lunedì 24 dicembre 2012
giovedì 20 dicembre 2012
L'AMERICA DI BORK - E QUELLA DI KENNEDY
C’è uno strano verbo nel gergo politichese americano che è pressoché impossibile tradurre senza raccontare una storia. Il verbo è “to be borked” (“venire borkizzato”), e la storia è quella della mancata nomina alla Corte Suprema degli Stati Uniti di Robert Bork, il giurista conservatore scomparso ieri all’età di 85 anni.
Il primo luglio del 1987, Ronald Reagan - a poco più di un anno dal termine della sua presidenza - annunciò a sorpresa la sua decisione di candidare Bork alla Corte Suprema. Professore di Yale specializzato nel diritto dell’antitrust e poi – sempre su nomina di Reagan – giudice della Corte d’Appello del Distretto di Columbia (cioè della capitale Washington), Bork era un giurista molto brillante e preparato, ma era notorio il suo orientamento estremamente conservatore.
L’anno prima, Reagan aveva messo a segno i primi due “colpi” che avevano portato nella Corte la cosiddetta “rivoluzione conservatrice”: prima la promozione a Chief Justice (Presidente della Corte) del conservatore duro e puro William Rehnquist (il quale nel 1973 era stato il dissenziente estensore del parere di minoranza nella decisione della famosa causa “Roe contro Wade” che aveva introdotto in tutti gli Stati Uniti il diritto della donna a decidere liberamente di abortire), poi la nomina di Antonin Scalia, il quale in futuro sarebbe a sua volta divenuto il leader della componente conservatrice nella Corte. La nomina di Bork sarebbe stata il terzo tassello che avrebbe completato il disegno, riportando i conservatori in maggioranza e così sancendo la fine della egemonia giurisprudenziale progressista che durava dai tempi di Franklin Delano Roosevelt.
La scelta di Reagan era stata ufficializzata da appena 45 minuti, quando il senatore Ted Kennedy si presentò in diretta televisiva e pronunciò davanti alla nazione una invettiva spregiudicatamente terroristica, che avrebbe lasciato per sempre il segno nella storia della “polarizzazione” della vita politica statunitense. Eccone il passaggio più famoso:
“L’America di Robert Bork è una terra in cui le donne sarebbero costrette ad abortire nei vicoli, i neri tornerebbero a essere segregati nei ristoranti, la polizia irromperebbe nelle case dei cittadini con raid notturni, ai bambini a scuola non potrebbe più essere insegnato l’evoluzionismo, gli artisti e gli scrittori sarebbero censurati a piacimento del governo, e le porte dei tribunali faderali verrebbero chiuse sulle dita delle mani di milioni di cittadini. Nessuna giustizia sarebbe meglio di questa ingiustizia”.
Fu l'inizio di una guerra. Bork venne sottoposto alla più dura lapidazione mediatica dai tempi del Watergate. Finì sui giornali persino la lista delle videocassette che aveva noleggiato negli ultimi anni da Blockbuster (dopo quell’episodio, una legge – non una sentenza della Corte Suprema – vietò di pubblicare simili informazioni su un privato cittadino).
Durante le audizioni per la conferma della sua nomina al Senato (allora a maggioranza democratica: la Commissione Giustizia era presieduta dal futuro vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden), gli venne infine estorta la “confessione”: ebbene sì, egli riteneva che la Costituzione non prevedesse, in realtà, quel “diritto alla privacy” in forza del quale la Corte Suprema nel 1973 aveva affermato il diritto della donna di scegliere se abortire. Ma la sua demolizione - un classico caso di quello che giornalisticamente si definisce “character assassination” – era avvenuta non solo e non tanto sul merito del suo orientamento giuridico, quanto piuttosto convincendo l’opinione pubblica che egli era una persona piuttosto schifosa, un mezzo pazzoide, un mostro.
La sua candidatura venne bocciata con 58 voti contro 42: tutti i senatori Democratici tranne due votarono contro.
