornalisti avevano soprannominato "full Ginsburg" l'impresa di apparire in un unico weekend in tutti i cinque principali talk show politici televisivi ( This Week sulla ABC, Fox News Sunday, Face the Nation sulla CBS, Meet the Press sulla NBC, e Late Edition sulla CNN, quest'anno sostituito da State of the Union), perchè il primo a mettere a segno quel colpaccio era stato dieci anni fa William Ginsburg, l'avvocato di Monica Lewinsky.
Lo scorso weekend, Obama è stato il primo presidente in carica ad infilare un "full Ginsburg", con l'unico dettaglio di aver sostituito la troppo ostile Fox News con il canale in ligua spagnola Univision.

E questo non è un buon sintomo.

Dopo il discorso del presidente al Congresso lo scorso 9 settembre per "rilanciare" la riforma sanitaria, anch'esso evento più mediatico che istituzionale, i sondaggi registrano progressi molto modesti, persino meno significativi di quelli ottenuti nello stesso modo e nello stesso ambito 16 anni fa da Bill Clinton - che poi fallì.
Praticamente, al netto del rumore statistico Obama pare essere riuscito solamente ad arrestare -ma non ad invertire - il trend negativo che i sondaggisti hanno rilevato per tutta l'estate.

Il che spiega la bulimia televisiva del presidente, che con questo bombardamento mediatico (in italia lo chiamerebbero così, penso...) cerca affannosamente di recuperare un po' di fiducia.

Ieri sera ha rincarato la dose passando alla storia come il primo presidente in carica ad andare a gigioneggiare al Late Show di David Letterman ("i Servizi Segreti hanno controllato anche sotto il mio parrucchino", ha scherzato l'anziano conduttore per sottolineare l'eccezionalità dell'evento. Ma scherzava fino a un certo punto: ogni tanto le telecamere qualche addetto alla security presidenziale a piantone del palco lo hanno fugacemente inquadrato).

La malinconia autunnale nel giardino della Casa Bianca è mitigata solo dal fatto che per ora l'opposizione è vistosamente sprovvista di una parvenza di leader credibile: nessun Newt Gingrich in vista (a parte... Newt Gingrich, forse).
Stanley Fish (una specie di Umberto Eco d’oltreoceano, meno famoso anche perché non scrive romanzi) ieri notava sul New York Times che la forza residua di Obama risiede nel fatto di comparire come un gigante attorniato da minuscoli nanetti, sia di fronte all'opposizione che nella sua amministrazione e nel suo partito: "come il Giulio Cesare di Shakespeare, domina il panorama politico come un colosso"... ma solo per mancaza di antagonisti. Un vantaggio che potrebbe durare a lungo o anche no.

E intanto le elezioni di medio termine del novembre 2010 sono sempre meno lontane...
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PS: Sapete che adoro fare le pulci a Christian Rocca, proprio perché gli voglio bene. Ieri ha scritto che "non era mai successo che un presidente o un politico partecipasse a cinque talk show contemporaneamente". Sbagliato: un presidente no, ma un politico sì. Anzi, quattro: Dick Cheney, fresco di nomina come candidato vice di Bush, in occasione della convention repubblicana nel luglio del 2000; John Edwards, quale promettente aspirante candidato alla Casa Bianca, nell'ottobre del 2004 (fu comunque trombato da John Kerry); Michel Chertoff, segretario alla "Homeland Security", nel settembre 2005 per via dell'uragano Katrina; e infine Hillary Clinton, quando nel settembre 2007 ufficializzò la sua candidatura alla Casa Bianca.
Nel complesso, non è che porti troppa fortuna, 'sto "full Ginsburg"...

venerdì 11 settembre 2009

WORLD TRADE CENTER

"Per tanti aspetti, i morti del WTC formavano una sorta di parlamento universale: erano rappresentati sessantadue paesi e quasi tutti i gruppi etnici e le religioni del mondo. C'era un agente di borsa ex hippie, il cappellano cattolico e gay dei Vigili del Fuoco di New York, un giocatore di hockey giapponese, un sous-chef ecuadoriano, un collezionista di bambole Barbie, un calligrafo vegetariano, un contabile palestinese... La svariata natura delle loro vite attestava la verità dell'affermazione coranica secondo la quale spegnere una singola vita significa distruggere un universo. Il bersaglio di al-Qaeda era stato l'America, ma essa aveva colpito l'intera umanità".

