lunedì 10 ottobre 2016

...E NON C'E' NIENTE DA RIDERE.

Manca meno di un mese all’elezione del quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti d’America: i tempi sono quindi maturi per fare i conti con la realtà, per quanto sgradevole essa sia.

E la realtà è che il prossimo presidente, piaccia o no:
a) sarà uno di questi due:
b) davvero non sappiamo quale dei due.


Sarà Hillary Clinton, la peggior candidata che il partito Democratico (svantaggiato in partenza dal fatto di aver già detenuto la Casa Bianca per otto anni) potesse scegliersi,una candidata talmente debole, impopolare e poco credibile da risultare, nei sondaggi, in vantaggio di un nonnulla nonostante tutto ciò che di repellente e screditante è stato rovesciato sul suo antagonista negli ultimi dieci giorni; oppure sarà Donald Trump, un personaggio sul cui conto è fin troppo facile reperire una valanga di materiale repellente e screditante, ma sempre con effetti mini sull’opinione pubblica, perché la sua candidatura è un esperimento la cui regola n.1 è “there is no bad publicity”, la reputazione per lui non conta, non lo si vota perché lo si stima ma perché lo si trova idoneo a rottamare quell’altra e tutto ciò che quell’altra rappresenta nell’immaginario collettivo.
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martedì 27 settembre 2016

LUI E' PEGGIO DI ME


'Gli elettori di Trump stanno ancora con lui. Quelli di Hillary stanno ancora con Hillary. Gli indecisi sono ancora indecisi. E in molti vorrebbero candidati migliori'. Questo semplicissimo giudizio espresso a caldo su Twitter da Ari Fleischer, che fu addetto stampa della Casa Bianca ai tempi di George W. Bush, riassume il succo del primo dibattito fra i due pretendenti di questa elezione presidenziale.
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mercoledì 27 luglio 2016

TRUMP, EISENHOWER E IL CONTO DELL'HOTEL

Faceva caldo lunedì, nella sala da ballo del lussuoso hotel di Roanoke, in Virginia, dove un Donald Trump reduce dalla Convention Nazionale di Cleveland stava spiegando ai suoi simpatizzanti come intende 'Rendere di nuovo grande l’America' in politica estera.
Si sudava, le signore agitavano i ventagli. A Trump questo fastidio è sembrato una occasione perfetta per spiegare come funzionano le cose. Ecco, vedete? Io qui pago il conto della sala, ma se i proprietari dell’hotel stanno facendo i furbetti risparmiando sull’aria condizionata, sapete che c’è? Io il conto posso anche decidere di non pagarlo. Perché se loro non fanno la loro parte, io ho diritto a non fare la mia.
Non si è trattato di una digressione estemporanea. Trump stava spiegando come intende gestire il ruolo dell’America nel mondo. E si riferiva, in particolare, alla sua sortita sulla politica estera che - in una intervista al New York Times pochi giorni prima - aveva suscitato maggior scalpore: ossia la affermazione che gli alleati devono smetterla di usufruire a scrocco della protezione militare garantita dagli Stati Uniti, e devono cominciare a contribuire in modo più equo ai costi delle strutture militari alleate.
Avrebbe potuto benissimo essere riconosciuta come la più obamiana di tutte le cose dette da Trump, perché da anni Obama va ripetendo esattamente la stessa cosa, in ogni occasione. Ha persino parlato di alleati “free rider”, cioè scrocconi, per l’appunto. Evidentemente non si tratta della tesi di una parte politica, ma di una esigenza molto sentita da tutta l’America, e fortemente radicata nella realtà.
Ma Trump è Trump, mica può limitarsi a dire le stesse cose che dice anche Obama. E così ha rincarato la dose, alla sua maniera. Se la Russia invade un Paese alleato, gli USA interverranno a difenderlo? Dipende. 
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mercoledì 18 maggio 2016

TRUMP E L'AMERICA CHE VOTA CON IL DITO MEDIO


Nato miliardario, residente a Manhattan, cresciuto nello sfarzo: come candidato anti-establishment, Donald Trump non è altro che una grande messinscena, peraltro delle meno credibili. Eppure le sue sparate funzionano alla grande con quegli americani che vogliono semplicemente votare 'contro'. Perché?


