martedì 24 febbraio 2009

CAPIRE E AGIRE

Tanto per essere chiari: attualmente, se questo blog ha una ragion d'essere, nulla la illustra meglio di questo post di Mario Sechi.
Elaborare i dati a disposizione, e non solo quelli numerici ma anche i dati culturali, psicologici e naturali di questa crisi.

OK.

lunedì 23 febbraio 2009

PALTNELSHIP STLATEGICA


Più che “come volevasi dimostrare”, direi "come temevasi di dover riscontrare": a spiacevole conferma dei miei appunti di venerdì scorso, oggi su La Stampa Francesco Sisci, uno dei massimi esperti italiani sull’argomento, racconta di una signora Clinton che a Pechino avrebbe siglato addirittura un “patto segreto”, che “ha sfidato le ire dei gruppi a favore dei diritti umani e ha ignorato il terreno, preferendo concentrarsi sulle questioni economiche e strategiche”, al punto da aver “riportato le lancette del rapporto a prima del 1989, prima del crollo del muro, quando la Cina era un baluardo nel fronte anti sovietico”.
Sisci ne desume che, ahinoi, siamo di fronte ad un “fidanzamento di interesse” tra Washington e Pechino, che potrebbe anche evolvere in matrimonio (ovviamente sempre d’interesse).

Combacia tragicamente la cronaca che Pasolini Zanelli faceva ieri su Il Giornale:

“a Pechino la Clinton ha dichiarato pari pari che i diritti umani sono certo una cosa importante e bella, ma che in questo momento non debbono interferire o peggio ostacolare le relazioni tra Washington e Pechino perché la precedenza va data alla cosa che conta veramente: la collaborazione economica per cercare di salvarsi, e salvare il mondo, da una recessione così feroce e tenace che alcuni cominciano già a chiamare con il nome superproibito di Depressione. Proprio così: «È essenziale che gli Stati Uniti e la Cina abbiano rapporti positivi di cooperazione. I diritti umani non possono interferire nella crisi economica e neanche nella minaccia dei mutamenti climatici e nelle crisi che riguardano la sicurezza».

Il resoconto è corretto: per verificarlo, basta un'occhiata al sito della CNN.
Oltreoceano, intanto, il più importante quotidiano liberal del mondo annotava con palpabile imbarazzo frasi della Signora Segretario di Stato quali “siamo nella stessa barca e per fortuna stiamo remando nella stessa direzione”, ma teneva a precisare che la nostra ha comunque trovato il tempo, prima di partire, di incontrarsi con un gruppo di attiviste per i diritti delle donne, che la considerano un’eroina. Bontà sua.

Ciò nondimeno, sulla rive gauche nostrana Federico Rampini ha preso nota del fatto che il regime ha colto il segnale, e ha mostrato di gradire...

venerdì 20 febbraio 2009

CLINTON GOES TO CHINA 2.0

"Sono sorpreso. Questo paese ha fatto un autentico movimento verso l' apertura e la libertà. Spero che continui".
Così il presidente Bill Clinton durante il suo viaggio ufficiale a Pechino e a Shangai nel luglio del 1998.
Clinton era giunto in Cina tra mille polemiche: il regime continuava ad arrestare i dissidenti, i repubblicani criticavano la strada del "confronto costruttivo" perseguita dalla Casa Bianca. Tuttavia, il presidente si mostrò determinato a chiudere il capitolo Tienanmen in modo a dir poco pragmatico, e ad aprire quello della "partnership strategica".
Da anni Clinton coltivava quella politica di distensione con la Cina, incentrata sulle buone relazioni commerciali. Si trattava, a ben vedere di un appeasement “furbo”, che muoveva dalla fiducia nella supremazia USA.
Segno dei tempi, e metafora cinematografica dell’atteggiamento americano di quei giorni, è la produzione di quell’anno della Disney: “Mulan”, una storia (messa in cantiere nel 1994) ambientata nella Cina medievale, e ispirata ad un'antica fiaba cinese. L'intento del colosso cinematografico statunitense era palesemente quello di poter penetrare più a fondo nel mercato cinese. La scelta dell'argomento era il risultato di lunghe trattative per la scelta di un argomento ritenuto "consono" da parte del governo della Repubblica Popolare Cinese e sufficientemente attrattivo da parte della Walt Disney Company. Tutte le opere cinematografiche in Cina devono infatti essere approvate dal governo prima di arrivare al pubblico. Il film della Disney fu però “approvato” solo tardi e limitatamente, e si rivelò un'azione commerciale meno brillante di quella sperata.
Analogamente, per molti versi a quella politica di Clinton.
L’appeasement paraculo di Bill di dieci anni fa, che sottendeva una alleanza commerciale tra gli USA incontrastata superpotenza golbale e una Cina potenza “regionale”, senza “super”, ha ceduto il passo ad una logica di partnership pericolosamente “alla pari”.