Da lì nacque il sarcastico neologismo “to be borked” per definire la trombatura di un candidato a qualche alta carica pubblica, messa a segno facendo “saltar fuori” ed enfatizzando a dovere qualche dato più o meno scabroso del suo curriculum, della sua biografia o della sua mentalità (a volte anche solo del suo aspetto fisico), che consenta di massacrarne l’immagine pubblica.
Per ironia della sorte, il secondo caso di “borkizzazione” della storia dopo quello originario subito da Bork stesso, toccò poco dopo proprio al giudice centrista che venne candidato al suo posto: Douglas Ginsburg, il quale si dovette ritirare quando “saltò fuori” (e venne “sbattuto in prima pagina”) il fatto che in passato, quando lavorava come professore di diritto, era stato un occasionale consumatore di marijuana - vizietto illegale, oltre che politicamente scorretto. Alla fine venne nominato un altro centrista, Anthony Kennedy, che avrebbe fatto per decenni da ago della bilancia all’interno della Corte.
Un anno fa apparve sul New York Times un articolo di Joe Nocera nel quale si riconosceva che con quella battaglia vinta i Democratici hanno iniettato nelle vene della politica americana un veleno la cui tossicità ancora oggi non è stata smaltita: “in un certo senso, quello fu l’inizio della fine del confronto civile in politica”.
Anche nel pezzo pubblicato ieri sera sul sito del NYT in morte di Bork, si ricorda come quella campagna fu l’inizio di una politicizzazione del processo di approvazione delle nomine che rende tendenzialmente impossibile l’approvazione di quelle di persone che abbiano espresso con chiarezza le proprie idee.
Della stessa idea Tom Goldstein, direttore del seguitissimo sito SCOTUSBLOG, la più cliccata fonte di informazioni sulla Corte Suprema, quella vicenda del 1987 “cambiò tutto, forse per sempre. Quella guerriglia ingaggiata da alcuni settori della sinistra americana legittimò le guerre ideologiche a terra bruciata su tutte le successive nomination alla Corte Suprema, per cui oggi ogni candidato che ambisca a quella nomina sta estremamente attento, ai limiti del ridicolo, a non dire nulla su come la pensa veramente”.
Di tutt’altro tenore la commemorazione sul sito di sinistra Gawker, il cui titolo dice già tutto: “Robert Bork era un orribile essere umano, e nessuno dovrebbe essere in lutto per il suo trapasso”. Come dicevo, a distanza di un quarto di secolo il veleno non è ancora del tutto smaltito. Anzi.
Durante le audizioni per la conferma della sua nomina al Senato (allora a maggioranza democratica: la Commissione Giustizia era presieduta dal futuro vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden), gli venne infine estorta la “confessione”: ebbene sì, egli riteneva che la Costituzione non prevedesse, in realtà, quel “diritto alla privacy” in forza del quale la Corte Suprema nel 1973 aveva affermato il diritto della donna di scegliere se abortire. Ma la sua demolizione - un classico caso di quello che giornalisticamente si definisce “character assassination” – era avvenuta non solo e non tanto sul merito del suo orientamento giuridico, quanto piuttosto convincendo l’opinione pubblica che egli era una persona piuttosto schifosa, un mezzo pazzoide, un mostro.
La sua candidatura venne bocciata con 58 voti contro 42: tutti i senatori Democratici tranne due votarono contro.
Da lì nacque il sarcastico neologismo “to be borked” per definire la trombatura di un candidato a qualche alta carica pubblica, messa a segno facendo “saltar fuori” ed enfatizzando a dovere qualche dato più o meno scabroso del suo curriculum, della sua biografia o della sua mentalità (a volte anche solo del suo aspetto fisico), che consenta di massacrarne l’immagine pubblica.
