venerdì 24 luglio 2009

LA MADRE DI TUTTE LE GUERRE CULTURALI VOLGE AL TERMINE?


L’ultimo numero di TIME contiene un pezzo molto interessante sull’eterna diatriba prolife/prochoice. Questo l’incipit:

“È da così tanto tempo che il volume del dibattito sull’aborto rimane bloccato al livello delle urla rancorose, che quando si abbassa si rimane disorientate, come quando si esce all’aperto dopo un concerto rock e si stenta a recuperare l’udito. Perciò sulle prime potrebbe anche non essere percepita l’importanza del fatto che il 23 luglio [cioè la data della pubblicazione di questo articolo, che evidentemente è stato “cucinato” dietro le quinte e fatto uscire come spot a orologeria - ndt] due deputati democratici abbiano presentato un disegno di legge finalizzato alla riduzione del numero degli aborti. Ma, a prescindere dal fatto che questa proposta legislativa venga approvata o no, la vasta gamma di sostenitori che si sono schierati a suo sostegno rappresenta di per sè una rottura storica rispetto al quarantennio di politica “post Roe”.

Se vi pare che stiamo esagerando, considerate un po’ questo: appena tre anni fa, quando i due deputati in questione, ossia il pro-life
Tim Ryan dell’Ohio e la pro-Choice Rosa DeLauro del Connecticut, presentarono una prima versione di questo disegno di legge, riuscirono ad ottenere il sostegno di un’unica organizzazione religiosa, e di neanche un solo gruppo antiabortista. Oggi, al contrario, i vertici della Planned Parenthood e della NARAL si troveranno gomito a gomito con cattolici ed evangelici conservatori nel sostengo alla legge Ryan-DeLauro. Forse non sarà la fine della guerra culturale, ma di certo assomiglia molto ad un armistizio”.

L’articolo prosegue spiegando come i due deputati abbiano lavorato dure per ben quattro anni per vincere diffidenze e raccogliere sostegni bipartisan, e sottolineando che il disegno di legge in questione, oltre ad una “campagna nazionale per insegnare ai genitori come parlare di sesso ai loro figli” e ad una per “informare l’opinione pubblica sull’adozione”, nonché ad assistenza gratuita pre e post parto, anche a domicilio, per le madri indigenti, includa anche una campagna a favore della contraccezione, cosa che però non ha impedito il sostegno anche da associazioni di stampo conservatore.

L’autrice lascia neanche tanto velatamente intendere che questa operazione fosse (segretamente) sottesa alla sortita di Obama due mesi fa all’Università di Notre Dame, quando il neopresidente invitò prolifers e prochoicers a piantarla di demonizzarsi vicendevolmente, a mettersi a “cercare un terreno comune”, e a "lavorare assieme per ridurre il numero delle donne che scelgono di abortire: riducendo le gravidanze indesiderate, rendendo l’adozione più facile, e fornendo assistenza e sostegno alle donne che scelgono di portare a termine la propria gravidanza”.
Se così fosse, lo stesso retroscena spiegherebbe anche – aggiungo io – la promessa di “adoperarsi personalmente per ridurre il numero degli aborti”, ferme restando le divergenze sui principi di fondo, che Obama ha fatto anche pubblicamente al papa in occasione della sua udienza di due settimane fa.

Questo post sul popolarissimo sito “beliefnet” esamina la lista dei sostenitori e rileva come, al di là del trionfalismo dell’articolo di TIME, per ora non figuri tra essi nessuna delle associazioni prolife più importanti, né delle due principali associazioni prolife di centrosinistra, ossia Democrats for Life e Feminists for Life.

Staremo a vedere.

giovedì 23 luglio 2009

SANITA' USA: CHI TOCCA MUORE, O QUASI

Mio pezzo su L'Occidentale di oggi:
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C’è una famosa battuta di Giulio Andreotti stando alla quale «ci sono pazzi che credono di essere Napoleone e pazzi che credono di poter risanare le ferrovie dello Stato».
Dall’altra parte dell’Atlantico, potremmo riadattarla dicendo che ci sono pazzi che credono di essere Abramo Lincoln e pazzi che credono di poter riformare il sistema sanitario nazionale.
Quando Bill Clinton ci provò nel 1993... SEGUE QUI

venerdì 17 luglio 2009

CHE PALLE!