Oggi, colei che nel 1998 seguiva Bill come First Lady, non a caso ha scelto l’Asia come meta del suo primo viaggio ufficiale da Segretario di Stato, torna a Pechino.
Il giorno prima di partire, ha tenuto un discorso alla Asia Society di New York, il primo suo discorso di una certa importanza da quando ha assunto la carica. Un discorso tutto giocato su parole come “ascolto”, “collaborazione”, e carinerie del genere: “c’è chi pensa che una Cina in ascesa sia, per definizione, un avversario. Al contrario, noi crediamo che gli Stati Uniti e la Cina possano trarre un beneficio e un successo reciproco”…
Una Hillary ben diversa da quella che, lo scorso aprile, chiedeva al presidente Bush di disertare l’inaugurazione dei giochi olimpici di Pechino menzionando non solo la repressione dei diritti umani in Tibet, ma anche i legami tra il regime cinese e quello sudanese.

Certo, di mezzo c’è stato lo scoppio della crisi economica.

La Cina è da qualche anno il primo sottoscrittore al mondo di Buono del tesoro Usa. Quest’anno il deficit pubblico USA triplicherà, e la permanenza del ruolo di “finanziatore” di Pechino è letteralmente vitale per Washington. Se i cinesi smettessero di comprare titoli americani, farebbero crollare i mercati americani. In quel caso, però, gli americani potrebbero reagire con una guerra doganale che, privando la Cina del suo principale sbocco di esportazione di beni e servizi, la condannerebbero ad una iperinflazione che a propria volta porterebbe dritto dritto al tracollo economico del gigante asiatico. Quindi, in definitiva, simul stabunt, simul cadunt. Qualche analista paragona questa simbiosi a uno di quei matrimoni in crisi che non si risolvono in una separazione solo perché i coniugi non se lo possono permettere dal punto di vista dei rispettivi, egoistici interessi (ciao Bill, ciao Hillary). Più suggestiva la celebre immagine che coniò qualche anno fa ex ministro del Tesoro clintoniano Larry Summers, il quale definì questa situazione come “equilibrio del terrore finanziario” , mutuando il celebre concetto di “equilibrio del terrore” che, grazie al reciproco puntamento dei missili nucleari intercontinentali, evitò a lungo che la Guerra Fredda degenerasse in “calda”.
Lo stesso concetto è stato ripreso, di fatto, da André Glucksmann nei giorni scorsi, in un corsivo in cui descriveva “lo speciale rapporto fra grande risparmiatore e grande scialacquatore cui lo storico Neil Freguson dà il nome di Chimerica come un “G2 Washington-Pechino”, che di fatto “domina il mondo” e cui ci si deve affidare per “trovare un’intesa sull’orlo del baratro”. Glucksmann, appassionato accusatore delle nefandezze di Vladimir Putin, tiene a distinguere tra il regime russo, mero paravento per una cricca di malfattori che si arricchiscono sulle spalle del popolo approfittando di rendite di posizioni energetiche e lestamente imboscano i proventi del loro malaffare in lontani paradisi fiscali, lasciando andare alla malora il loro paese, e quello cinese, con il quale secondo lui non è invece immorale fare affari perche esso è semmai assimilabile al Brasile e all’India, cioè alle nascenti potenze che “non mirano al caos”, ma a costruire nel lungo periodo economie solide e stabili.