Per ironia della sorte, il secondo caso di “borkizzazione” della storia dopo quello originario subito da Bork stesso, toccò poco dopo proprio al giudice centrista che venne candidato al suo posto: Douglas Ginsburg, il quale si dovette ritirare quando “saltò fuori” (e venne “sbattuto in prima pagina”) il fatto che in passato, quando lavorava come professore di diritto, era stato un occasionale consumatore di marijuana - vizietto illegale, oltre che politicamente scorretto. Alla fine venne nominato un altro centrista, Anthony Kennedy, che avrebbe fatto per decenni da ago della bilancia all’interno della Corte.
Un anno fa apparve sul New York Times un articolo di Joe Nocera nel quale si riconosceva che con quella battaglia vinta i Democratici hanno iniettato nelle vene della politica americana un veleno la cui tossicità ancora oggi non è stata smaltita: “in un certo senso, quello fu l’inizio della fine del confronto civile in politica”.
Anche nel pezzo pubblicato ieri sera sul sito del NYT in morte di Bork, si ricorda come quella campagna fu l’inizio di una politicizzazione del processo di approvazione delle nomine che rende tendenzialmente impossibile l’approvazione di quelle di persone che abbiano espresso con chiarezza le proprie idee.
Della stessa idea Tom Goldstein, direttore del seguitissimo sito SCOTUSBLOG, la più cliccata fonte di informazioni sulla Corte Suprema, quella vicenda del 1987 “cambiò tutto, forse per sempre. Quella guerriglia ingaggiata da alcuni settori della sinistra americana legittimò le guerre ideologiche a terra bruciata su tutte le successive nomination alla Corte Suprema, per cui oggi ogni candidato che ambisca a quella nomina sta estremamente attento, ai limiti del ridicolo, a non dire nulla su come la pensa veramente”.
Di tutt’altro tenore la commemorazione sul sito di sinistra Gawker, il cui titolo dice già tutto: “Robert Bork era un orribile essere umano, e nessuno dovrebbe essere in lutto per il suo trapasso”. Come dicevo, a distanza di un quarto di secolo il veleno non è ancora del tutto smaltito. Anzi.
Uscito su Good Morning America
lunedì 17 dicembre 2012
AMERICA IN ARMI, LA COSTITUZIONE E LA CORTE SUPREMA
“Dobbiamo cambiare” ha detto al Paese ieri sera il presidente Obama nel suo accorato intervento alla veglia per le vittime della strage di Newtown, in Connecticut. Non ha spiegato, per ora, quali iniziative intenda adottare; molti però sono propensi a credere che qualcosa si muoverà sul fronte del “gun control”, delle limitazioni alla libera circolazione delle armi da fuoco, attualmente (e tradizionalmente) molto blande negli Usa. Tuttavia, è bene tener presente che in questo ambito gli spazi di manovra sono angusti, non solo per ragioni prettamente politiche ma anche per ragioni giuridiche. Non solo per via del Secondo Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti, approvato nel 1791, che stabilisce “ il diritto della popolazione a portare armi”: anche in ragione di due sentenze della Corte Suprema intervenute nel 2008 e nel 2009, che hanno sancito una interpretazione “forte” di quella norma.
Fino al 2008, infatti, la portata di quella antica norma costituzionale era molto controversa, ed in due luoghi era in vigore il divieto di girare armati: nel District of Columbia, ossia la enclave amministrativa costituita dalla capitale federale Washington e da alcuni suoi sobborghi, e nella città di Chicago. Il divieto di porto d’armi a Washington DC, in vigore dal 1975, è stato falcidiato nel giugno del 2008 dalla Corte Suprema con la sentenza «District of Columbia versus Heller», dando ragione a Dick Anthony Heller, una guardia giurata che viveva in un quartiere pericoloso della città e rivendicava il diritto di portarsi a casa la pistola per difesa personale, quando smontava dal lavoro. Il giudice Antohny Kennedy, in quella come in moltissime altre decisioni, fece da ago della bilancia: si aggregò ai quattro giudici conservatori, determinando una decisione per cinque voti contro quattro, scritta dal leader della fazione conservatrice della Corte Antonin Scalia che ha confermato, dopo 217 anni di dubbi e discussioni, l’interpretazione “pro armi” del Secondo Emendamento: il diritto a detenere armi è un diritto individuale garantito dalla Costituzione, al pari degli altri diritti fondamentali del cittadino americano, e pertanto la Costituzione “non permette divieti assoluti nel possesso di pistole a casa e nel loro uso per legittima difesa”. Ovviamente il diritto ad avere armi non è stato certo affermato come un diritto al quale non possano essere poste limitazioni: al contrario, la sentenza ha confermato la legittimità di restrizioni nella vendita di armi, ad esempio il divieto di venderle a pregiudicati o malati di mente, così come le limitazioni al porto d’armi in luoghi pubblici.