Prendendo spunto dall'aperura dei British Open, e dalla notoria passione di Barack Obama per il golf (nonché dalla sua nota amicizia con Tiger Woods, da tempo frutto di scontate ma non per questo non efficaci suggestioni pseudopolitiche), il nuovo Lexington si concede una parentesi di cazzeggio presidenziale sfogliando un libro che esamina la personalità dei vari inquilini della Casa Bianca succedutisi negli ultimi decenni alla luce del modo in cui praticavano quello sport:

Bill Clinton imbrogliava. Incredibile a dirsi, persino quando giocava una partita con [il giornalista del New York Times] Don van Natta proprio allo scopo di disinnescare il luogo comune che lo voleva imbroglione, Bill Clinton non resisteva alla tentazione di imbrogliare spudaoratamente, sotto lo sguardo incredulo del giornalista.
George W Bush, alle prese con un tiro lungo su un laghetto, quasi certamente ci si sarebbe ficcato a capofitto. Come dire che era una persona incline ad ignorare il rischio di un disastro totale pur di perseguire un improbabile successo.
Kennedy era naturalmente dotato di un notevole talento di golfista ma cercava che la cosa non fosse di pubblico dominio, per timore che l'avrebbe fatto apparire troppo aristocratico.
Nixon giocava in preda ad un cocente e morboso risentimento nei confornti di chiunque giocasse meglio di lui.
Morale della favola: il golf è rivelatore del carattere.
Ma allora: perché Barack Obama non lascia che i giornalisti lo guardino giocare? La risposta noiosa è che vuole un po' di provacy. Quella più divertente è che teme che la sua reputazione di "onnipotente" non sopravviverebbe alla rivelazione che gli ci vogliono sei colpi per uscire da un "bunker".
A dire il vero, lo stesso Obama aveva ammesso di essere una schiappa a golf, anche se lo aveva fatto interloquendo con un cornista russo.
Sta di fatto che quella del "presidente atleta", del presidente "intellettuale sportivo", ecc. altro non è che una delle tante, ricorrenti piccole panzane agiografiche che da sempre ammorbano le cronache sul 44esimo presidente, anche sui media nostrani, talvolta a firma di "penne" talentuose ma "accecate d'amore", altre volte ad opera di secondo file meno ispirate ma non meno prone al luogo comune di turno. Cosetta da nulla, intendiamoci: ma sintomatica dell'isterica obamamania rispetto alla quale i giornalisti, per verità oramai quelli europei molto più di quelli USA, non si sono ancora fatti gli anticorpi.
La cosa divertente è in realtà le performance sportive di Obama si rivelano spesso scarsissime, roba che al suo predecessore sarebbe costata infiniti sberleffi.
Sul golf, Lexington ha detto la sua.
Sul bowling, guardate un po' qui.
Sul baseball, passo la linea a Camillo.

mercoledì 15 luglio 2009

AFGHANISTAN, ALCUNI GIORNI DOPO

“Questa offensiva nella valle dell'Helmand, pur se "il rumore e la furia" degli sbarchi dei marines dagli elicotteri sono impressionanti, ha qualcosa di molto obamiano, il sapore di una mossa da giocatore di scacchi, non da duellante all'ultimo sangue. […] In questo primo "D-Day" obamaniano non correranno torrenti di sangue. […] Si tratta di un gesto assai più dimostrativo che sostanzioso, di una "strana guerra", condotta nella speranza di non dover fare davvero la guerra. […] Nell’universo di Obama la priorità appartiene sempre alla politica, non alla forza, e lo sbarco roboante di marines con colonna sonora delle pale dei grandi elicotteri Black Hawk nella valle dell'Helmand sembra una mossa politica”.
Vittorio Zucconi, La Repubblica, 3 luglio 2009