Lawrence Wright - "The looming Tower. Al-Qaeda and the road to 9/11" (senza dubbio uno dei libri più belli degli ultimi 10 anni).

Otto anni dopo, prosegue una ormai surreale "caccia a Bin Laden", da qualche parte in una landa desolata detta Waziristan. Cioé in Pakistan (e quindi con una traballante collaborazione dell'intelligence indigena, la cui scarsa affidabilità potrebbe forse contribuire a spiegare l'inconcludenza della caccia, come adombrato oggi in questo post dal blog di un cronista di TIME ).
Qui un colorito e piuttosto sconfortante reportage dal Times di due giorni fa (e per i pigri e i non anglofoni, qui uno spiccio riassuntino di Giudo Olimpio dal Corriere di ieri).

lunedì 7 settembre 2009

AFGHANISTAN, 2 MESI DOPO



“Nell’universo di Obama la priorità appartiene sempre alla politica, non alla forza, e lo sbarco roboante di marines con colonna sonora delle pale dei grandi elicotteri Black Hawk nella valle dell'Helmand sembra una mossa politica”.
Vittorio Zucconi, La Repubblica, 3 luglio 2009


“La guerra in Afghanistan si può vincere solo cambiando strategia, la situazione sul terreno è "grave". Parola del generale capo delle forze Nato, l'americano Stanley McChrystal […] serio problema per Barack Obama: l'Afghanistan è ormai diventata la "sua" guerra e non più un semplice lascito di George Bush da liquidare. Da quando l'attuale presidente l'ha definita "un conflitto di necessità", ha fatto propria la tesi secondo cui combattere i Taliban è indispensabile per proteggere l'America da nuovi attacchi terroristici di Al Qaeda. In questo modo Obama si è esposto in prima persona, diventando il prossimo bersaglio dei movimenti pacifisti, che già annunciano mobilitazioni nelle prossime settimane”.
Federico Rampini – sulle pagine degli esteri de La Repubblica il primo settembre 2009 (e non “solo sul suo blog” come erroneamente segnalato sabato scorso da Camillo)


Un bombardamento aereo della NATO su due autocisterne cariche di carburante ha causato tra le 80 e le 95 vittime, di cui circa la metà civili, stamattina nella – un tempo pacifica – provincia afghana del Kunduz […] A quanto pare i ribelli avevano rubato le due autocisterne che dal Tajikistan erano dirette a Kabul, ma sono rimasti impantanati nei pressi del fiume Kunduz ed hanno chiamato gli abitanti dei villaggi circostanti perché venissero a prendere il carburante. La gente è accorsa portando recipienti di fortuna per portare la benzina: i camion, quando sono stati colpiti dalle bombe gli sono esplosi addosso con una deflagrazione incendiaria da meteorite.
(sunto dal blog AFPAK di FP – 4 settembre 2009)


“Il fatto che ciò sia accaduto neache tre mesi dopo che il generale Stanley McChristal ha diramato le nuove linee guida che limitano drasticamente la possibilità di ricorrere a bombardamenti aerei, ammonendo sul fatto che il loro impiego irresponsabile “racchiude i semi della nostra autodistruzione”, sembra dimostrare quanto sarà arduo praticare la riconversione di un sistema di “potenza di fuoco” che sino ad oggi ha rappresentato l’asso nella manica di una moderna potenza militare alle prese con una elusiva insurrezione di guerriglieri”.
L’"esperto" John Burns sul “blog di guerra” del NYT – 4 settembre 2009


“Ce ne dovremmo andare dall’Afghanistan il prima possibile, portando con noi l’inferno che abbiamo scatenato. La spesa della prosecuzione di questa avventura ed il danno che la nostra permanenza laggiù arreca ai cittadini americani sono semplicemente divenuti inaccettabilmente ingenti. Il concetto di “vittoria” non ha più alcun senso né alcuna utilità. Prima affronteremo questa realtà, meglio sarà”.
Michael Laskoff, Huffington Post, 5 settembre 2009