Da notare che Barack Obama, che all’epoca era ancora solo il candidato alla Casa Bianca, si guardò bene dal criticare quella sentenza come i suoi molti sostenitori di area liberal speravano, ed anzi a sorpresa espresse esplicitamente il suo plauso, e si affrettò a garantire che se eletto presidente avrebbe “tutelato i diritti costituzionali dei proprietari di armi da fuoco, cacciatori e sportivi rispettosi della legge”.
Esattamente due anni dopo, nel giugno del 2010, la Corte Suprema, con lasentenza «McDonald versus Chicago» scritta dal giudice Samuel Alito che è considerato l’unico attuale membro della corte conservatore quanto Scalia, ed anche stavolta pronunciata con il voto dei quattro giudici conservatori più quello di Anthony Kennedy, ha fatto piazza pulita anche dell’altro divieto “assoluto” di tenere armi, quello in vigore nella città di Obama. Nel fare questo, la Corte ha esteso all’ambito delle legislazioni locali lo stesso principio che nel 2008 aveva sancito in riferimento alle normative federali; sempre ferma restando la legittimità di “ragionevoli limitazioni” alla vendita e al porto d’armi, quella sentenza ha però affermato l’illegittimità del divieto di detenzione domestica.
Come si vede, oggi il Congresso potrebbe approvare restrizioni relative, ad esempio il divieto di vendere ai privati determinati tipi di armi cosiddette “da assalto” come il fucile da guerra che pare sia stato impiegato dall’autore del massacro nella scuola elementare di Newtown; non potrebbe però vietare la vendita di armi leggere o da caccia, come le altre quattro armi da fuoco che la madre e vittima dell’assassino aveva in casa. Un mamma, pare, che di mestiere faceva la maestra, e che ogni tanto oltre che al parco giochi portava i figlioli al poligono di turo. Il problema rimane per molti versi culturale, prima che normativo.
Uscito su Good Morning America
venerdì 14 dicembre 2012
VINCITORI E VINTI NELLA GUERRA PER IL DOPO-HILLARY
“Il presidente Obama ha deciso che alla fin fine gli conveniva spendere su altri fronti il tempo ed il capitale politico necessari per blindare la nomina della ambasciatrice all’Onu Susan Rice come suo prossimo Segretario di Stato”. Così stamattina il Washington Post commenta la decisione di Susan Rice di rinunciare alla propria candidatura alla successione per il dopo-Hillary: una scelta tattica di Obama, troppo impegnato in questi giorni nella trattativa sul “precipizio fiscale” per lasciarsi distrarre da un secondo fronte di scontro con l’opposizione repubblicana. Il presidente si è smarcato, insomma; ma ciò non toglie che questa sia stata per lui una sconfitta, con la quale non avrebbe certo voluto inaugurare il suo secondo mandato.
La Rice era notoriamente la sua prima scelta, e fa parte della ristretta cerchia dei suoi fedelissimi da molto prima che lui divenisse presidente. Per di più il Presidente su questa questione ci aveva volutamente “messo la faccia”: esattamente un mese fa, nella sua primissima conferenza stampa dopo la rielezione, aveva polemizzato con insolito accaloramento con i repubblicani, parlando come un che difende una cara amica prima ancora che come presidente: “se la prendono con lei perché la considerano un bersaglio facile, ma è con me che hanno problemi. Tentare di infangare la sua reputazione è vergognoso, se vogliono prendersela con qualcuno se la prendano con me”.