“Questo luglio potrebbe diventare il mese più insanguinato di tutti gli otto anni di Guerra in Afghanistan, a giudicare l’aumento dei morti sul fronte da quando i soldati statunitensi e britannici hanno dato inizio alla vasta operazione nella provincia di Helmand”.
Lancio Reuters, 15 luglio 2009


La morte del caporalmaggiore Di Lisio e la violenza in crescita contro i parà fanno parte del cambio di strategia in corso in Afghanistan. Prima americani e inglesi attaccavano dal centro in direzione dei confini: ai talebani era sufficiente riparare in Pakistan per poi affluire di nuovo verso il fronte. Ora americani e inglesi attaccano da sud e premono i talebani verso il centro del paese. Per questo le altre truppe Nato che prima giocavano un ruolo di controllo e retrovia ora si trovano in prima linea, a tagliare la strada ai guerriglieri che si spostano. Una delle rotte è quella che da Logar porta verso Kabul: ma nell’area circoscritta ci sono undicimila soldati. Un’altra rotta per scampare è quella da Helmand a nord verso Farah, l’area del comando ovest italiano. In questa seconda area, vasta come il nord Italia, i soldati Isaf sono soltanto 3.500 perché l’annunciato rafforzamento americano deve ancora arrivare. Il 29 maggio, i paracadutisti italiani hanno combattuto una battaglia contro guerriglieri ben armati, ben organizzati e con addestramento militare. Secondo fonti anonime, lo scontro – che non è stato ripreso molto dai media in Italia – ha lasciato sul terreno duecento morti”.
Daniele Raineri – Il Foglio, 15 luglio 2009

“La guerra, comunque la si voglia incartare, con o senza la stagnola blu delle UN, in formule di “peacekeeping”, “peace enforcing”, “aiuto”, “esportazione delle democrazia”, preventiva o reattiva, santa o empia, ha sempre questo curioso difetto. Fa molto male alla salute di chi vi partecipa. Si dovrebbe almeno dirlo prima di accenderla, come si fa sui pacchetti di sigarette. Le Forze Armate, come ha scritto il generale Colin Powell che di guerre ha fatte parecchie da combattente e da comandante e non è un fanatico, non sono fatte per costruire scuole e “aiutare le vecchiette ad attraversare la strada”, ma “per ammazzare persone e per distruggere cose”. Per questo può accadere di essere ammazzati o distrutti”.
Vittorio Zucconi, “Blog del Direttore” su Repubblica.it, 14 luglio 2009

“Alla fine, con il sangue di Di Lisio è stato scritto ieri l’ennesimo avvertimento ai naviganti italiani che non vogliono prendere atto di molte verità. La principale è che la missione italiana è da tempo mutata, sia negli scopi che nel profilo regionale. La seconda è che questo mutamento avvenuto negli anni scorsi in maniera lenta e invisibile si è accelerato proprio da quando l’amministrazione Obama ha elevato l’Afghanistan a suo principale conflitto. […] La reazione locale è diventata più attiva perché più attiva è oggi la nostra iniziativa», concorda un diplomatico. Questa maggiore iniziativa ha come data, appunto, l’elezione di Barack Obama. Il Presidente che ha portato via i soldati Usa dall’Iraq, l’uomo che ha riaperto il dialogo con ogni possibile nemico, è invece convinto che l’Afghanistan è il Paese in cui si vincerà o si perderà la sicurezza americana".
Lucia Annunziata, la Stampa, 15 luglio 2009

venerdì 10 luglio 2009

G8, NUOVI RETROSCENA

Aridagli.
Ho capito che Obama e Sarko a L'Aquila si sono divertiti un mondo.
E anche i fotografi.

