martedì 29 marzo 2011

IL PRESIDENTE SDOTTRINATO




"Wherever people long to be free, they will find a friend in the United States".


"Some nations may be able to turn a blind eye to atrocities in other countries. The United States of America is different. And as President, I refused to wait for the images of slaughter and mass graves before taking action".


"It should be clear to those around Qaddafi, and to every Libyan, that history is not on his side. With the time and space that we have provided for the Libyan people, they will be able to determine their own destiny, and that is how it should be".


Secondo Lexington ieri sera avremmo finalmente assistito alla nascita della tanto sospirata “Dottrina Obama”.
Non sono d’accordo.
Ci sono presidenti che non appena entrano in carica sfoderano una visione molto netta del ruolo della leadership globale statunitense e delle linee guida sulla base delle quali intendono esercitarla. Esempi: Kennedy, Reagan. Poi ci sono anche presidenti che in principio tentennano e balbettano, e dopo molti mesi, incalzati dagli eventi, si decidono poco a poco a stabilire una propria dottrina. Esempi: Carter, Clinton. Infine ci sono quelli che volano così basso da terminare il mandato senza aver mai chiarito quale sia la propria dottrina. Esempio: Ford.
Il discorso di Obama sull’intervento in Libia non mi smuove dal mantenerlo, sino a prova contraria, classificato nel terzo gruppo, come ho scritto più volte.

Ci sono riferimenti all'interventismo democratico, alla fiducia "eccezionalista" nella leadership globale americana e al regime change, che hanno eccitato i neocon in chief Kristol ("benvenuto nel mainstream, ragazzo") e Kagan ("discorso kennediano"); e ci sono riferimenti al multilateralismo, agli "obiettivi limitati", alla prudenza rispetto agli impegni militari, che hanno tranquillizzato i realisti "post-americani" à la Fareed Zakaria.

Ma nel suo insieme, il discorso è risultato più piacevole che convincente.

In estrema sintesi, Obama ha spiegato che:

a) gli USA intervengono quando si tratta di dar manforte alle vittime di una dittatura, ma lo fanno impiegando la extrema ratio dell’intervento militare (quello che oggi va di moda chiamare “hard power”, insomma) solo a condizione che le circostanze di tempo e di luogo lo rendano necessario per evitare il peggio, mentre il generico obiettivo del “regime change”, in assenza di emergenza umanitaria, rimane condivisibile ma relegato al livello dei “mezzi non militari” (più o meno “soft”, “smart” ecc.);

b) il cannone comunque può essere sfoderato solo e a condizione che sia in gioco un interesse nazionale Americano da tutelare;

c) questo interesse può essere anche un interesse “indiretto”, a condizione però che l’impegno militare sia modesto;

d) nel caso della Libia, l’interesse indiretto è dato dal potenziale riflesso negativo sulla Tunisia e – soprattutto – sull’Egitto, e l’impegno militare è modesto perché non implica l’invio di truppe di terra.

Tutto chiaro?

Sì e no.

Alla domanda: e il Bahrain? E lo Yemen? e la Siria? Non c’è una risposta di alto profilo. Lexington sintetizza così: il presidente, semplicemente, ritiene che vi sono talmente tante variabili nell’attuale contesto in continua rapida evoluzione che non è possibile adottare una sola, unica dottrina che si adatti ad ogni caso.

Ah, ecco.

Quindi avremo una serie infinita di diverse dottrine ad hoc? Ciò equivarrebbe, evidentemente, a non avere alcuna dottrina.

Inoltre, come nota Crowley di TIME, si può anche considerare chiara la parte astratta di una siffatta “dottrina”, ma la sua applicazione concreta nel “leading case” libico lascia a dir poco perplessi sia quanto alle alternative (OK, si doveva intervenire: ma perché si doveva farlo proprio in questo modo?), e quanto all’efficacia (cosa induce a confidare che gli esiti saranno più fausti che in Iraq?).