"Il Presidente Obama ha già disposto l’invio di un rinforzo di 21mila soldati americani in Afghanistan, e presto deciderà se inviarne altre centinaia. Si tratterebbe di una decisione fatale per la sua presidenza, ed un gruppo di ex funzionari dei servizi segreti e di altri esperti sta ora a malincuore uscendo allo scoperto per ammonirlo pubblicamente rispetto al fatto che si tratterebbe di un errore di proporzioni epocali. La preoccupazione espressa da costoro – dannatamente fondata, a mio avviso – è che l’invio di altre truppe proprio nelle aree di etnia Pashtun dell’Afghanista meridionale non farebbe che accendere nella popolazione locale una spinta ad appoggiare i talebani nella resistenza contro gli invasori infedeli – ritengono, insomma, che si assisterebbe a una riedizione di ciò che avvenne negli anni Ottanta, solo che stavolta ci sarebbero gli Stati Uniti al posto dei sovietici".
Nicholas Kristof, NYT, 5 settembre 2009

"Non stiamo solo incrementando il livello delle truppe in Afghanistan. Stiamo trasformando la nostra missione, dal babysitteraggio all'adozione. Ci stiamo spostando da quella che era una missione limitata, incentrata sul fare da babysitter all'Afghanistan (prescindendo dalla miseria del suo governo) per impedire il ritorno di Al Qaeda, ad un vero e proprio progetto di "state-building [...] E questo è un impegno molto più gravoso di quello che avevamo originariamente assunto. Prima di adottare il bimbo - l'Afghanistan - dobbiamo mettere in piedi una nuova discussione nazionale su questo progetto: quanto ci costerà, quanto tempo potrebbe volerci, con quali interessi americani ciò collima, e, soprattutto, chi sarà a sovrintendere questo disegno politico? [...] Io oggi percepisco una diffusa e crescente perplessità riguardo a questa questione da parte dell'opinione pubblica americana; e procedere all'adozione di un bimbo rispetto al quale si nutrono delle perplessità è una ricetta per combinare un disastro".

"Ho trovato significativo il fatto che durante lo scorso weekend, entrambi i due principali commentatori di politica estera del New York Times’s - Tom Friedman e Nicholas Kristoff - si siano prodotti in editoriali scettici sulla guerra in Afghanistan . [...] Non sono solo gli editorialisti ad avere molteplici ripensamenti. Lo stesso sta accadendo ai vertici dei principali think tank americani di politica estera. [...] Si tratta non solo di persone che incidono sulla formazione dell'opinione delle elite, ma anche di naturali simpatizzanti di Obama. Se persino loro cominciano ad opporsi a questa guerra, avrà una bella gatta da pelare". Gideon Rachman, "solo sul suo blog", oggi 7 settembre 2009

"Fra un anno, staremo ancora disquisendo se l’Afghanistan si stia trasformando nel Vietnam di Obama oppure no. Se il presidente sarà fortunato, la questione sarà ancora aperta". Doyle McManus, Los Angeles Times, 6 settembre 2009

mercoledì 2 settembre 2009

OBAMARKETING: "YES WE CAN" NON VENDE PIU'?

Non mi riferisco al dato demoscopico americano, ossia ai sondaggi dell'ultima settimana che segnalano un calo di popolarità tra gli elettori pressoché senza precedenti, per rapidità dopo l'elezione.

Mi riferisco, invece, al dato commerciale italiano, ossia all'esaurimento della "richiesta" di monografie dedicate ad Obama e/o alla "sua" america, rilevato oggi da Christian Rocca.

A quanto pare, il corrispondente de Il Foglio ha parlato con qualche collega che ha recentemente tastato il terreno per vedere di piazzare un suo lavoro su Obama, e che si è sentito opporre una serie di dinieghi che un po' mi ricordano quelli cui - si parva licet... - incappò nel suo piccolo il sottoscritto un anno fa quando osò proporre una monografia su John McCain. Anche la motivazione - a mio avviso non sincera, come dirò - è la stessa: trattasi di "storia già raccontata esaustivamente ogni giorno dai quotidiani, dalle riviste e dalle televisioni".

Balle. Quotidiani, riviste e televisioni si comportavano alla stessa maniera anche l'anno scorso, quando pareva che negli USA si disputasse un'elezione con un candidato unico come nell'Iraq di Saddam. Eppure, ciò non trattenne gli editori italiani dalla foga bulimica con la quale si strafogarono di testi obamamaniaci.

Meno di un anno fa (13 ottobre 2008), scribacchiando su "ITALIAN BLOGS FOR MCCAIN", mi divertii a descrivere il fenomeno della epidemia di obamamania editoriale italica. Non credo fosse mai accaduto in precedenza che in Italia venissero pubblicati la bellezza di 10 (dieci) libri di e/o su un candidato alla Casa Bianca prima delle elezioni americane. Eppure, stavolta è successo.