SUCCEDE ANCHE AI MIGLIORI

Non solo Camillo si è accorto con una settimana secca di ritardo della dipartita del "vecchio" Lexington, ma nel metterci una pezza si è limitato a segnalare (con altrettanto ritardo) l'ultimo pezzo di Wooldridge, senza curarsi di svelare l'identità del successore nonché di segnalare la pubblicazione del primo pezzo del "nuovo" Lexington , sull'economist di oggi (su Sarah Palin, come preannunciato).
Del resto, si sa: in questi giorni di G8 tutti hanno qualcosa di meglio su cui concentrarsi...

DON'T LOOK BACK

Secondo me ieri sera il Boss lo ha riempito di mazzate...

ANOTHER B.R.I.C. IN THE WORLD


"Quello che conta è ormai il nuovo G5 che s’è formato vicino al vecchio club: Cina, India, Brasile, Sud Africa, Messico. Ad esso, su spinta italiana, va aggiunto l’Egitto per arrivare al G14 che si è ufficialmente deciso affiancherà e seguirà il G8. «Non possiamo certo venire soltanto per un caffè - ha detto Lula ieri in un’intervista a Le Monde -. Sarebbe il caffè più caro del mondo...». Il presidente brasiliano auspicava l’ingresso stabile del «Bric» (Brasile, Russia, India, Cina) e si può dire che l’abbia acquisito".



"La sfida al dollaro è (con l’ambiente) uno dei temi su cui la Cina fa da “cuneo” nel G8 e attira sulle proprie posizioni anche la Russia. Proprio Putin di recente ha organizzato un vertice dei quattro Bric (Brasile Russia India Cina) dove è stata data un’accelerazione all’uso delle rispettive monete (real, rublo, rupia e renminbi) in sostituzione del dollaro per il pagamento dell’interscambio bilaterale fra le quattro potenze emergenti".




Intanto, l'altro giorno un analista economico segnalava che la Cina ha soppiantato gli USA come primo partner commerciale del Brasile. Commento su un blog dell'Economis: "La Dottrina Monroe è morta".

mercoledì 8 luglio 2009

OBAMA TORNA DA MOSCA CON UN PUGNO DI MOSCHE?

Mio pezzo su L'Occidentale di oggi.

Solo per i lettori del blog, eccone una versione "arricchita" (di link, soprattutto):

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Prima di festeggiare il “successo” della prima visita di Obama a Mosca per via dell’ “accordo preliminare” sulla riduzione delle testate nucleari, sarebbe forse prudente chiedersi come mai in realtà fossero i russi, e non gli americani, a volere a tutti i costi questo accordo – circostanza nota e di pubblico dominio, anche se la Casa Bianca negli ultimi giorni ha pensato bene di dare in pasto ai media del materiale “fumogeno” per dissimularla.
A questo proposito, l’analisi più approfondita è quella del WSJ: centrata sull’importanza del fatto che, accanto alla riduzione delle testate, si sia negoziato, su pressione dei russi, anche sulla riduzione dei vettori nucleari (cioè gli aerei bombardieri, le rampe missilistiche di terra e quelle trasportate sui sottomarini).
Il limite attuale è di 1.600 vettori, quello futuro concordato sarà di 1.100. Un buona affare per Mosca, non certo per Washington, sostiene il WSJ.

“Perché? Perché il numero di vettori russi è comunque destinato a precipitare nei prossimi anni, semplicemente perché quelli attualmente in forze stanno divenendo obsoleti. In altre parole, buona parte dei vettori russi verranno comunque rottamati, con o senza un nuovo trattato sul controllo degli armamenti […] Stando alle stesse fonti russe, la Russia verosimilmente nel 2017-2018 avrà meno della metà dei circa 680 vettori che ha oggi. Con un PIL inferiore a quello della California, la Russia deve fare i conti su come stare al passo con gli USA mentre manda in pensione i suoi armamenti troppo datati. La soluzione di Medvedev è negoziare dei tagli che per gli USA sono reali, mentre per la Russia corrispondono in realtà né più né meno che all’eliminazione di ciò che sarebbe stato comunque dismesso […] Come ha notato il giornalista russo Pavel Felgengauer sul Novaya Gazeta, I leader russi "hanno chiesto agli americani concessioni unilaterali su tutto, offrendo in cambio proprio un bel niente".