Qualcosa si muoveva già nel 2000, quando nelle primarie presidenziali repubblicane il candidato sostenuto dall’establishment del partito, il governatore del Texas George W. Bush, era inizialmente inciampato nel più scomodo dei maverick.
Il settimanale Rolling Stone aveva proposto al giovane scrittore anticonformista David Foster Wallace di scegliersi un candidato alle primarie di uno dei due partiti e seguirlo on the road per una settimana per scrivere un reportage; e lui aveva scelto di salire sul bus dell’anziano senatore repubblicano John McCain. Era lui, in quel momento, la rockstar della politica americana. E lo era in quanto alternativa “antiestablishmentarian”. Il suo programma era imperniato sulla proposta di una grande riforma del sistema di finanziamento delle campagne elettorali, volta a ridimensionare il potere delle grandi lobby. I suoi comizi si aprivano con la musica di “Star Wars”, quasi a suggerire che Bush fosse un Dart Fener e lui un Luke Skywalker della politica (pare anche che in privato chiamasse scherzosamente “la Morte Nera” la macchina elettorale dell’avversario). La sua avventura durò poche settimane, ma suscitò un entusiasmo sintomatico. Qualcosa si muoveva.

E quel qualcosa si muoveva ancora di più otto anni dopo, quando, nelle primarie presidenziali per il dopo-Bush, John McCain riuscì dove otto anni prima aveva fallito: battè il candidato più ricco e più gradito all’establishment del partito, che stavolta aveva il volto di Mitt Romney. Simmetricamente, nelle primarie democratiche la candidata dell’establishment, Hillary Clinton, da tempo considerata la favorita al limite della predestinazione, venne battuta dal giovane outsider Barack Obama.
Che il 2008 sia semplicemente un anno strano”, si chiese l’opinionista neoconservatore Bill Kristol, “o sta forse accadendo qualcosa di grosso? Stiamo assistendo ad uno dei periodici risvegli politici e culturali dell’America, a una delle nostre occasionali, quasi compulsive reazioni democratiche alla distanza, percepita come eccessiva, tra la gente ed suoi “establishment”? Risvegli di questo genere posso essere anche improvvisi, e possono anche arrivare su più fronti contemporaneamente. Spesso sono accomunati da un tema ricorrente, ossia la richiesta popolare: “piantatela di parlare in nostro nome, e cominciate un po’ ad ascoltarci”. 
Alla fine di agosto, a poche ore dalla convention nazionale repubblicana in Minnesota, McCain spiazzò tutti annunciando che avrebbe candidato come sua vice la governatrice dell’Alaska, Sarah Palin. 

Segue sulla monografica bimensile MAGGIO/GIUGNO 2016 di STRADE  (L'intero numero della rivista è qui)

giovedì 17 marzo 2016

GLI INSOPPORTABILI

“In buona sostanza quello che è successo oggi è che Hillary Clinton è stata eletta Presidente. Da qui in poi abbiamo otto mesi di iperventilazione prima che la cosa sia ufficializzata”.
Così ha twittato martedì sera Tony Fratto, che era stato uno dei portavoce della Casa Bianca ai tempi di George W. Bush. 
La vittoria di Trump è stata esattamente quella che i sondaggi pronosticavano....
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mercoledì 2 marzo 2016

UN "SUPER TUESDAY" PER NIENTE SUPER

Capita, talvolta, che il voto del “Super Martedì” chiuda i giochi e consegni la candidatura ad uno dei contendenti. Non è capitato stanotte.
Il conteggio dei delegati da assegnare è ancora in corso, perché si tratta di una spartizione che avviene in parte con metodo proporzionale, in parte con un maggioritario applicato non allo Stato nel suo complesso bensì ai singoli collegi elettorali (in quasi tutti gli Stati del Sud vige il cosiddetto “Winner takes most”, cioè si applica il maggioritario secco solo se qualcuno supera il 50%, cosa che stanotte non è successa, altrimenti in ogni collegio si assegnano due delegati al più votato ed uno al secondo). Ma la situazione è in linea di massima ormai delineata.
Trump ha “vinto”, ma senza grande slancio, riportando risultati al di sotto delle aspettative create dai sondaggi e dalla sua sovraesposizione mediatica.
La vera sorpresa sta nel risultato deludente di Marco Rubio ed in quello inaspettatamente consistente di Ted Cruz.
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lunedì 29 febbraio 2016