Per non parlare della elusività su come la missione in Libia verrà portata avanti, rilevando la quale Thiessen del Washington Post parla di “un discorso fondamentalmente disonesto”. Ancora più efficace il suo collega Milbank, che sullo stesso sito parla di “una zona grigia grande quanto la Libia”, affermando che se c’è una Dottrina Obama essa è “frustrantemente non-dottrinaria”.

Anche secondo Crowley del Financial Times, che pure manifesta apprezzamento, mancano i presupposti per poter parlare di una Dottrina Obama, fosse anche solo una "dottrina a posteriori".

E pure Steven Metz della Georgetown University concorda nel ritenere che questa che definisce "Dottrina-dell'-intervento-umanitario-contro-regimi-militarmente-deboli-produttori-di-carburanti-fossili-siti-in-regioni-strategiche-che-stanno-anche-vicini-a-grosse-basi-NATO-e-sono-retti-da-dittatori-che-ci-hanno-rotto-il-cazzo-e-non-hanno-alleati-forti" non si può considerare, in effetti, una Dottrina con la D maiuscola.

In conclusione: ha perfettamente ragione Smith di The Politico, ad oggi la Dottrina Obama è: non c’è nessuna Dottrina.

Ed ha ragione Hirsh sul National Journal: questo è un presidente che ha scelto di essere proprio così, un senza-dottrina.

giovedì 24 marzo 2011

COME IN UN FILM


L'imprescindibile Nomfup segnalava due settimane fa che Julianne Moore impersonerà Sarah Palin nella fiction che HBO sta realizzando sulla base di Game Change, il best seller di Mark Halperin sui retroscena delle presidenziali del 2008.
Oggi segnala che il ruolo di John McCain sarà ricoperto da Ed Harris.
Due ottime scelte, senza dubbio.
Ora restano da riempire le altre caselle. Il ruolo di Obama è un bel problema (anche per via del "color carta da pacchi" per dirla con Zucconi), più semplice sarà trovare una brava attrice per quello di Hillary. Personalmente vedrei così bene Kevin Kline nel ruolo di David Axelrod.
Per Michelle non saprei, essendo purtroppo passato a miglior vita il candidato naturale, James Brown.

martedì 22 marzo 2011

LEGGERE JEFFERSON A SANA'A

“L’albero della rivoluzione è diventato più grande perché è stato innaffiato dal sangue dei martiri”. I rivoltosi yemeniti sotto le tende e i teloni di plastica in centro stropicciano un po’ la citazione di Thomas Jefferson, ma hanno ragione. Sono sempre più numerosi ogni ora che passa. Da sopra una torre con le bandiere della Libia libera e della Tunisia, la telecamera fissa di al Jazeera mostra ogni pochi minuti alle televisioni le centinaia di migliaia di persone che arrivano e affollano il viale dell’università (ma nessuna telecamera di al Jazeera inquadra il Bahrein, dove i sauditi amici stanno spegnendo la rivolta sciita)".
Daniele Raineri, Il Foglio, 22 marzo 2011

Non solo Il Foglio è l'unico giornale italiano ad avere un inviato in Yemen: è anche - quel che più conta - il solo ad avere inviati in grado di cogliere al volo una citazione di Thomas Jefferson, notando la divergenza rispetto all'originale. Chapeau.

lunedì 21 marzo 2011

CALIFORNIA CONTRO TEXAS - O VICEVERSA


L'alternativa tra il "modello texano" e il "modello californiano" si conferma una chiave di lettura assolutamente indispensabile per capire l'America da qui al 2012.

L'Economist già nel luglio del 2009 ne fece la storia di copertina; da allora sulla stampa anglosassone la questione è diventata un vero e proprio tormentone, non passa giorno senza che esca una riflessione o un aggiornamento su questo dilemma.

Qui da noi la prima testata ad avvedersene è stata - come spesso accade - Il Foglio, che tre settimane fa ne ha dato conto in un bell'articolo di Andrea Mancia, e venerdì scorso ha pubblicato un mio pezzo sul tema.