In definitiva: l’accordo è stato una concessione che gli americani hanno fatto ai russi, presumibilmente nella speranza di “agganciarlo” a successivi possibili accordi sul “resto”, ossia sull’allargamento della NATO ad Est (leggi: Georgia e Ukraina), e soprattutto sul coinvolgimento della Russia nel disinnescare l’atomica iraniana - magari usando la questione dello "scudo" antimissilistico come merce di scambio, cosa che Obama tenta vanamente di fare sin dall’esordio della sua esperienza di governo (come annotai più di quattro mesi fa, prendendo anche nota del fatto che erano i russi a mettere sul tavolo la questione dei vettori... sulla quale, a quanto pare, l’hanno avuta vinta).

Per ora, però, i russi non appaiono per nulla interessati a collaborare sul “resto”; anzi. A questo proposito va assolutamente letta questa analisi apparsa un paio di giorni fa sul NYT, che spiega come per la Russia un Iran isolato dalle proprie ambizioni atomiche sia un eccellente business, mentre una sua “normalizzazione” e conseguentemente apertura all’occidente potrebbe essere assai svantaggiosa per gli affari della banda Putin – tipo, hai visto mai che i mullah si mettono a pompare gas nel Nabucco a discapito di Nord e South Stream

Persino Newsweek, testata decisamente favorevole all'attuale presidente, ha pubblicato un pezzo che mette radicalmente in dubbio la concludenza di questo summit moscovita. Gli autori sottolineano che Medvedev è stato il primo leader mondiale a ricevere Ahmadinejad dopo la sua recente e "controversa" rielezione, e che la Russia "ha fatto di tutto per ammorbidire la risoluzione sull'Iran" al vertice dei ministri degli esteri del G8 il mese scorso a Trieste.

Non è finita.

Sul WSJ, si riporta anche che il pregevole discorso (pregevole anche se molto, molto prudente: l’America sostiene i principi liberali e democratici "because they are moral", ma anche "because they work”; e comunque non pretende di imporre niente a nessuno, se non scegliendosi i partner commerciali, come è logico, tra quelli più democratici e più liberali, ché sono più affidabili) pronunciato da Obama alla prestigiosa (ed elitaria) New Economic School nella speranza di emozionare un po' l'opinione pubblica russa, non è stato trasmesso in diretta da nessuna delle principali emittenti televisive del paese (con la sola eccezione del canale via cavo "Vesti"). Lo nota anche il Los Angeles Times, che (in un pezzo dall'eloquente titolo "i colloqui USA-Russia non producono nessun risultato importante") rileva pure come i telegiornali, nel limitarsi a trasmettere qualche breve fimato del discorso, abbiano pure sottolineato polemicamente che l'arrivo di Obama aveva interrotto la cerimonia di consegna dei diplomi agli studenti. Stessa storia anche sul NYT, il quale rincara la dose raccontando che l’accoglienza che i moscoviti hanno riservato ad Obama è stata cortese ma gelida, sorprendentemente insensibile al carisma del 44esimo presidente e per nulla incline al festoso calore con il quale folle oceaniche accorrono solitamente ad applaudirlo in tutte le capitali occidentali. Identico racconto pure sul Washington Post (così chiudiamo il cerchio della trimurti della "grande stampa liberal"), che pure si prodiga in incredule descrizioni di come i russi, accidenti a loro, a quanto pare sono risultati totalmente immuni all’obamamania. A quanto pare i cronisti yankee sono rimasti tutti impressionati dalla stessa cosa, persino la Reuters oggi ha lanciato un pezzo del corrispondente da Mosca per raccontare lo spettacolo clamoroso di un popolo che ha resistito al fascino di Obama.

Insomma: per le buone notizie, meglio ripassare un'altra volta.
PS: Non avevano torto quelli dell'Economist, con quella copertina così inquietante...

