martedì 29 marzo 2011

IL PRESIDENTE SDOTTRINATO




"Wherever people long to be free, they will find a friend in the United States".


"Some nations may be able to turn a blind eye to atrocities in other countries. The United States of America is different. And as President, I refused to wait for the images of slaughter and mass graves before taking action".


"It should be clear to those around Qaddafi, and to every Libyan, that history is not on his side. With the time and space that we have provided for the Libyan people, they will be able to determine their own destiny, and that is how it should be".


Secondo Lexington ieri sera avremmo finalmente assistito alla nascita della tanto sospirata “Dottrina Obama”.
Non sono d’accordo.
Ci sono presidenti che non appena entrano in carica sfoderano una visione molto netta del ruolo della leadership globale statunitense e delle linee guida sulla base delle quali intendono esercitarla. Esempi: Kennedy, Reagan. Poi ci sono anche presidenti che in principio tentennano e balbettano, e dopo molti mesi, incalzati dagli eventi, si decidono poco a poco a stabilire una propria dottrina. Esempi: Carter, Clinton. Infine ci sono quelli che volano così basso da terminare il mandato senza aver mai chiarito quale sia la propria dottrina. Esempio: Ford.
Il discorso di Obama sull’intervento in Libia non mi smuove dal mantenerlo, sino a prova contraria, classificato nel terzo gruppo, come ho scritto più volte.

Ci sono riferimenti all'interventismo democratico, alla fiducia "eccezionalista" nella leadership globale americana e al regime change, che hanno eccitato i neocon in chief Kristol ("benvenuto nel mainstream, ragazzo") e Kagan ("discorso kennediano"); e ci sono riferimenti al multilateralismo, agli "obiettivi limitati", alla prudenza rispetto agli impegni militari, che hanno tranquillizzato i realisti "post-americani" à la Fareed Zakaria.

Ma nel suo insieme, il discorso è risultato più piacevole che convincente.

In estrema sintesi, Obama ha spiegato che:

a) gli USA intervengono quando si tratta di dar manforte alle vittime di una dittatura, ma lo fanno impiegando la extrema ratio dell’intervento militare (quello che oggi va di moda chiamare “hard power”, insomma) solo a condizione che le circostanze di tempo e di luogo lo rendano necessario per evitare il peggio, mentre il generico obiettivo del “regime change”, in assenza di emergenza umanitaria, rimane condivisibile ma relegato al livello dei “mezzi non militari” (più o meno “soft”, “smart” ecc.);

b) il cannone comunque può essere sfoderato solo e a condizione che sia in gioco un interesse nazionale Americano da tutelare;

c) questo interesse può essere anche un interesse “indiretto”, a condizione però che l’impegno militare sia modesto;

d) nel caso della Libia, l’interesse indiretto è dato dal potenziale riflesso negativo sulla Tunisia e – soprattutto – sull’Egitto, e l’impegno militare è modesto perché non implica l’invio di truppe di terra.

Tutto chiaro?

Sì e no.

Alla domanda: e il Bahrain? E lo Yemen? e la Siria? Non c’è una risposta di alto profilo. Lexington sintetizza così: il presidente, semplicemente, ritiene che vi sono talmente tante variabili nell’attuale contesto in continua rapida evoluzione che non è possibile adottare una sola, unica dottrina che si adatti ad ogni caso.

Ah, ecco.

Quindi avremo una serie infinita di diverse dottrine ad hoc? Ciò equivarrebbe, evidentemente, a non avere alcuna dottrina.

Inoltre, come nota Crowley di TIME, si può anche considerare chiara la parte astratta di una siffatta “dottrina”, ma la sua applicazione concreta nel “leading case” libico lascia a dir poco perplessi sia quanto alle alternative (OK, si doveva intervenire: ma perché si doveva farlo proprio in questo modo?), e quanto all’efficacia (cosa induce a confidare che gli esiti saranno più fausti che in Iraq?).

Per non parlare della elusività su come la missione in Libia verrà portata avanti, rilevando la quale Thiessen del Washington Post parla di “un discorso fondamentalmente disonesto”. Ancora più efficace il suo collega Milbank, che sullo stesso sito parla di “una zona grigia grande quanto la Libia”, affermando che se c’è una Dottrina Obama essa è “frustrantemente non-dottrinaria”.

Anche secondo Crowley del Financial Times, che pure manifesta apprezzamento, mancano i presupposti per poter parlare di una Dottrina Obama, fosse anche solo una "dottrina a posteriori".

E pure Steven Metz della Georgetown University concorda nel ritenere che questa che definisce "Dottrina-dell'-intervento-umanitario-contro-regimi-militarmente-deboli-produttori-di-carburanti-fossili-siti-in-regioni-strategiche-che-stanno-anche-vicini-a-grosse-basi-NATO-e-sono-retti-da-dittatori-che-ci-hanno-rotto-il-cazzo-e-non-hanno-alleati-forti" non si può considerare, in effetti, una Dottrina con la D maiuscola.

In conclusione: ha perfettamente ragione Smith di The Politico, ad oggi la Dottrina Obama è: non c’è nessuna Dottrina.

Ed ha ragione Hirsh sul National Journal: questo è un presidente che ha scelto di essere proprio così, un senza-dottrina.

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