Probabilmente Glucksmann ha ragione: la Cina “non mira al caos”. Ma ciò non significa che non punti all’egemonia globale; e che non si tratterebbe affatto di una egemonia portatrice di logiche e di principi democratici. Ne accennavamo, nel nostro piccolo, qui, a gennaio. I movimenti in quella direzione continuano, e la crisi non fa che incentivarli, anche se le notizie al riguardo sono sempre poche e scarne.
Non ci resta che continuare a monitorare, pazientemente e non senza una certa inquietudine.

lunedì 16 febbraio 2009

PER OBAMA PIU' VENERDì 13 CHE SAN VALENTINO


Registravamo un paio di settimane fa come uno dei peggiori errori commessi sin qui dal neo-presidente Obama il tentativo di piazzare Bill Richardson come ministro del Commercio, abortito per via di un’inchiesta per corruzione nei confronti dell’interessato; e annotavamo che alla fine quel posto sarebbe andato al senatore (ed ex governatore) repubblicano liberista del New Hampshire Judd Gregg, e che quella scelta imprevista, spregiudicatamente "bipartisan", aveva parzialmente ridimensionato la figuraccia, a livello mediatico e non solo.
Ebbene: giovedì pomeriggio Gregg, prima ancora della conferma parlamentare della propria nomina, ha guastato ad Obama il bicentenario della nascita di Lincoln annunciando la propria rinuncia all’incarico, spiegando di essere in disaccordo su troppe cose con l’amministrazione Obama e di non essere disposto a “rinunciare a se stesso”. Evidente il riferimento al piano, pesantemente interventista, di “ rilancio dell’economia” all’esame del Congresso in quelle ore. La notizia ha conquistato le prime pagine dei quotidiani di venerdì (un vero “venerdì 13” per il neo-presidente). Il commento che circola è che Gregg abbia fatto marcia indietro “sotto la pressione del partito”; il che rende il suo gesto molto più significativo di quanto non sarebbe stato se si fosse trattato di una decisione puramente personale.

Nella notte fra venerdì e sabato, il Congresso ha approvato la mega manovra anticrisi di Obama: 787 miliardi di dollari, ripartiti tra tagli fiscali (meno del 40% del pacchetto) e spese federali (oltre il 60%). E' La spesa pubblica più massiccia approvata dal Congresso dai tempi di Franklin Delano Roosevelt, ed è indicativo il fatto che proprio dallo staff del presidente giungano in queste ore inviti a non aspettarsi miracoli, ma solo utilità nel lungo periodo.

Inoltre, anche in questo passaggio molti hanno colto l’assenza di quella “bipartisanship” lungamente promessa dal nuovo presidente.
Nel 1981, i tagli alle tasse del neo-presidente Reagan vennero approvati dal Congresso con l’appoggio di 48 (quarantotto) democratici alla Camera e 37 (trentasette) al Senato. La manovra di spesa di Obama ha ricevuto la miseria di 0 (zero) voti repubblicani alla Camera e 3 (tre) al senato. Tra i tre senatori "frondisti" non rientra, stavolta, il maverick John McCain, il cui commento è stato impietoso: “stiamo commettendo un furto generazionale. Stiamo accollando un deficit mostruoso alle generazioni future di americani”.
Secondo Huffington Post, tra i democratici cresce il risentimento nei confronti di tanta “ingratitudine” da parte di quello che, da semplice sconfitto alle ultime elezioni, sta(va?) divenendo, anche grazie ad una peculiare strategia dell’attenzione da parte di Obama, l’uomo-simbolo di una possibile opposizione collaborativa e non-ideologica.
Nei prossimi mesi si potrà capire l’opposizione repubblicana, nel mettere in piedi questa compatta “linea dura”, è in sintonia con il Paese oppure no.