DAY-AFTER UPDATE: Oggi Stehpen Walt, professore di relazioni internazionali ad Harvard, spiega sul Daily Beast perché l'accordo preliminare raggiunto è, nella sostanza, molto meno significativo di quanto sembra, e perché "raggiungere un accordo definitivo prima della scadenza dell'attiale trattato START sarà un'impresa erculea".

Frattanto, dal G8 giungono (via NYT) spiacevoli conferme:

"After a long discussion Wednesday night, President Obama and counterparts from the rest of the Group of 8 powers called on Iran to compromise on its uranium enrichment program, condemned its crackdown on the dissent after President Mahmoud Ahmadinejad’s re-election and repudiated the president’s statements denying the Holocaust.
But the Russians succeeded at blocking any further sanctions, despite Mr. Obama’s visit to Moscow leading up to the Group of 8 summit meeting, which he used to press the Kremlin to join him in a unified front. Although President Dmitri A. Medvedev told Mr. Obama on Monday that he shared concerns about Iran’s nuclear program, Russian officials on Thursday boasted that they had watered down the Group of 8 statement".

martedì 7 luglio 2009

LEXI RETURNS


Lexington è come Batman: cambiano gli interpreti, ma il personaggio è perpetuo.

Sul suo blog si annuncia l’avvicendamento: rimpatriato “il vecchio Lexington” a Londra, da dove scriverà di “global business”, la sua postazione verrà occupata da colui che con Wooldridge “ha condiviso lo stesso ufficio negli ultimi quattro anni”, ossia da Robert Guest.

Pare che il primo articolo del "nuovo Lexington" sarà su Sarah Palin.

sabato 4 luglio 2009

“L’IDEOLOGIA COME RAPPRESENTAZIONE TRUFFALDINA DEL MONDO”


Ovviamente i bravi ragazzi del Foglio non si sono fatti sfuggire il succulento bocconcino: in totale, commovente sintonia con le nostre annotazioni di ieri, oggi impallinano Zucconi con un editoriale semplicemente perfetto:

"Il giornalista di Rep. prevede per vie misteriose che questa offensiva non farà morti, è tutta una messinscena appunto “dal sapore molto obamiano” per fare capire al mondo che lui sa fare il duro. Non fatevi ingannare da quattromilacinquecento marine sbarcati dagli elicotteri e aiutati dai bombardieri: “E’ una mossa da giocatore di scacchi, non un’offensiva all’ultimo sangue”.L’ideologia come rappresentazione truffaldina del mondo funziona così. Obama è semplicemente troppo bello per essere vero, è l’emozione che non si può interrompere. Non può nuocere: al massimo si atteggia. Anche se bombarda il Pakistan ogni settimana. Anche se ordina la più vasta offensiva di terra dai tempi del Vietnam. Anche se comandasse ai marine di espugnare con gli elicotteri la scrivania di Zucconi".

venerdì 3 luglio 2009

LE BOMBE DI OBAMA NON FANNO MALE


Mentre l’esercito USA combatte in Afghanistan nientemeno che “la più vasta operazione militare dai tempi del Vietnam” , brutale definizione che viene data in pasto persino ai palati delicati dei lettori de La Repubblica (parbleu che brutta roba dal gusto retro, bushiano e neocon...), il solito, impagabile Vittorio Zucconi rassicura i lettori del "suo" giornale distogliendoli dagli inquietanti elementi di colore sui quali si sarebbe invece presumibilmente concentrato se alla Casa Bianca ci fosse ancora un presidente repubbblicano (dal nome dell'operazione - "Colpo di Spada" - alla concomitanza con la vigilia del 4 luglio), e producendosi in siffatti arzigogoli:

L'Obama guerriero è una figura incongrua e non perché lui, come i falchi da salotto e da talk show alla maniera dei neo-con che lo avevano preceduto al potere, non abbia mai indossato un'uniforme sul serio e non abbia mai provato che cosa significhi davvero sparare a un nemico o essere il bersaglio di proiettili. Guardandolo e ascoltandolo, ormai da molti mesi, prima in campagna elettorale e poi dallo Studio Ovale, si capisce come il suo modus operandi, la sua personalità, la sua storia non possano essere quelli di condottieri bellici, di uomini che sono naturalmente dotati, a volte sfortunatamente dotati, della capacità di vedere il mondo in bianco e nero, diviso in "noi e loro". Come quel generale Patton, idolo dei soldati e dei marines in Europa, la cui filosofia di vita si riassumeva nel famoso motto: "Fare la guerra significa ammazzare quei figli di puttana prima che quei figli di puttana ammazzino te".
Il mondo nel quale si muove Obama, come la sua storia biologica di figlio dell'Europa e dell'Africa insieme, è un mondo in grigio, di tonalità sfumate, che non sono gli ingredienti del semplicismo ideologico, mistico o caratteriale indispensabile
per condurre grandi e vere guerre nella certezza di stare dalla parte del bene assoluto. Anche questa offensiva nella valle dell'Helmand, dove i Taliban risorti (in realtà mai scomparsi) si erano riorganizzati per sfruttare un passaggio geografco chiave e per far ripartire alla grande la produzione e il traffico di oppio, pur se "il rumore e la furia" degli sbarchi dei marines dagli elicotteri sono impressionanti, ha qualcosa di molto obamiano, il sapore di una mossa da giocatore di scacchi, non da duellante all'ultimo sangue. Nel suo universo la priorità appartiene sempre alla politica, non alla forza, e lo sbarco roboante di marines con colonna sonora delle pale dei grandi elicotteri Black Hawk nella valle dell'Helmand sembra una mossa politica, diretta soprattutto a quel Pakistan, e a quell'Iran in subbuglio da fine di regime, che tengono da sempre le chiavi della valli afgane. Dove nessuna forza militare straniera, da Alessandro il Macedone a Bush il Texano, è mai riuscita a imporre la propria volontà e il proprio controllo".

Paraponzi-ponzi-po'. Per la serie "i fatti separati dalle opinioni": qualcuno, per cortesia, aggiorni i lettori di Zucconi su cosa sta accadendo laggiù, stando alle notizie di oggi; e già che ci siamo, qualcuno spieghi loro con quali “mosse da giocatori di scacchi” , con quale “priorità alla politica, non alla forza” , Obama, complice la sua storia non biologica di figlio di Chicago e quindi anche di qualcos'altro, sta “negoziando” con i paki-talebani, sin dai primissimi giorni di vita del suo governo (non senza i fisiologici "incidenti diplomatici" del caso). Si potrebbe anche aggiungere che oltreoceano (ma anche oltremanica) è da gennaio che si leggono continui paragoni fra il modo in cui Obama sta gestendo la grana afghano-pakistana e quello in cui LBJ gestì quella vietnamita, con tanto di critiche radical ad una escalation di johnsoniana memoria.

Certo, la tesi di Christian Rocca sarà pure un po' semplicistica; ma vista l'alternativa...

GOODBYE, LEX

Se ne va dagli USA il mitico Adrian "Lexington" Wooldridge, capo dell’ufficio di Washington dell’Economist - nonché coautore (a quattro mani con quel John Micklethwait che dell'Economist è ora il direttore) dell'imprescindibile "The Right Nation" del 2004 (che un "grande" editore ha tardivamente "importato", e precocemente mandato fuori catalogo, in Italia - con un titolo imbarazzante, pare peraltro nemmeno il peggiore fra quelli presi in considerazione...), ed ora di un nuovo saggio intitolato "God is Back", sull'influenza della religione nelle realtà politche contemporanee.
Lexington rientra a Londra dopo 13 anni di benemerite corrispondenze dagli USA.
Qui il suo articolo "tocquevilliano"di commiato, dai toni non propriamente solari.
Probabilmente è stato il migliore, tra i cronisti europei, a raccontare l'America di Bush. E ora, a chi toccherà raccontare quella di Obama?