venerdì 1 aprile 2011

IL PRESIDENTE SDOTTRINATO / 2

C'è ormai unanimità galattica (anche Lexington sulla carta ha dovuto fare marcia indietro rispetto a quanto aveva inizialmente bloggato in preda ad un guizzo di incauta eccitazione) nel ritenere che con il suo discorso di lunedì sera sulla guerra libica Obama, a ormai due anni dal suo insediamento, ha dimostrato di non avere ancora una sua "dottrina", un insieme organico e coerente di grandi principi che guidino la sua politica estera, e di essere invece propenso a tenersi le mani libere riservandosi di decretare di volta in volta delle soluzioni ad hoc per ogni specifica circostanza.

In molti nell'immediatezza avevano provato a gingillarsi con il miraggio di una neonata "Dottrina Obama" da leggere tra le righe del discorso di lunedì, ma l'indomani è stato lo stesso presidente a stroncarli senza mezzi termini in un'intervista a Brian Williams della NBC, nella quale ha puntualizzato che "è importante non prendere questa situazione particolare e cercare di proiettarne una sorta di "Dottrina Obama" che noi saremmo in procinto di applicare un po' dappertutto, come con uno stampino per i biscotti. Ogni Paese in questa regione è diverso".

Da non perdere il post di The Politico che il giorno seguente ha sbertucciato tutti i gonzi che non se n'erano accorti ed erano andati avanti a titolare sulla fantomatica dottrina.

Tutt'al più, quindi, i suoi apologeti riescono ora a teorizzare che ciò non sia poi un male, che tenersi alla larga dai vincoli più o meno ideologici di una "Grande Strategia" potrebbe rivelarsi una scelta prudente, saggia ed opportuna: vedasi ad esempio Steven Clemons intervistato ieri su Europa da Marilisa Palumbo.

Sarà; va però comunque considerato - quanto meno per prendere nota della giravolta - che lo stesso Obama (quello che oggi sfotte con la metafora dello "stampino per i biscotti"), nel suo bestseller elettorale auto-agiografico del 2007 The Audacity of Hope (in Italia "L'audacia della speranza. Il sogno americano per un mondo nuovo", Rizzoli 2007, prefazione di Uòlter "Si-può-fare" Veltroni), deprecò (lo nota Crowley sul nuovo numero di TIME, ma il primo a sgamarlo è stato l'impietoso fact-checker del Washington Post) come una grave falla di sistema che urge colmare il fatto che agli USA, a tanti anni dall'Undici Settembre e a distanza ancor più lunga dal crollo dell'Unione Sovietica,

"manca ancora una strategia coerente sulla "sicurezza nazionale". Invece di principi-guida, abbiamo solo quel che appare essere una serie di decisioni ad hoc, con dubbi risultati. Perché invadere l'Iraq e non la Corea del Nord o la Birmania? Perché intervenire in Bosnia e non in Darfur? ... Forse alla Casa Bianca qualcuno ha risposte chiare per simili risposte; ma i nostri alleati - e, per quel che conta, i nostri nemici - di certo non le conoscono. E, soprattutto, non le conosce il popolo americano. Senza una strategia ben articolata che l'opinione pubblica possa condividere e il mondo possa comprendere, all'America continuerà a mancare la legittimazione - ed in ultima istanza il potere - di cui ha bisogno per rendere il mondo un posto più sicuro di com'è oggi".

Amen.

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