lunedì 9 febbraio 2009

MODELLI AMERICANI - BARACK OBAMA PER BENEDETTO XVI


"Io penso che questo Papa deve imparare dal presidente Obama. Lui è piuttosto sulla linea del presidente Bush. […] Negli Stati Uniti abbiamo visto che c’è adesso un change, un cambio. Anche la chiesa cattolica ha bisogno di un cambio, non possiamo andare avanti così, perché come ho detto la miseria nelle parrocchie e anche nell’opinione pubblica, la chiesa cattolica ha tanto bisogno…..quando Joseph Ratzinger e io stesso siamo stati i periti più giovani al concilio vaticano II. Lui si ricorda che la chiesa cattolica aveva un prestigio immenso a causa di questo papa, a causa di questo concilio. Ma adesso è proprio l’opposto. Noi siamo in una certa terribile esposizione. [...] E’ necessario che il papa veda i problemi, come Obama ha detto: noi abbiamo gli stessi problemi. E poi una visione di speranza, e alcuni atti come adesso fa il presidente degli Stati Uniti".

venerdì 6 febbraio 2009

PER OBAMA LA NOMINA PIU' DIFFICILE E' DIETRO L'ANGOLO


La signora Ruth Bader Ginsburg è uno dei membri più smaccatamente “progressisti” della Corte Suprema degli Stati Uniti, nonché l’unica donna a farne attualmente parte.
Ieri, la notizia del suo improvviso ricovero in ospedale per un cancro al pancreas ha sollevato tra gli addetti ai lavori una ulteriore dose di speculazioni sulle possibili scelte del nuovo presidente qualora egli fosse chiamato nel breve periodo a nominare un nuovo giudice costituzionale.
In effetti, è sorprendente quanto questa questione sia rimasta marginale durante la campagna elettorale, posto che da sempre le nomine alla Corte Suprema (che oltretutto sono vitalizie, quindi solitamente destinate a durare molto più della presidenza dalla quale sortiscono) lasciano il segno ed infuenzano la storia della politca e della società ben più di quelle ai vertici dei ministeri.
Tanto più che un altro membro liberal della Corte, il giudice John Paul Stevens, è 88enne, e da anni ormai si vocifera periodicamente di sue imminenti dimissioni.

Bush durante i suoi otto anni alla Casa Bianca ha sostituito con due giudici “conservatori” non solo il presidente della Corte, il mitico William Rehnquist, scomparso nel settembre del 2005, il quale era a sua volta un conservatore di ferro, ma anche Sandra Day O’Connor, che era stata la prima donna a far parte della Corte e, seguendo un orientamento liberal-moderato, aveva fatto da ago della bilancia tra membri progressisti e conservatori della Corte in molte decisioni delicate, propendendo per soluzioni pro-choiche in tema di aborto.
Tra l’altro, entrambi i “conservatori” nominati da Bush (il texano John Roberts, nuovo presidente della Corte, e l’italoamericano Samuel Alito) sono cattolici, con il che i giudici che seguono questa confessione religiosa sono divenuti maggioranza assoluta nella Corte (cinque su nove), per la prima volta nella storia di un Paese la cui popolazione è composta da cattolici in misura inferiore al 25%.
Poco dopo le nuove nomine, il 18 aprile del 2007, pur senza mettere in discussione i principi fondamentali fissati dalla famosa sentenza “Roe contro Wade” che nel 1973 impose come diritto costituzionale la libertà incondizionata di abortire fino al sesto mese di gravidanza (ma smentendo un proprio pronunciamento di otto anni fa su una legge del Nebraska praticamente identica), la Corte Suprema ha “salvato” una legge federale sostenuta dall’amministrazione Bush che aveva vietato il partial-birth abortion, la tecnica che serviva ad abortire “in extremis” aggirando il divieto di interrompere la gravidanza dopo il sesto mese senza motivi di salute.
È pure vero che nella decisione sul partial-birth abortion del 2007, uno dei cinque giudici cattolici della Corte Suprema aveva votato contro; per cui i nuovi due membri nominati da Bush non avrebbero potuto, “da soli”, determinare l’esito della causa. Se l’ago della bilancia si è spostato dalla loro parte, lo si deve al fatto che a loro si è associato il giudice Anthony Kennedy: cattolico anche lui ma, da buon californiano, tutt’altro che un reazionario (nel 2003 era stato lui l’estensore della sentenza con la quale la Corte decretò l’incostituzionalità della legge del Texas che vietava i rapporti omosessuali; nel 2005 aveva scritto lui la sentenza che stabilì l’incostituzionalità della condanna a morte di assassini che all’epoca del delitto erano sedicenni o diciassettenni; nel 2006 il suo voto aveva contribuito a decretare l’illegittimità costituzionale dei tribunali militari speciali allestiti per processare i detenuti di Guantanamo).