A ciò si aggiunge il fatto che la campagna dei repubblicani non aveva, sulla carta, i numeri per un efficace ostruzionismo che la rendesse tecnicamente impossibile: ai Democratici bastava racimolare cinque voti repubblicani da aggiungere a quelli dei propri 55 senatori. Se si considera che l'ultima volta che si era visto un fuoco di sbarramento per la conferma della nomina di un Segretario di Stato era stato nel 2005 contro Condi Rice, e alla fine l'approvazione, che ad oggi rimane la meno unanime nella storia degli Stati Uniti, fu per 85 voti contro 13, in un Senato perfettamente speculare a quello attuale (maggioranza 55, opposizione 45: i senatori dell’opposizione Democratica che votarono a favore assieme alla maggioranza Repubblicana furono 32). In definitiva, quindi, Obama pur avendo tendenzialmente “i numeri” non ha avuto la capacità politica di condurre in porto questa operazione. La sua presidenza “bis” non poteva aprirsi sotto peggiore auspicio: quante altre volte si vedrà costretto a cedere sotto il fuoco di sbarramento dell’opposizione durante il prossimo quadriennio?
Se il presidente, ovviamente assieme alla stessa Rice, è il grande sconfitto di questa battaglia, il vincitore è innanzitutto il vecchio senatore dell’Arizona John McCain, artefice e leader della crociata contro la Rice che ha lanciato come suo solito in modo eccentrico e solitario, tra lo scetticismo generale con al seguito uno sparuto drappello di due o tre senatori, e uscito trionfante da quella che in un certo senso è stata la sua piccola vendetta dopo la sconfitta inflittagli da Obama alle presidenziali del 2008 (vendetta contro Obama ma anche contro la Rice stessa, che nel 2008 guidava lo staff di Obama sulla politica estera ed in tale veste aveva attaccato McCain senza mezzi termini).
L’altro grande vincitore, peraltro senza colpo aver ferito a quanto è dato sapere, è un altro anziano senatore sconfitto qualche tempo fa in una elezione presidenziale: John Kerry, l’altro nome in cima alla lista per la successione ad Hillary, il quale dopo il passo indietro della Rice diviene automaticamente il favoritissimo. Non a caso il Washington Post, quando si è capito che aria tirava, ieri è uscito con un corsivo a firma di David Ignatius che sponsorizzava calorosamente la nomina di Kerry (affiancandosi in questo all’altro grande quotidiano liberal del Paese, il New York Times, che da mesi conduceva una vera e propria campagna affinché Kerry e non Rice venisse nominato Segretario di Stato). Sul suo nome i repubblicani hanno sempre ostentato un atteggiamento più che favorevole, e a questo punto è difficile dubitare che sia lui il prossimo ministro degli esteri americano.
Infine, proprio perché l’uscita di scena della Rice spiana la strada alla nomina di Kerry, c’è un terzo possibile vincitore in questa storia: se andrà a guidare il Dipartimento di Stato Kerry lascerà presto vacante il suo seggio senatoriale in Massachusetts, rendendo necessaria una elezione straordinaria per riassegnarlo. In questo caso tutti pronosticano che si rifarà avanti quello Scott Brown che nel 2010, sempre in una elezione speciale, riuscì rocambolescamente ad espugnare quello che era stato per una vita il feudo di Ted Kennedy, e che lo scorso 6 novembre è stato faticosamente sconfitto dalla Obamiana Liz Warren, ma ha pur sempre preso molti più voti di quando era stato eletto nel 2010. Le elezioni, come gli esami, non finiscono mai?