HILLARY IS THE NEW BLACK


Cos'è la South Carolina per i Democratici? È uno di quegli Stati tipicamente "sudisti" nei quali sanno di non avere alcuna speranza di battere i Repubblicani.
Ma proprio perché lì, nelle elezioni generali, i Dem sanno di essere minoranza, durante le primarie la South Carolina è vista come un referendum sul loro rapporto con quella che lì rappresenta la maggioranza assoluta di quella minoranza, ossia l’elettorato afroamericano.
Quest’anno il test era particolarmente significativo. Da un lato, infatti, Hillary si porta appresso il punto di forza del tradizionale rapporto privilegiato di suo marito con le comunità afroamericane (ricordiamo che nel 1998 la scrittrice afroamericana Toni Morrison coniò per Bill Clinton la definizione di “Primo Presidente Nero, nonostante la pelle bianca”); dall’altro, però, aveva sulle spalle anche il doloroso ricordo dellabatosta infertale da Obama alle primarie di otto anni fa, quando il giovane senatore dell’Illinois vinse “a valanga” con oltre il 55% dei voti, lasciando la ex First lady con un umiliante 26,5 (il resto andò al terzo incomodo John Edwards). Ovviamente Obama aveva stravinto i voti degli afroamericani anche e soprattutto grazie ad un fattore biografico, il che ha sempre sollevato seri dubbi sulla possibilità di replicare simili risultati dopo la sua uscita di scena.
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mercoledì 24 febbraio 2016

CHE SUCCEDE, AMERICA?

Succede che i caucus del Nevada sono stati stravinti da Trump con il 46%. In un caucus con affluenza altissima, hanno votato “tutti” per lui: anziani e meno anziani, bianchi e latinos (lui, che dice di voler costruire una muraglia cinese sul confine con il Messico e far pagare il conto ai messicani), istruiti e non istruiti, conservatori e non (anzi: quelli che si sono autodefiniti “liberal” l’hanno votato in misura ancora più massicia di quelli che si definiscono conservatori), “evangelici” e mormoni – lui, pro aborto e tre volte divorziato. Il voto per Trump ha prevalso in tutte le categorie dei elettorato (unica eccezione i giovanissimi). Lo hanno scelto l’86% dei votanti che hanno dichiarato di aver votato per il candidato “che dice le cose come stanno” e il 60% di quelli che hanno dichiarato di aver scelto per il “portatore di cambiamento”.
Succede che i vertici del partito a lungo hanno dato per scontato che la “bolla” di Trump si sarebbe sgonfiata da sola, senza bisogno di intervenire. Succede che gli analisti e i commentatori (anche noi da qui, nel nostro piccolissimo) hanno dato per scontato che anche se la bolla non si fosse sgonfiata da sola Trump sarebbe stato comunque fermato dai vertici del partito (che invece, vedi sopra). Succede che la base, “la gente”, dà per scontato che tutto ciò che sta sul menu è per ciò stesso appetibile, e lo votano senza tanti scrupoli. Sono arrabbiati, stufi e disillusi. Votano “con il dito medio” come ha scritto qualcuno. 
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lunedì 22 febbraio 2016

I SOPRAVVISSUTI DELLA SOUTH CAROLINA

L’artista più rappresentativo della musica della South Carolina si chiama Josh Turner. È un cantante country con una voce baritonale incantevole. Musicalmente, il suo repertorio rientra nel filone del cosiddetto neotradizionalismo; quanto alle parole delle sue canzoni, sono intrise di una fede religiosa intensa quanto elementare. Il suo brano di esordio, tutt’ora il più celebre, esorta a rinunciare al peccato finchè si è in tempo, ribellandosi alle tentazioni come se si trattasse di saltare giù da un ideale lungo treno nero, in corsa verso il baratro, guidato dal Diavolo in persona.
Politicamente l’elettorato di quello Stato non è molto diverso: tradizione, religione, attaccamento ai vecchi valori Dio Patria e Famiglia, messaggi semplici e forti. Per questo vincere le primarie presidenziali repubblicane qui – le prime a tenersi nel Profondo Sud – non significa granchè in termini di appeal elettorale generale, ma tutt’al più rappresenta un test rispetto all’ala più conservatrice dell’elettorato del Grand Ole Party, in particolare quella più legata alla cosiddetta “Destra religiosa”. Non è poi tanto raro che chi vince qui non arrivi poi ad aggiudicarsi la candidatura:quattro anni fa, ad esempio, in South Carolina vinse Newt Gingrich, la cui candidatura poi non arrivò da nessuna parte. Ma attenzione: Gingrich non aveva vinto anche in New Hampshire. Dati alla mano, storicamente tutti gli aspiranti che hanno vinto sia qui che in New Hampshire sono poi arrivati ad aggiudicarsi la candidatura repubblicana alla Casa Bianca. Se dovessimo attenerci ai precedenti, quindi...
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lunedì 15 febbraio 2016