Barack Obama in campagna elettorale ha ostentato la propria religiosità ben più dell’avversario repubblicano (per non parlare della contesa con Hillary Clinton, a confronto della quale pareva un “teo-dem”); eppure, intervenendo nel 2007 (poco prima dell’inizio delle primarie) ad un convegno della potente lobby pro-choice Planned Parenthood, aveva dichiarato che, se fosse stato eletto, il suo primo atto come Presidente sarebbe stato quello di firmare il “Freedom of Choice Act”, ossia il disegno di legge che avrebbe eliminato tutte le restrizioni federali alla libertà di abortire sino ad oggi “ammesse” dalla giurisprudenza della Corte Suprema - ivi incluse la possibilità di obiezione di coscienza rispetto alle pratiche abortive negli ospedali cattolici, e lo stesso divieto di partial-birth abortion.

Nella medesima occasione, Obama aveva criticato duramente la sentenza sul partial-birth abortion del 2007, e aveva denigrato con buona dose di sarcasmo la nomina del presidente John Roberts (il quale poi, di fatto, si sarebbe vendicato facendogli toppare il giuramento nella cerimonia di inaugurazione), promettendo che se eletto avrebbe nominato giudici molto più sensibili al "diritto della donna di scegliere" ecc. ecc..
Il 22 gennaio 2008, una settimana dopo l’inizio delle primarie, in occasione del 35esimo anniversario di “Roe contro Wade”, il candidato Obama ha ribadito quell’impegno solenne ed ha deprecato la sentenza della Corte Suprema del 2007 che, a suo dire, “ha minato un principio importante della Roe contro Wade: quello della difesa della salute della donna”.
Un anno dopo, la dichiarazione del neo-presidente Obama insediatosi alla Casa Bianca da poche ore è stata molto più cauta, e molto più scaltra: “nel 36esimo anniversario di Roe contro Wade, ricordiamo che questa decisione non solo protegge la salute della donna e la libertà riproduttiva, ma al contempo difende un principio più generale: quello per cui il governo non deve intromettersi nelle questioni più intime della nostra vita privata”. Un tentativo, potremmo dire, di dare alla sua posizione pro-choice una sfumatura ideologica meno indigesta all’elettorato repubblicano.
Nel pomeriggio dello stesso giorno, il 44esimo presidente ha firmato un ordine esecutivo (insieme a una dozzina di altri, tra i quali quello che ha decretato la chiusura, entro un anno, del carcere di Guantanamo), con il quale ha abrogato il divieto - introdotto da Reagan un quarto di secolo fa, poi revocato da Clinton, e quindi ripristinato da Bush - di finanziare con fondi federali le organizzazioni non governative che promuovono l’aborto all’estero. Ma nel farlo ha voluto precisare: “È ora di farla finita con la politicizzazione di questo tema. Nelle prossime settimane, la mia amministrazione aprirà un dibattito molto franco sulla pianificazione familiare, lavorando per trovare un terreno comune per meglio venire incontro alle esigenze delle donne e delle famiglia sia in patria che nel mondo”.
Nessun accenno, invece, al “Freedom of Choice Act”.