L’altro grande vincitore, peraltro senza colpo aver ferito a quanto è dato sapere, è un altro anziano senatore sconfitto qualche tempo fa in una elezione presidenziale: John Kerry, l’altro nome in cima alla lista per la successione ad Hillary, il quale dopo il passo indietro della Rice diviene automaticamente il favoritissimo. Non a caso il Washington Post, quando si è capito che aria tirava, ieri è uscito con un corsivo a firma di David Ignatius che sponsorizzava calorosamente la nomina di Kerry (affiancandosi in questo all’altro grande quotidiano liberal del Paese, il New York Times, che da mesi conduceva una vera e propria campagna affinché Kerry e non Rice venisse nominato Segretario di Stato). Sul suo nome i repubblicani hanno sempre ostentato un atteggiamento più che favorevole, e a questo punto è difficile dubitare che sia lui il prossimo ministro degli esteri americano.
Infine, proprio perché l’uscita di scena della Rice spiana la strada alla nomina di Kerry, c’è un terzo possibile vincitore in questa storia: se andrà a guidare il Dipartimento di Stato Kerry lascerà presto vacante il suo seggio senatoriale in Massachusetts, rendendo necessaria una elezione straordinaria per riassegnarlo. In questo caso tutti pronosticano che si rifarà avanti quello Scott Brown che nel 2010, sempre in una elezione speciale, riuscì rocambolescamente ad espugnare quello che era stato per una vita il feudo di Ted Kennedy, e che lo scorso 6 novembre è stato faticosamente sconfitto dalla Obamiana Liz Warren, ma ha pur sempre preso molti più voti di quando era stato eletto nel 2010. Le elezioni, come gli esami, non finiscono mai?
Uscito su Good Morning America
mercoledì 12 dicembre 2012
L'IMMIGRAZIONE ISPANICA E' FINITA?
Nel 2004 Samuel Huntington, il politologo conservatore di Harvard divenuto celebre in tutto il mondo per aver preconizzato prima dell’Undici Settembre lo “scontro di civiltà” (sua la definizione) tra Occidente e Islam, pubblicò un saggio dal titolo “Who are we? The challenge to America" (in Italiano sarebbe uscito come “La nuova America. Le sfide della società multiculturale”) nel quale lanciava l’allarme contro un altro genere di “scontro”: "il flusso continuo di immigranti ispanici, provenienti in massima parte dal Messico, minaccia di dividere gli Stati Uniti in due popoli, due culture e due lingue". Secondo Huntington, non solo i latinoamericani sono restii ad adattarsi all’american way of life, ma addirittura tendono a voler “ispanizzare” la società statunitense.
Giusta o sbagliata che fosse l’analisi di Huntington, di certo il dato di fatto era vero: l’immigrazione ispanica era un fenomeno di proporzioni epocali. Nel 2003 gli afroamericani avevano cessato di essere la più grande minoranza etnica degli Usa, venendo sorpassati dagli ispanici che erano divenuti quasi cinquanta milioni di persone (una moltitudine più vasta dell’intera popolazione del Portogallo o del Belgio).
Ora, la notizia è che questo fenomeno potrebbe essersi concluso. Mentre in questi giorni il Congresso si accinge a fronteggiare la eventualità di un nuovo tentativo di riforma della legge sull'immigrazione - una promessa elettorale disattesa da Barack Obama nel suo primo mandato e riproposta per il secondo, ottenuto anche grazie al decisivo voto "latino"- la questione va probabilmente inquadrata non nell'ottica di arginare nei prossimi anni uno Tsunami di immigrazione latinoamericana ancora crescente o comunque in corso, bensì in quella di gestire la coabitazione con una poderosa minoranza latinoamericana il cui afflusso verso gli Usa è stato sì negli scorsi anni molto massiccio, ma da qualche tempo si è sostanzialmente esaurito.
A proporre, dati alla mano, questa analisi decisamente in contrasto con il luogo comune della "emergenza immigrazione" al confine con il Messico è Michael Barone, insigne politologo di area conservatrice e coautore dell'enciclopedico “Almanac of American Politics”, in un corsivo appena apparso sulla National Review che anticipa il contenuto del suo prossimo libro, in uscita l'anno prossimo.