ADDIO ANTONIN SCALIA, IL DISSENZIENTE INSOSTITUIBILE


“Noi non rivestiamo questa carica per fare la legge, per decidere chi deve vincere. Noi decidiamo solo chi vince applicando la legge che il popolo si è dato. E molto spesso, se sei un buon giudice, ti capita di orientarti verso un risultato che non ti piace per niente”. 
Antonin Scalia, intervista a C-Span, 2009

Antonin Scalia è morto nel sonno sabato, mentre si riposava da una battuta di caccia in Texas (una fine poeticamente perfetta, per un conservatore come lui), e ora nulla è più come prima. La Corte Suprema degli Stati Uniti non ha più il leader della sua “ala destra”, e il mondo politico conservatore americano è orfano del suo più brillante punto di riferimento giuridico. Aggiungiamoci poi che si tratta anche del più influente italoamericano dell’America contemporanea. Veder parlare un giudice della Corte Suprema è sempre uno spettacolo, scriveva nel 2005 Margaret Talbot sul New Yorker, ma “è da Scalia che ci si può aspettare l’equivalente giurisprudenziale dello sfasciare una chitarra sul palco”.
Una superstar, insomma. Ma attenzione: Scalia non è stato solo un oratore e un polemista dotato di raro carisma e di irresistibile humour. È stato anche un intellettuale straordinariamente onesto e coerente. Spesso i conservatori vengono accusati di facile opportunismo rispetto alla presunta difesa del dettato letterale della Costituzione, contro arbitrarie interpretazioni “creative” che vorrebbero aggiornarla alla attualità. Non di rado l’accusa è fondata; ma nel caso di Scalia, non è stato così. Anzi. Lui giocava in un altro campionato.
Esiste una serie di sue decisioni (58 dei ben 342 casi nei quali il suo voto è stato determinante, stando al database della Corte Suprema) i cui effetti concreti, politicamente, sarebbero etichettati “di sinistra”, ma che lui non ha esitato ad adottare nel rispetto della sua visione giuridica. Per molti anni i suoi assistenti se li è scelti di sinistra, per poter lavorare confrontandosi sempre con visioni opposte alla sua. E anche tra i suoi allievi ci sono degli insospettabili....
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mercoledì 10 febbraio 2016

PAURA E DELIRIO IN NEW HAMPSHIRE

Quando, ormai più di due anni fa, si fece chiara l’intenzione di Hillary Clinton di ritentare la candidatura alla Casa Bianca, gran parte dei media mondiali ricadde nel consueto errore di accogliere gioiosamente come più o meno scontata la lieta novella del “primo presidente donna” (e di lì a poco anche primo presidente nonna).
A voler vedere le cose con un minimo di obiettività, il successo di questo secondo tentativo era tutto fuorchè scontato. L’America stava e sta vivendo una profonda crisi di rigetto nei confronti della “vecchia politica”, e Hillary è una perfetta esponente proprio di quel mondo: con tutto l’apparato di scheletro nell’armadio, di compromessi cinici e spesso poco nobili, di menzogne sotto giuramento. La perplessità che non potei non esprimere all’epoca non sta trovando che conferme.
Il voto della settimana scorsa in Iowa – dove non si tengono elezioni primarie, macaucus che somigliano più ai nostri congressi di partito – con quel sostanziale, umiliante pareggio al 49 virgola-qualcosa per cento tra la ex First Lady ed ex Madame Secretary ed il vecchio senatore socialista del Vermont Bernie Sanders, già non suonava affatto bene. Ma il voto di ieri alle prime vere primarie, quelle del New Hampshire, suona decisamente peggio. 
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