giovedì 20 dicembre 2012

L'AMERICA DI BORK - E QUELLA DI KENNEDY

C’è uno strano verbo nel gergo politichese americano che è pressoché impossibile tradurre senza raccontare una storia. Il verbo è “to be borked” (“venire borkizzato”), e la storia è quella della mancata nomina alla Corte Suprema degli Stati Uniti di Robert Bork, il giurista conservatore scomparso ieri all’età di 85 anni.

Il primo luglio del 1987, Ronald Reagan - a poco più di un anno dal termine della sua presidenza - annunciò a sorpresa la sua decisione di candidare Bork alla Corte Suprema. Professore di Yale specializzato nel diritto dell’antitrust e poi – sempre su nomina di Reagan – giudice della Corte d’Appello del Distretto di Columbia (cioè della capitale Washington), Bork era un giurista molto brillante e preparato, ma era notorio il suo orientamento estremamente conservatore.
L’anno prima, Reagan aveva messo a segno i primi due “colpi” che avevano portato nella Corte la cosiddetta “rivoluzione conservatrice”: prima la promozione a Chief Justice (Presidente della Corte) del conservatore duro e puro William Rehnquist (il quale nel 1973 era stato il dissenziente estensore del parere di minoranza nella decisione della famosa causa “Roe contro Wade” che aveva introdotto in tutti gli Stati Uniti il diritto della donna a decidere liberamente di abortire), poi la nomina di Antonin Scalia, il quale in futuro sarebbe a sua volta divenuto il leader della componente conservatrice nella Corte. La nomina di Bork sarebbe stata il terzo tassello che avrebbe completato il disegno, riportando i conservatori in maggioranza e così sancendo la fine della egemonia giurisprudenziale progressista che durava dai tempi di Franklin Delano Roosevelt.

La scelta di Reagan era stata ufficializzata da appena 45 minuti, quando il senatore Ted Kennedy si presentò in diretta televisiva e pronunciò davanti alla nazione una invettiva spregiudicatamente terroristica, che avrebbe lasciato per sempre il segno nella storia della “polarizzazione” della vita politica statunitense. Eccone il passaggio più famoso:

“L’America di Robert Bork è una terra in cui le donne sarebbero costrette ad abortire nei vicoli, i neri tornerebbero a essere segregati nei ristoranti, la polizia irromperebbe nelle case dei cittadini con raid notturni, ai bambini a scuola non potrebbe più essere insegnato l’evoluzionismo, gli artisti e gli scrittori sarebbero censurati a piacimento del governo, e le porte dei tribunali faderali verrebbero chiuse sulle dita delle mani di milioni di cittadini. Nessuna giustizia sarebbe meglio di questa ingiustizia”.
Fu l'inizio di una guerra. Bork venne sottoposto alla più dura lapidazione mediatica dai tempi del Watergate. Finì sui giornali persino la lista delle videocassette che aveva noleggiato negli ultimi anni da Blockbuster (dopo quell’episodio, una legge – non una sentenza della Corte Suprema – vietò di pubblicare simili informazioni su un privato cittadino).

Durante le audizioni per la conferma della sua nomina al Senato (allora a maggioranza democratica: la Commissione Giustizia era presieduta dal futuro vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden), gli venne infine estorta la “confessione”: ebbene sì, egli riteneva che la Costituzione non prevedesse, in realtà, quel “diritto alla privacy” in forza del quale la Corte Suprema nel 1973 aveva affermato il diritto della donna di scegliere se abortire. Ma la sua demolizione - un classico caso di quello che giornalisticamente si definisce “character assassination” – era avvenuta non solo e non tanto sul merito del suo orientamento giuridico, quanto piuttosto convincendo l’opinione pubblica che egli era una persona piuttosto schifosa, un mezzo pazzoide, un mostro.
La sua candidatura venne bocciata con 58 voti contro 42: tutti i senatori Democratici tranne due votarono contro.

Da lì nacque il sarcastico neologismo “to be borked” per definire la trombatura di un candidato a qualche alta carica pubblica, messa a segno facendo “saltar fuori” ed enfatizzando a dovere qualche dato più o meno scabroso del suo curriculum, della sua biografia o della sua mentalità (a volte anche solo del suo aspetto fisico), che consenta di massacrarne l’immagine pubblica.

Per ironia della sorte, il secondo caso di “borkizzazione” della storia dopo quello originario subito da Bork stesso, toccò poco dopo proprio al giudice centrista che venne candidato al suo posto: Douglas Ginsburg, il quale si dovette ritirare quando “saltò fuori” (e venne “sbattuto in prima pagina”) il fatto che in passato, quando lavorava come professore di diritto, era stato un occasionale consumatore di marijuana - vizietto illegale, oltre che politicamente scorretto. Alla fine venne nominato un altro centrista, Anthony Kennedy, che avrebbe fatto per decenni da ago della bilancia all’interno della Corte.

Un anno fa apparve sul New York Times un articolo di Joe Nocera nel quale si riconosceva che con quella battaglia vinta i Democratici hanno iniettato nelle vene della politica americana un veleno la cui tossicità ancora oggi non è stata smaltita: “in un certo senso, quello fu l’inizio della fine del confronto civile in politica”.
Anche nel pezzo pubblicato ieri sera sul sito del NYT in morte di Bork, si ricorda come quella campagna fu l’inizio di una politicizzazione del processo di approvazione delle nomine che rende tendenzialmente impossibile l’approvazione di quelle di persone che abbiano espresso con chiarezza le proprie idee.
Della stessa idea Tom Goldstein, direttore del seguitissimo sito SCOTUSBLOG, la più cliccata fonte di informazioni sulla Corte Suprema, quella vicenda del 1987 “cambiò tutto, forse per sempre. Quella guerriglia ingaggiata da alcuni settori della sinistra americana legittimò le guerre ideologiche a terra bruciata su tutte le successive nomination alla Corte Suprema, per cui oggi ogni candidato che ambisca a quella nomina sta estremamente attento, ai limiti del ridicolo, a non dire nulla su come la pensa veramente”.
Di tutt’altro tenore la commemorazione sul sito di sinistra Gawker, il cui titolo dice già tutto: “Robert Bork era un orribile essere umano, e nessuno dovrebbe essere in lutto per il suo trapasso”. Come dicevo, a distanza di un quarto di secolo il veleno non è ancora del tutto smaltito. Anzi.

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