L’analisi di Barone (il quale si era già cimentato con il tema dell’immigrazione nel 2001, con il saggio “The New Americans: How the Melting Pot can work Again”) si basa su di uno studio pubblicato a maggio dal Pew Hispanic Centernel quale, incrociando i dati statistici forniti sia dalle autorità statunitensi che da quelle messicane, si rileva che durante il quinquennio 2005-2010 l'immigrazione dal Messico si è di fatto azzerata: al netto degli immigrati giunti negli Stati Uniti attraversando il Rio Bravo, sono di più (circa 20mila in più) quelli che al contrario se ne sono ritornati in Messico o in altri Paesi centro o sudamericani.
Dato eclatante, soprattutto se raffrontato con quello del quinquennio 1995-2000 quando gli "ispanici" immigrati negli Usa furono più di due milioni.
In particolare, l’inversione di tendenza si registra solo a partire dal 2007: in perfetta concomitanza con lo scoppio della bolla immobiliare (quello di muratore è il mestiere più diffuso fra gli immigrati messicani), cui ha fatto seguito nel 2008 l'avvento della Grande Recessione. In questo senso potrebbe non aver avuto tutti i torti Mitt Romney, quando all’inizio delle primarie se ne uscì a dire che a suo avviso la soluzione dell’emergenza immigrazione stava nella “auto-deportazione”, ossia nel fatto che una parte dei latinos se ne sarebbe tornata oltreconfine più o meno spontaneamente.
Barone sostiene non solo che il “reflusso” è stato causato dalla crisi economica (questo lo sostengono in molti), ma anche – e questo probabilmente è l’elemento più originale della sua teoria – che la fine della crisi non porterà con sé una ripresa dell’immigrazione ispanica, perchè nel frattempo l'economia messicana sta notevolmente migliorando. Le ondate migratorie, egli osserva, spesso finiscono repentinamente dopo una generazione, in modo tanto in atteso quanto lo era stato il loro inizio. In questo caso, potrebbe essere successo prima ancora che Obama divenisse presidente.
L’analisi di Barone (il quale si era già cimentato con il tema dell’immigrazione nel 2001, con il saggio “The New Americans: How the Melting Pot can work Again”) si basa su di uno studio pubblicato a maggio dal Pew Hispanic Centernel quale, incrociando i dati statistici forniti sia dalle autorità statunitensi che da quelle messicane, si rileva che durante il quinquennio 2005-2010 l'immigrazione dal Messico si è di fatto azzerata: al netto degli immigrati giunti negli Stati Uniti attraversando il Rio Bravo, sono di più (circa 20mila in più) quelli che al contrario se ne sono ritornati in Messico o in altri Paesi centro o sudamericani.
Dato eclatante, soprattutto se raffrontato con quello del quinquennio 1995-2000 quando gli "ispanici" immigrati negli Usa furono più di due milioni.
In particolare, l’inversione di tendenza si registra solo a partire dal 2007: in perfetta concomitanza con lo scoppio della bolla immobiliare (quello di muratore è il mestiere più diffuso fra gli immigrati messicani), cui ha fatto seguito nel 2008 l'avvento della Grande Recessione. In questo senso potrebbe non aver avuto tutti i torti Mitt Romney, quando all’inizio delle primarie se ne uscì a dire che a suo avviso la soluzione dell’emergenza immigrazione stava nella “auto-deportazione”, ossia nel fatto che una parte dei latinos se ne sarebbe tornata oltreconfine più o meno spontaneamente.
Barone sostiene non solo che il “reflusso” è stato causato dalla crisi economica (questo lo sostengono in molti), ma anche – e questo probabilmente è l’elemento più originale della sua teoria – che la fine della crisi non porterà con sé una ripresa dell’immigrazione ispanica, perchè nel frattempo l'economia messicana sta notevolmente migliorando. Le ondate migratorie, egli osserva, spesso finiscono repentinamente dopo una generazione, in modo tanto in atteso quanto lo era stato il loro inizio. In questo caso, potrebbe essere successo prima ancora che Obama divenisse presidente.
Uscito su Good Morning America