Ora, il sopraggiungere della necessità di nominare un nuovo giudice costituzionale potrebbe presto costringerlo ad abbandonare la faticosa linea di compromesso che, dal giorno della sua elezione, sembra aver sostituito i toni radicaleggianti che usò durante le primarie.
Staremo a vedere.

martedì 3 febbraio 2009

COMINCIAMO BENE, MA ANCHE MALE


Mark McKinnon non è un tipo qualunque.
Ex cantautore country-rock, poi esperto di comunicazione pubblicitaria e politica, ha lavorato ad entrambe le vittorie elettorali di George W Bush. Subito dopo la seconda, Christian Rocca riferì che McKinnon aveva “affisso un cartello alla porta del suo ufficio, che diceva: "G.T.T.". Le iniziali stanno per Gone to Texas, Andato in Texas, un segno che nell’Ottocento era ricorrente scorgere sulle baracche abbandonate degli Stati del South West”.
Ma dal suo Texas è presto riemerso: nel 2007 è stato uno dei più stretti collaboratori di John McCain. Ha fatto parte dei cosiddetti “cinque di Sedona”, la ristretta cerchia di fedelissimi che non hanno abbandonato il senatore dell’Arizona nemmeno nel momento più difficile della campagna preliminare alle primarie.
Poi, nel maggio del 2008 ha lasciato la campagna di McCain perché apprezzava il “grande messaggio” che sarebbe venuto dall’elezione di Barack Obama, e non intendeva lavorare contro un simile avversario.
Oggi presiede un’agenzia che si chiama Maverick Media, e ho detto tutto.

Ebbene: lunedì su “The Daily Beast” McKinnon ha stilato una classifica de “Le 10 migliori mosse che Obama ha sin qui azzeccato, e le 5 peggiori errori sulle quali è scivolato”.

Rispettivamente:

10: Essersi inserito nella vita sociale di Washington, facendosi vedere spesso in giro ed evitando saggiamente di rinchiudersi nella torre d’avorio della Casa Bianca;
9: Aver sdrammatizzato sarcasticamente la tendenza un po’ isterica di alcuna città USA (tra le quali Washington) a considerare le grandi nevicate invernali come una calamità di fronte alla quale chiudere le scuole;
8: Aver invitato alla Casa Bianca alcuni repubblicani, e aver pranzarto a casa dell’intellettuale conservatore George Will assieme ad alcuni noti opinionisti neocon: il nemico viene scaltramente coccolato anziché tenuto alla larga;
7: Blocco degli stipendi dello staff della Casa Bianca, per dare il buon esempio in tempi di crisi: l’ “antipolitica” può essere ben utilizzata dai politici…
6: Aver confermato il ministro della difesa di Bush, Robert Gates, prendendo tre piccioni con una fava: accreditarsi come presidente bipartisan, dimostrare all’ala sinistra del partito democratico di avere la “schiena dritta”, e dare nel mondo un segnale di non aver nessuna intenzione di alzare bandiera bianca in Iraq;
5: L’aver introdotto parziali incompatibilità tra la professione di lobbysta e la partecipazione allo staff della Casa Bianca;
4: L’aver preso Hillary Clinton come Segretario di Stato, riuscendo così al contempo a neutralizzare la propria principale rivale e a riconciliarsi con l’elettorato clintoniano;
3: L’aver tenuto un pranzo in onore dello sconfitto John McCain, coprendolo di elogi, e confermando così la possibilità che quest’ultimo faccia da pontiere al Senato tra la nuova amministrazione democratica e l’opposizione repubblicana (ieri sullo stesso sito un altro commentatore sottolineava che Old John si accinge a dare dura battaglia al Senato alla manovra anticrisi voluta dalla nuova amministrazione, e anche per questo non potrà essere tacciato di intelligenza con il nemico, ma si avvierà a distinguersi come “il leader di fatto dell’opposizione, un gigante in un partito di pigmei”; per la cronaca, oggi il blog di TIME segnala che McCain si accinge addirittura a lanciare una campagna di mobilitazione contro la manovra).
2: L’aver concesso la sua prima intervista come “Commander in Chief” alla TV araba Al Arabiya, gesto simbolico distensivo per tentare un recupero di immagine degli USA in Medio Oriente;
1: L’aver messo in scena la spettacolare cerimonia di inaugurazione, che McKinnon (da ex musicista mai pentito) definisce entusiasticamente “una Woodstock dei nostri tempi” (sottolineando, però, che le immagini dello show resteranno sì a lungo impresse, ma nessuno si ricorderà il discorso del Presidente, che invece è stato ben al di sotto delle aspettative – e noi qui non possiamo che concordare, anche con le nostre facili previsioni).