Ora l'Economist rilancia, inserendo in uno speciale sul "Futuro dello Stato" (cioé degli Stati in generale, come soluzione ai problemi e come problema) un corposo "case study" sulla California, "luogo che combina la maggior parte dei punti deboli del moderno Stato Occidentale".

More to follow, potete contarci.

venerdì 18 marzo 2011

IL "MODELLO TEXANO" ALLA SFIDA FINALE


Oggi mio pezzo a pag.3 de Il Foglio:

L'AUSTERO MODELLO TEXANO E' DIVENTATO LA BESTIA NERA DEI LIBERAL
Poche tasse e pochi sindacati. L'america alle prese con deficit e tagli è divisa tra Austin e San Francisco

"Il Texas è il luogo in cui la moderna teoria conservatrice di bilancio - la convinzione che non si debba mai in nessun caso aumentare le tasse, e che il pareggio di bilancio vada perseguito sempre e solo tagliando la spesa in eccesso - è stata attuata in modo più integrale. Se questa teoria non regge lì, vuol dire che non può reggere da nessuna parte". Quando a gennaio l'economista liberal Paul Krugman ha lanciato questo proclama dalle colonne del New York Times, era chiaro che dava per scontato che i cowboy di Austin, assaliti dalla realtà, si sarebbero decisi ad alzare la pressione fiscale per tamponare il buco di oltre venti miliardi di dollari nel bilancio del prossimo biennio. I texani invece non mollano, e si accingono ad approvare drastici tagli senza nuove tasse. Krugman non l'ha presa bene: due settimane fa ha denunciato che il Texas ha un tasso altissimo di abbandono scolastico e un numero molto elevato di bambini sprovvisti di assicurazione sanitaria: "Quello che mi colpisce non è la crudeltà - quella ormai me l'aspetto - ma la miopia": se per non tassare si è disposti a questo, dice Krugman, allora la sfida "win the future", su cui il presidente Obama insiste tanto, sarà persa.

Su questa sfida si gioca il futuro dell'America, quanto meno da qui al 2012. Il governatore del Texas Rick Perry, al potere ormai da dieci anni e ora nominato presidente dell'associazione dei governatori repubblicani, rappresenta la punta di lancia della rimonta conservatrice. I dati sembrano dargli ragione: stando all'ultimo censimento la California - che a novembre si è confermata, assieme a New York, l'ultima grande roccaforte democratica - per la prima volta nella storia ha cessato di crescere demograficamente, e di questo passo da qui a dieci anni sarebbe sorpassata dal Texas, che cresce a un ritmo più che doppio rispetto alla media nazionale. A dicembre la Brookings Institution ha sfornato la classifica delle "venti città che guidano la ripresa": sei si trovano in Texas. Nella classifica delle "venti città più povere d'America" pubblicata da Forbes la California occupa otto posti.

Sembra incredibile, se si pensa che alla fine degli anni Settanta il reddito medio pro capite californiano era il più alto del pianeta. I posti di lavoro persi - oltre 90 mila solo nel 2009 - non stanno evaporando: stanno emigrando in Texas, dove è stata creata la metà dei posti di lavoro di tutti gli Stati Uniti. La rivista Chief Executive ha messo la California all'ultimo posto della classifica dei "posti migliori in cui fare affari", definendola "il Venezuela del nord America". Inutile dire che il primo in classifica era il Texas.

"La lotta a livello nazionale fra repubblicani e democratici - ha scritto il direttore della National Review Rich Lowry - è per decidere se l'America adotterà una versione del modello texano o una del modello newyorkese o californiano". Quello texano significa innanzitutto poche tasse (nessuna imposta sul reddito personale, né sui redditi d'impresa) e poca spesa pubblica; quindi poco welfare e servizi statali modesti, ma questo, dati alla mano, non dissuade la gente dal "votare con i piedi" in massa per il modello texano.