L'inventario era questo:

1) "Barack Obama. Si può fare" , di B. Obama e L. Rociack (Casini, 2008)
2) "Yes, we can. Il nuovo sogno americano", di B. Obama (Donzelli, 2008)
3) "L'audacia della speranza. Il sogno americano per un mondo nuovo" di B. Obama (prefazione di Uòlter "Si può fare" Veltroni - Rizzoli, 2007)
4) "Barack Obama. La rockstar della politica americana", di G. Moltedo e M. Palumbo (UTET, 2007 - ora ripubblicato come "Barack Obama. 44° presidente USA")
5) "I sogni di mio padre. Un racconto sulla razza e l'eredità", di B. Obama (Nutrimenti, 2007)
6) il misconosciuto ”Perché Obama. La sfida dell'altra America”, di tal Stefano Romita.
7) la monografia di Giuliano da Empoli uscita per la Marsilio, a mio avviso ancora oggi il più interessante prodotto editoriale italiano su Obama (anche se di fatto si tratta di un assemblaggio di articoli usciti su Il Riformista);
8) la traduzione di un’agiografia made in Chicago per i tipi della Cairo Editore (la stessa che pubblicò il mitico "No Sex in the City" dell'altrettanto mitico Mauro Suttora);
9) una raccolta di "discorsi per la presidenza" di Obama, edita dalla Donzelli dopo aver già pubblicato mesi fa una analoga raccolta di discorsi meno recenti (a quando l’istituzione di un’apposita collana?);
10) infine la Rizzoli, dopo aver ripubblicato in versione economica l’autobiografia di Obama con prefazione di Veltroni, uscì prima delle elezioni con un’edizione del discorso di Obama “Sulla razza” addirittura con testo a fronte!

Post-elezioni, la lista si è allungata del 100%:

11) "Barack Obama ha votato per te. Tutto quello che avresti voluto sapere sul presidente degli Stati Uniti e che lui non ha mai avuto il coraggio di dirti", di Dietnam & Mist (TEA)
12) "Caro Obama, ti è già venuta qualche buona idea? Le lettere dei bambini al presidente Obama" (sic! giuro che è vera - e l'editore è Mondadori)
13) "Un nuovo inizio. Il discorso che segna la svolta tra Stati Uniti e Medio Oriente" , di B,. Obama (Castelvecchi - con testo a fronte)
14) "L' era della responsabilità", di B. Obama (Cooper)
15) "La mia fede. Come riconciliare i credenti con una politica democratica" , di B. Obama (Marsilio)
16) "Obama. Yes we can", di A. Painter (Baldini Castoldi Dalai - premio per il titolo più fantasioso. Quello originale, per la cronaca, era "Obama: The Movement for Change")
17) "Obama leadership. Cosa possiamo imparare come manager e come persone" , di F. Mioni e M. Rotondi (Franco Angeli)
18) "Obama S.p.A. I segreti del presidente USA per vincere nel business" di B. Libert e R. Faulk (Etas)
19) "Barack Obama. Come e perché l'America ha scelto un nero alla Casa Bianca" , di L. Clerico (Dedalo)

Quasi venti titoli in poco più di un anno, signore e signori. Su John Kennedy, oggi come oggi ne trovate circa la metà. Su Reagan, ne trovate un decimo (equamente ripartiti: uno a favore, l'altro contro).

Quindi, altro che "quotidiani, riviste e televisioni": sono proprio gli editori di libri ad essersi ingolfati di una enormità di pubblicazioni su Obama, al punto di dover anteporre, oggi, l'esigenza di svuotare i magazzini a quella di pubblicare testi aggiornati all'attualità.

Stando alla segnalazione di Camillo, in questo ingorgo riusciranno a farsi strada solo tre titoli "aggiornati": quello di Pistolini (di gran lunga il miglior agiografo italiano del 44esimo presidente), quello di Calabresi (della cui inattendibilità in materia mi accadde di discettare quando era ancora aspirante direttore di Rep. e non ancora neodirettore del La Stampa), e il "Renegade" di Wollfe - cui potrebbe aggiungersi a breve un nuovo volume dell'ottimo Maurizio Molinari.

Morale della favola: il "raffreddamento" nei confronti di Obama da parte dell'editoria italiana appare del tutto analogo ed omogeneo rispetto a quello da parte degli elettori americani: reflusso, dovuto al fisiologico sgonfiamento di una "bolla" formatasi, non senza una certa isteria, l'anno scorso.