Veniamo agli errori:

5: Il malaccorto tentativo di piazzare il governatore del New Mexico (e supertrombato alle primarie democratiche) Bill Richardson come ministro del Commercio, tentativo abortito per via di un’inchiesta per corruzione nei confronti dell’interessato (alla fine quel posto andrà al senatore repubblicano liberista Judd Gregg, una scelta imprevista che ha spiazzato tutti ed aiutato un po' a far dimenticare la figuraccia);
4: Non uno ma due casi di importanti aspiranti ministri sputtanati da problemi di evasione fiscale, così tipici dei furbetti dell’estabilishment e così poco “change-we-can-believe-in”: Tim Geithner, candidato al ministero del tesoro (proprio quello che gestisce i denari delle tasse!...) e screditato dal fatto di aver “dimenticato” di versare 140.000 dollari di tasse per l'uso di una macchina e di un autista messi a sua disposizione da una società privata per cui lavorava come consulente; e Tom Daschle, ministro alla sanità in pectore (nonché guru politico di Obama sul welfare, in procindo di divenire regista plenipotenziario della annunciata, storica, fatidica Grande Riforma del sistema sanitario USA), che ha sistemato (pagando) solo un mese fa un problemino di appena 400mila dollari per alcuni anni di evasione fiscale. Dopo giorni e giorni di disdicevoli polemiche, Daschle ha rinunciato alla nomina poche ore fa. Non è un risultato commovente, anche perché Bush, ricorda McKinnon, cacciò Linda Chavez per molto meno - e per di più ora vi è il rischio che si apra una zuffa nel partito per accaparrarasi quel posto tanto prestigioso quanto delicato (Karen Tumulty di TIME suggerisce che Obama si attenga allo stesso copione del caso Richardson, nominado, a sorpresa, Mitt Romney - ma, francamente, ci sono già tre repubblicani in questo nuovo governo democratico, e pare davvero improbabile che si possa infilarci un quarto...). E per di più, rincara la dose McKinnon in un nuovo pezzo stasera, Obama avrà ora il suo bel da fare a spiegare perché Daschle sì e Geithner no (DAY-AFTER UPDATE 4 Feb: oggi, ancora sul DalyBeast, due premi Pulitzer spiegano perchè secondo loro il caso Geithner è addirittura peggiore di quello Daschle);
3: le benemerite nuove regole sulle incompatibilità dei lobbysti hanno già subito un paio di vistosi “strappi”, e ciò non è né bello né buono, certe cose o le fai bene o non le fai;
2: la pessima idea di consigliare ai parlamentari repubblicani di smettere di ascoltare il faziosissimo (e popolarissimo) polemista radiofonico conservatore Rush Limbaugh, mossa goffa e controproducente che ha generato prevedibilissime polemiche;
1: L’errore peggiore, secondo McKinnon, consiste nell’aver mandato in parlamento una manovra anticrisi decisamente pessima, roba di bassa lega, che “più sta sotto la luce del sole, più puzza”, roba a favore della quale non un solo senatore repubblicano si è sentito di votare, e che se non verrà migliorata potrebbe subire analogo destino alla Camera.

Sia messo a verbale.