Il problema del deficit assilla tutti gli stati americani, facendo emergere soprattutto i privilegi dei dipendenti statali. La questione è deflagrata quando in Wisconsin il neoeletto governatore repubblicano Scott Walker ha stroncato la contrattazione collettiva con i sindacati del pubblico impiego. Contro quella legge, che Obama ha definito "un assalto al sindacato", l'opposizione democratica sta dando battaglia e in molti, non solo a sinistra, ritengono che Walker sia "un morto che cammina". Lo scontro si sta allargando nel Midwest - in Ohio soprattutto - e potrebbe avere rilevanza nazionale nella prospettiva delle prossime presidenziali. Anche per questo il Texas è emblematico: è uno dei pochi stati che non prevede la contrattazione collettiva. Lì i lavoratori iscritti a un sindacato sono il 6 per cento, il che fa da magnete per le imprese americane ed estere. In più la legislazione texana vieta la concessione di benefici previdenziali ai dipendenti pubblici senza garanzie di solvibilità dei fondi pensione nel lungo periodo e senza un contributo pari ad almeno il 6 per cento della busta paga.

Esattamente il contrario della California, dove le Union rappresentano la forza politica meglio organizzata dello stato e tengono in scacco il locale Partito democratico, impedendo drastici tagli in mancanza dei quali è impensabile che il Golden State riesca a controllare il suo debito pubblico: per far quadrare i conti delle pensioni dei dipendenti statali, secondo un recente studio dell'Università di Stanford, mancano all'appello 535 miliardi di dollari.

Infine c'è l'ecologismo, religione prettamente californiana che annovera tra gli adepti il governatore repubblicano uscente Arnold Schwarzenegger, il quale promise di fare della California "la nuova Sparta e anche la nuova Atene", ma ha lasciato una situazione più simile a quella dell'Atene di oggi che a quella di Pericle. Le limitazioni all'edificabilità dei terreni hanno drogato i prezzi degli immobili, portandoli a costare anche 16 volte quelli del Texas. Ma il problema è stato l'apparato di sanzioni e sussidi volti a imporre "l'inizio della fine dell'era del petrolio", abbattendo le emissioni del 30 per cento entro il 2020 e dell'80 entro il 2050. Secondo il Wall Street Journal rischia di tradursi in uno "smantellamento dell'economia energetica esistente sostituita da un sistema medievale di mulini a vento e pannelli solari". Non è chiaro se i costi saranno davvero compensati dai "green job" promessi dalla lobby verde; certo la maggior parte di quelli a oggi creati è made in California, ma anche questo primato è conteso dal Texas che, nonostante il petrolio, è terra fertile per soluzioni ecologiche, purché convenienti. Un anno fa è divenuto il più grande produttore di energia elettrica del paese: lo deve sempre meno all'oro nero e sempre più alle turbine eoliche. La più grande "wind farm" del mondo, inaugurata nel 2009, si trova a Roscoe, nel desertico Texas occidentale ("l'Arabia Saudita del vento", secondo la definizione di Thomas Friedman). Un primato (il sorpasso sulla California è del 2006) dovuto anche all'individualismo texano: scarso territorio demaniale, e quasi nessuna restrizione all'utilizzo del suolo privato, dove puoi mettere tutte le turbine che ti pare. Non è solo questione di laissez-faire: nel 1999 una legge voluta dall'allora governatore George W. Bush obbligò le imprese elettriche a produrre, di li a dieci anni, duemila megawatt in più dalle rinnovabili, in cambio di sconti fiscali.

