mercoledì 7 novembre 2018

CONFRONTO ALL'AMERICANA


Un presidente eletto da due anni che affronta per la prima volta quel “referendum” sul suo governo che di fatto è insito in ogni elezione di metà mandato, e viene – per sua stessa ammissione – “asfaltato”.
Il partito di opposizione che, pur essendo ancora frammentato, in cerca di nuova identità e drammaticamente sprovvisto di nuova leadership, riesce a catalizzare la “rivolta contro il presidente”, e grazie a ciò non solo stravince le elezioni della Camera, ma guadagna diversi seggi anche al Senato, e “vince tutto” anche nelle elezioni dei Governatori dei singoli Stati, persino in quelli considerati roccaforti del partito del Presidente.
Poteva essere questa la sostanza delle elezioni di metà mandato appena concluse, se si fosse concretizzata la “ondata blu” della quale molti favoleggiavano mesi addietro.
E invece no. Questa è stata la sostanza di un’altra elezione di metà (primo) mandato, quella di otto anni fa, la prima midterm durante la presidenza di Barack Obama.
Nel 2010 i Democratici oltre a detenere la maggioranza in entrambi i rami del Congresso erano anche al comando nella maggioranza assoluta degli Stati, sia quanto a governatori che quanto a maggioranze parlamentari locali (le quali a loro volta determinano lo spazio di manovra del governatore).
I Repubblicani, per contro, erano – più ancora dei Dem di oggi – politicamente divisi e drammaticamente sprovvisti di qualsiasi embrione di leadership. Da quando Obama era stato eletto venivano descritti come sull’orlo dell’estinzione (memorabile una cover story di TIME in questo senso). Quell’anno, per riprendersi la maggioranza alla Camera Il Grand Ole Party avrebbe dovuto rimontare di almeno 39 seggi (quasi il doppio di quei miseri 23 seggi che quest’anno bastavano per la rimonta ai Dem). Alla fine i repubblicani ne conquistarono ben 63  – circa il doppio di quelli che i sondaggi estivi avevano pronosticato. Dei seggi conquistati dai Repubblicani, solo 23 si trovavano in regioni nelle quali il GOP andava tradizionalmente forte, mentre il grosso (29 seggi) si trovava negli Stati centro-settentrionali, in mezzo al Midwest industriale, con picchi in Pennsylvania e in Ohio, ma anche nello Stato di New York e in Illinois. Si trattò della più grande vittoria elettorale parlamentare repubblicana dell’ultimo secolo: bisogna risalire al 1894, ai tempi della seconda elezione di Grover Cleveland, per trovare un record superiore.
Più complessa la questione al Senato: quando Obama era stato eletto alla Casa Bianca nel 2008 i Dem avevano raggiunto addirittura la cosiddetta supermaggioranza, anche se risicatissima di 60 senatori su 100, non uno di più; ma poi la avevano persa all’inizio del 2010 quando alle suppletive in Massachusetts tenutesi dopo la morte di ted Kennedy era stato clamorosamente eletto un repubblicano. Partivano quindi da 59 seggi, e i Rep da 41. Non perdettero la maggioranza, ma la videro ridursi a 53, perché il partito di opposizione strappò comunque 6 seggi a quello di governo.
Per quanto riguarda i governatori i Dem, che fino al 2010 ne detenevano la maggioranza assoluta (26 su 50), quell’anno persero una dozzina di Stati, tra i quali praticamente tutto il MidWest.
“Da qualche parte lungo il percorso, colui che era l’apostolo del cambiamento ne è divenuto il bersaglio, sommerso dalla stessa corrente cavalcando la quale era stato portato alla Casa Bianca due anni fa”. Questo fu l’incipit dell’analisi pubblicata a caldo non da un sito web conservatore, ma dal New York Times. In conferenza stampa Obama ammise: “ci hanno asfaltati” (“a shellacking“).
Ecco: non leggerete nulla di simile per quanto riguarda le prime midterm della presidenza Trump (se lo doveste leggere, mettetevi a ridere).
Non c’è stato alcun “referendum perso” per il presidente, non si è registrata alcuna crisi di rigetto, nessuna grande marea di riflusso. Certo, del terreno perso qui e là, ma questo accade praticamente sempre in tutte le elezioni di metà mandato. È fisiologico ed usuale. Qui la vera notizia è la modestissima entità di questo terreno perso, e quindi la tenuta di quello che, da oggi, è ancor più “il partito di Trump”.

Prosegue su Il Nazionale

1 commento:

  1. Quando i politici europei e d'oltreoceano si renderanno conto che questo NON è un voto "di protesta" o "di pancia" o "fascista-omofobo-sessista" ecc ecc ma bensì un cambio radicale di orizzonte indentitario, a quel punto si potrà ricostruire un dialogo equilibrato e propositivo tra le due forze in campo (dx>sx / dem>rep) che magari sarà proattivo ad una nuova visione più egualitaria, rispettosa e ricca delle differenze di vedute che diventano patrimonio della convivenza civile.

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