martedì 6 novembre 2018

"JUST DO IT"

Non si vede l’enorme, caricaturale cespuglio di capelli afro, nel primissimo piano del volto di Colin Kaepernick scelto per lo spot con il quale la Nike celebra i 30 anni del suo celeberrimo slogan “Just Do It”. Solo i tratti del viso, poco più che il suo sguardo, e la scritta “credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto“.
Kaepernick è probabilmente il personaggio più controverso, e politicamente più esposto, del mondo dello sport americano. Nel 2016, quando ancora giocava da quarterback in una squadra molto importante, i San Francisco 49rs, diede inizio a una protesta contro violenze e abusi perpetrati dalla polizia statunitense sui cittadini afroamericani. La protesta consisteva semplicemente nell’inginocchiarsi durante l’esecuzione dell’inno nazionale, prima di ogni partita. Molti altri giocatori aderirono e la polemica dilagò. In un’intervista Kapernick dichiarava: “Non intendo mostrare orgoglio per una bandiera e per un Paese che opprime la gente di colore”. Durante la campagna elettorale per la Casa Bianca, attaccò non solo Donald Trump (“è apertamente razzista”), ma anche Hillary Clinton (“ha commesso dei reati che se fossero stati commessi da chiunque altro, ora quella persona sarebbe in prigione”). Hillary fece finta di nulla, Trump invece colse la ghiotta occasione per contrattaccare (“se questo Paese non gli piace se ne può anche andare”, dichiarò rievocando il “Love it or leave it” che mezzo secolo fa veniva rivolto ai pacifisti che bruciavano la bandiera per protestare contro la guerra in Vietnam).
Alla fine Kapernick ci ha rimesso il lavoro, nel senso che nessuna squadra lo ha più ingaggiato; inoltre la National Football League, assecondando le richieste di Trump, ha vietato quel gesto di protesta durante l’inno; da ultimo, lui ha intentato causa contro la Lega, lamentando di essere vittima di discriminazione.
Ora, ragionando secondo gli schemi di un tempo, la scelta di Nike di renderlo il volto del suo trentennale può apparire sorprendentemente “politica”, e stranamente rischiosa. Dopotutto, il football è lo sport per eccellenza negli Usa, e Nike sponsorizza tutte le 32 squadre della Nfl, la lega professionistica nazionale. Ma in realtà questa scelta ha senso, esattamente per la stessa ragione per cui alla Nfl conviene essere “trumpiana”: una ragione puramente commerciale. Innanzitutto, i clienti di Nike sono in misura largamente preponderante “i giovani”. Quei giovani che da anni risultano sempre meno propensi a guardare lo sport in tv, e sempre meno appassionati di football. Lo spettatore “medio” di una partita di football ha circa 50 anni, dicono i dati disponibili. Per mantenere il suo primato in un mercato di consumatori giovani, Nike non può limitarsi a sponsorizzare la Nfl: deve inseguire ciò che attira l’attenzione dei diciottenni e dei ventottenni (e soprattutto di quelli che abitano nelle grandi città, perché sono questi a dare il via alle “tendenze” alle quali poi gli altri si accodano). E Nike sa che a questa fascia di popolazione il gesto di Kapernick era piaciuto, e non poco.

Dopo la sua protesta, la maglia del giocatore originario del Wisconsin divenne improvvisamente la più venduta, anche se nel frattempo aveva smesso di giocare. Non tanto perché i ragazzi lo seguissero nella militanza politica, quanto semplicemente perché andare controcorrente – specie con una gestualità così affascinante – risulta cool, attira la loro attenzione. La reazione dei giovani è stata cliccare “mi piace” sui social, e poi “compra” su Amazon, ma non certo mobilitarsi, e men che meno disturbarsi a raggiungere il seggio il giorno delle elezioni. Quella di cui parliamo, non a caso, è una delle fasce di popolazione meno inclini a votare per Trump, ma attualmente anche la meno intenzionata a cambiare le cose: soltanto uno su tre di quei ragazzi è intenzionato a presentarsi alle urne.
Inoltre, non dimentichiamo che negli Usa il football è trattato alla stregua di una religione, ma nel resto del mondo è uno sport decisamente di nicchia; lo stesso resto del mondo in cui l’antipatia per Donald Trump, dal canto suo, di nicchia non è. Il mercato della Nike è mondiale, e fortemente orientato non semplicemente sui giovani americani, ma su quelli di tutto il pianeta. Non solo: in Europa, in Medio Oriente, in Sud America, le vendite dei prodotti Nike stanno crescendo tre o quattro volte più che negli Usa; in Cina, sette volte di più. È del resto la stessa azienda ad aver pubblicamente proclamato, più di un anno fa, di voler puntare tutto sui consumatori che vivono in dodici metropoli “chiave”: accanto a New York e Los Angeles (che guarda caso sul piano elettorale sono delle roccaforti anti-trumpiane…), le altre sono Londra, Shanghai, Pechino, Tokyo, Parigi, Città del Messico, Barcellona, Seul e Milano.
Quindi, no: Nike non sta facendo politica. Non sta sposando una “causa”, e non ha scelto di aprire in questo modo la sua campagna per “fare un dispetto a Trump”, né men che meno per schierarsi in vista delle ormai imminenti elezioni di metà termine. Semplicemente, sono ormai lontani i tempi in cui si diceva che Michael Jordan (celebre testimonial Nike), pur essendo simpatizzate del Partito democratico, evitava di parlare di politica perché “le scarpe da ginnastica le comprano anche i repubblicani”. In quest’epoca – un’epoca un po’ strana, ma tant’è – essere un personaggio fortemente controverso può rivelarsi un pregio. Questa campagna pubblicitaria è chiaramente basata su questo fattore: con un testimonial “non controverso” avrebbe rischiato di scivolare nell’indifferenza generale.
A loro volta, le persone filotrumpiane che si sono indignate e stanno condividendo sui social foto e filmati di roghi di scarpe e calzini sono presumibilmente convinte di intraprendere una qualche forma di militanza politica. E invece stanno contribuendo anche loro, inconsapevolmente, a questa campagna Nike. Stanno aiutando a vendere più scarpe quella stessa multinazionale che credono di boicottare. E lo stanno facendo gratis. Probabilmente il “signor Nike” le sta guardando sornione, e pensando qualcosa di simile a: Just do it.
Uscito su Forbes

Nessun commento:

Posta un commento