mercoledì 16 marzo 2011

IL NUCLEARE FA PAURA? OBAMA NON MOLLA

Mi sfugge davvero su cosa si basi lo svolazzo di Barbara Spinelli, che oggi su La Repubblica appaia Barack Obama ad Angela Merkel come modelli di governanti che sanno attenersi al “dovere della paura” (sic) e pertanto “non negano l'urgenza di correggere i piani nucleari”.
Il riferimento alla Merkel è ineccepibile, visto il messaggio di brusca battuta d’arresto e pausa di riflessione che – a torto o ragione – la cancelliera ha inteso dare ai suoi elettori sulla questione del nucleare (non a caso è "in quota Merkel" anche l'"apocalittico" commissario UE Oettinger, che ieri ha ritenuto di alzare bruscamente i toni di allarme antinuclearista).
Ma proprio per questo, accostarle Obama non ha alcun senso. Il messaggio che la Casa Bianca sta dando in queste ore è esattamente l’opposto: serenità e ferma intenzione ad andare avanti, senza assecondare la paura che inevitabilmente dilaga in queste ore di “sindrome giapponese”. “Obama difende l’uso del nucleare nonostante la calamità in Giappone”, titola oggi il Washington Post. “La Casa Bianca insiste nel puntare sul nucleare”, titola The Politico, che addirittura inserisce la fermezza del presidente sul nucleare, ed il suo rifiuto di disporre una moratoria di tipo “tedesco” nonostante la richiesta di alcuni parlamentari democratici, in un corsivo in cui ci si chiede se la sua sia da leggere come “fredda competenza o passività”.

"Per lungo tempo si è dato per scontato che chi si batte per l’ambiente deve essere contrario al nucleare, ma il fatto è che, anche se negli ultimi trent’anni non sono state costruite centrali, l’energia nucleare rimane la nostra principale fonte di energia pulita". Con queste parole il 16 febbraio dell'anno scorso Obama aveva annunciato la ripresa della costruzione di nuove centrali nucleari negli USA, stanziando a tal fine garanzie federali per 8,33 miliardi di dollari. Partenza nel 2011 con due nuovi reattori in Georgia, affidati alla Southern Co., una delle principali società energetiche dello stato.
Un anno dopo ha rilanciato facendo inserire nel budget per l’anno fiscale 2012 la bellezza di 36 miliardi di dollari in garanzie federali per i nuovi reattori, ed uno stanziamento di oltre 800 milioni in aiuti per la ricerca sul nucleare.

Lo scopo dichiarato è quello di tentare di recuperare il terreno perduto dopo che, a seguito dell’incidente al reattore di Three Mile Island nel 1979, gli USA, pur mantenendo in funzione le centrali già esistenti, hanno cessato di costruirne di nuove. Quell’incidente, oltretutto, causò tanta paura ma non una sola vittima (e a distanza di 32 anni lo si può ormai affermare con tutta serenità). Il panico venne alimentato dal clima della Guerra Fredda, che induceva la gente ad associare il nucleare civile a quello militare e quindi ai rischi della guerra atomica, ed anche dalla banale coincidenza dell’uscita nelle sale, giusto un paio di settimane prima, del film “Sindrome Cinese”, con protagonista Jane Fonda nel ruolo della cronista d’assolato ben determinata a svelare un incidente in una centrale nucleare che i responsabili stanno tentando di tenere segreto. Dalla paura di quei giorni prese le mosse la prima grande campagna antinuclearista, che fu l’archetipo di quelle poi seguite in Europa negli anni Ottanta (indimenticabili le cinque serate consecutive del concerto “No Nukes” al Madison Square Garden di New York, con Jackson Browne, Bruce Springsteen, James Taylor e molti altri giganti del rock).

Ora, proprio quando l’amministrazione Obama sembrava determinata a por fine a quella moratoria, i fatti drammatici del cataclisma giapponese avrebbero potuto indurre a lasciar perdere o comunque ad esibire una battuta d’arresto, tanto più che l’anno prossimo sarà un anno elettorale.
E invece, ieri mattina il Ministro per l’Energia Steven Chu, in una audizione davanti ad una commissione parlamentare, ha espresso questa posizione: “il popolo americano deve avere piena fiducia nel fatto che gli Stati Uniti hanno già oggi delle normative sulla sicurezza sufficienti a garantire che la nostra energia nucleare viene prodotta in modo sicuro e responsabile”.
La stessa linea è stata tenuta dal nuovo portavoce della Casa Bianca Jay Carney, il quale ha detto chiaro e tondo che l’amministrazione non ha intenzione di fare nessun passo indietro. Carney si è appositamente portato in conferenza stampa Greg Jaczko, presidente della Nuclear Regulatory Commission. Quest’ultimo è stato molto fermo: “restiamo convinti che in questo Paese le centrali nucleari operano in assoluta sicurezza”.
Dopodiché nel pomeriggio Obama in persona in un'intervista ad una televisione locale di Pittsburgh ha confermato che l'amministrazione non molla di un centimetro: “nulla è mai totalmente sicuro, né a prova di errore. Quindi ogni volta che si verifica questo tipo di eventi” [proprio così: “eventi”, non “catastrofi” come vorrebbe la Spinelli: Obama evidentemente rientra fra coloro per i quali ad oggi la catastrofe è quella del sisma, mentre sulle centrali in avaria vale ancora la pena di risparmiare certi toni - ndt] “penso sia molto importante per noi studiare come possiamo ulteriormente migliorare la sicurezza e l’efficienza dei nostri impianti … Ovviamente tutte le fonti energetiche hanno i loro inconvenienti. Lo abbiamo visto, tanto per intenderci, con la perdita di petrolio nel Golfo del Messico la scorsa estate. Ma io penso che per noi è importante andare avanti, mantenendo costantemente aperto il ragionamento su come migliorare sempre le tecnologie per venire incontro alle richieste di maggiore sicurezza che la gente pone di continuo”.

Se riuscirà a tenere il punto, tanto di cappello.

martedì 8 marzo 2011

LA LIBIA E' VI-CINA


Oggi su Libertiamo:

Non so se mi ha sorpreso di più la notizia che gli italiani in Libia, prima dell’evacuazione, erano appena 1.500, o piuttosto quella che i cinesi erano quasi 36mila. Direi che mi ha colpito l’insieme delle due. Le cronache di questi anni ci avevano abituati a pensare che la spregiudicata ed antica partenrship italo-libica avesse ormai assunto dimensioni elefantiache. Sono invece dimensioni microbiche, quanto meno in termini numerici, al cospetto di quella con la Cina; della quale però fino a qualche giorno fa non si era mai letta o sentita una parola. Abbiamo scoperto improvvisamente che quella cinese era la più grande comunità non-africana in questo Paese mediterraneo che credevamo di conoscere tanto bene. La Cina è entrata in Libia in silenzio e fuori dallo sguardo dei nostri media. Ma è entrata in massa, altroché. Nel 2000 i rapporti economici fra i due Paesi generavano un interscambio del volume di 10 miliardi di dollari; nel 2010 di 90 milioni, quasi decuplicato. Sabato scorso Marco Valerio Lo Prete ha radiografato questa sorprendente presenza sul sito web de Il Foglio, lanciando questo spunto: “la maggior parte dei cinesi evacuati, a differenza di quanto accaduto per tutti gli altri lavoratori stranieri, non è stata ancora rimpatriata, ma soltanto dislocata in paesi africani vicini, a partire dal Sudan. Forse ad attendere che Gheddafi “ridistribuisca” i pozzi di petrolio?”

L’interrogativo è ancor più penetrante se si considera che in questi anni quello che Reagan definì “cane rabbioso” (rabbioso, non “pazzo” come solitamente si sente tradurre: la sfumatura ha un peso perché un cane rabbioso va sempre abbattuto) aveva intessuto inediti rapporti di “amicizia” con diversi Paesi occidentali (il nostro in prima linea, come noto) e persino con la Russia, ma non certo con la Cina - paese che non visita dal 1982, e del quale non riceve visita di un capo di Stato da nove anni. Figuriamoci cosa potrà accadere ora che le “amicizie” di cui sopra sono irreparabilmente compromesse e tutto viene rimesso in discussione.
Non dimentichiamo che il petrolio libico, contrariamente al gas, viaggia lungo percorsi flessibili, che possono essere direzionati presso questo o quel compratore. Il compratore cinese, a quanto pare, ha già visto riaprire il rubinetto.

Il caso vuole che giusto in questi giorni ricorra il secondo anniversario della notificazione al sanguinario dittatore sudanese Omar Al Bashir del mandato di arresto emesso contro di lui dal Tribunale Penale Internazionale dell'Aja.
Quando ricevette quella notificazione, Bashir era intento ad inaugurare una mostruosa, gigantesca diga sul Nilo con annessa titanica centrale idroelettrica: opera progettata, realizzata e finanziata dai cinesi. Gli stessi cinesi che subito chiesero ufficialmente di sospendere il mandato di arresto, e che da anni ponevano il veto nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU contro le sanzioni per il genocidio in Darfur.
Per il resto del mondo la questione del Darfur aveva reso impraticabile qualsiasi partnership commerciale con il Sudan; la Cina ne aveva approfittato per porre in atto una sorta di crumiraggio antiumanitario, vendendo al regime anche le armi usate per massacrare i civili: ha del resto tutto l’interesse ad alimentare il più a lungo possibile l’inferno nel perdurare del quale ai concorrenti occidentali tocca rimanere alla larga da tutto quell'oro nero.
Due anni dopo Bashir è ancora al suo posto: è stato “democraticamente” rieletto un anno fa con tante sentite congratulazioni da parte del regime di Pechino.

Attualmente è la Cina a presiedere il Consiglio di Sicurezza dell'ONU, ed ha già fatto sapere che porrà il veto alla istituzione di una no fly zone sulla Libia.
Siamo di fronte ad un bivio: lavorare per un intervento militare quale quello che gli USA ed altri paesi NATO, sia pur riluttanti e balbettanti, si accingono a mettere in piedi; oppure, come suggerito dal nostro ministro degli Interni (e non solo, a quanto pare) darci una calmata e temporeggiare per via euro diplomatica, in attesa di eventi altrimenti favorevoli alla ripresa di forniture ed appalti.

“Liberissimi di stare alla finestra mentre le milizie gheddafiane aprono il fuoco perfino contro le ambulanze”, scrive giustamente il direttore del Tempo Mario Sechi, “ma poi bisogna avere il coraggio di guardarsi allo specchio la mattina, trovare le parole per spiegare che in Libano, Kosovo, Iraq e Afghanistan siamo l’avamposto dell’Occidente mentre della Libia – letteralmente creata dagli italiani – non ci importa un fico secco e se resta Gheddafi in fondo siamo pure contenti”.
Vero; ma anche a voler essere del tutto cinici ed iper-realisti, resta l’altro argomento, quello menzionato da Angelo Panebianco che osserva come “un vendicativo dittatore di nuovo in sella potrebbe decidere di spazzarci via a vantaggio di meno scrupolosi concorrenti. La Cina, soprattutto, un Paese che non ha problemi a trattare con i peggiori dittatori, sarebbe certo lieta di subentrare alle nostre e alle altre imprese occidentali”. Per l’appunto.

mercoledì 2 marzo 2011

GIOCA A TROVARE IL PRESIDENTE INVISIBILE


"Dov'è Waldo?" è il nome di una fortunatissima serie di libri di enigmistica per l'infanzia, in cui i bimbi si divertono a scovare un buffo omino in grandi disegni tempestati di caotici dettagli.

Ieri sul Washington Post (testata filo-democratica) l'opinionista (di sinistra) Ruth Marcus l'ha usato per titolare ("Una presidenza alla "Dov'è Waldo"") un corsivo molto lucido sulla attuale percezione del modo "stranamente passivo" in cui Obama si muove di fronte alle sfide più salienti:

"Per essere uno che è stato eletto parlando di "change we can believe in", Barack Obama può risultare un presidente stranamente passivo. C'è un sorprendente numero di occasioni nelle quali il presidente è risultato "disperso" - riluttante, recalcitrante o tardivo rispetto al problema del momento. Troppo spesso il suo agire giunge più come una reazione che come una fonte di ispirazione, ed è più frenato dalla cautela che animato da una spinta propulsiva". [...] "Dov'è Obama? Non importa quanto vi impegnate a guardare, a volte è proprio impossibile trovarlo".

Allora non sono io ad avere problemi di vista (pensavo di sì perché quando giochiamo a "Dov'è Waldo" mio figlio mi batte sempre).