giovedì 31 dicembre 2020

TAKE ME HOME


 
Era il 30 dicembre 1970: mezzo secolo fa. John Denver aveva appena 27 anni e non era certo una superstar. L’anno prima una sua canzone, Leaving on a Jet Plane, aveva avuto un buon riscontro nella interpretazione del trio folk Perer, Paul & Mary, e lui sulla scia di quel primo successo come compositore aveva tentato la fortuna anche come interprete, riuscendo a pubblicare con la RCA ben tre album in un anno, nessuno dei quali però aveva ottenuto grandi attenzioni. Nel dicembre del 1970 stentava ancora a riempire i 200 posti del Cellar Door, il club di Washington DC nel quale, in quella settimana fra Natale e Capodanno, era in cartellone tutte le sere come headliner.

Ancor più alle prime armi era il duo locale “Fat City” che in quelle serate post-natalizie si esibiva al Cellar Door come sua spalla: formato da Billy Danoff and Taffy Niver, marito e moglie poco più che ventenni, due sconosciuti di belle speranze per i quali era già molto aprire per un artista di serie B come John Denver. Il giorno prima, il 29 dicembre, i due gli avevano fatto ascoltare una canzone ancora incompleta che avevano abbozzato quasi per gioco mentre guidavano attraverso la campagna del Maryland per andare a far visita a dei parenti. 

Nonostante il genere non fosse affatto quello con il quale Danoff e Niver si misuravano abitualmente, per una volta avevano partorito una canzone country, sia per struttura musicale che per il testo pieno di riferimenti al mondo rurale dei monti Appalachi. I due erano talmente soddisfatti della loro composizione che sognavano di proporla a Johnny Cash. 

Nemmeno John Denver era un cantautore country. Veniva dalla gavetta nei club folk fricchettoni di Los Angeles, e registrava negli studi RCA di New York: in pratica i “meno country” fra tutti i circuiti musicali degli Stati Uniti. Il suo stile era più riconducibile al nuovo folk metropolitano alla Simon & Garfunkel che andava tanto di moda in quel passaggio fra gli anni Sessanta e i Settanta, con ammiccamenti pop-rock vagamente beatlesiani (il suo primo album conteneva una cover di When I’m Sixty-Four, il terzo una di Eleanor Rigby).

Eppure per quella canzone country ancora allo stato embrionale Denver aveva avuto un colpo di fulmine. I tre avevano fatto l’alba per completarla e arrangiarla, e l’indomani, in quella fatidica serata del 30 dicembre, fu lui a cantarla per la prima in pubblico.

Il pubblico andò in visibilio: non solo orecchiarono subito il ritornello e si misero a cantarlo, ma alla fine seguirono cinque minuti di standing ovation. Quella canzone aveva prodotto sin dal suo primissimo debutto quella magia per la quale ciascuno di noi la conosce, per esperienza personale: il trascinamento della folla in un rito liberatorio. Recentemente Dan McLaughlin, commentatore della National Review, ha così sintetizzato in un tweet:
Non capisci veramente che razza di inno è Take Me Home, Country Roads di John Denver finché non a ascolti dal vivo – cantata da chiunque, in qualunque contesto. Qualsiasi band da bar appena decente è in grado di suonarla. È vertiginosa ed evocativa, tutti conoscono le parole e una volta che il pubblico parte con il coro, le persone dimenticano l’imbarazzo.

Subito dopo le feste, John Denver tornò a New York e si affrettò a registrare il brano. Danoff e Nivert cantarono i cori, come quella sera al Cellar Door. L’arpeggio di banjo venne affidato a Eric Weissberg, lo stesso musicista che l’anno seguente avrebbe registrato un altro brano destinato a rappresentare musicalmente il mondo selvaggio degli Appalachi nell’immaginario collettivo: il  “duello di banjo” del film Deliverance (in italiano Un tranquillo weekend di paura).

Take Me Home, Country Roads uscì come singolo il 12 aprile del 1971. Ad agosto giunse al numero 2 della classifica generale di Billboard Hot 100 (seconda solo a How Can You Mend a Broken Heart dei Bee Gees), avendo già venduto un milione di copie. Negli stessi giorni Loretta Lynn, una delle più grandi dive del country, ne stava già registrando la sua versione (pressoché identica all’originale, solo senza percussioni: quasi come se fosse un pezzo bluegrass) per il suo diciottesimo album You’re Lookin’ at Country.

Era la prima di oltre duecento cover di quella che divenne immediatamente, e non ha mai smesso di essere, una delle canzoni country più popolari della storia, e una delle pochissime ad essere conosciute e amate da tutti anche fuori dagli Stati Uniti. È un cavallo di battaglia per i cori tra ubriachi all’Oktoberfest di Monaco di Baviera e persino in Cina è conosciutissima sin dagli anni Ottanta; nel 2018 una versione eseguita da una sconosciuta band newyorkese di nome Spank è stata utilizzata come colonna sonora del videogame distopico Fallout 76, che è ambientato in West Virginia: il video su Youtube attualmente ha 36 milioni di visualizzazioni.


È un bel paradosso quello che vede primeggiare in modo tanto eclatante una canzone country scritta e interpretata da dei perfetti outsider: il circuito dell’industria musicale di Nashville è infatti da sempre ossessionato dal legame con le proprie radici e le proprie tradizioni, e soprattutto è molto geloso del proprio controllo sui processi creativi e distributivi di tutto ciò che viene venduto come “country”.
 

John Denver dal canto suo, pur dovendo il proprio successo a quella canzone country, non abbandonò mai il proprio stile pop-folk, e registrò ben poche altre canzoni del genere; l’unica altra ad aver avuto un buon successo fu Thank God I’m a Country Boy, al n.1 in classifica nel 1975. In quello stesso anno la Country Music Association (istituzione che sta alla musica country come l’Academy sta al cinema) gli assegnò il premio più prestigioso cui un artista country possa ambire, quello di entertainer of the year; ma la sera della premiazione Charlie Rich, il cantante cui venne affidato il compito di annunciare “the winner is”, dopo aver letto il nome di John Denver diede polemicamente fuoco al biglietto in segno di disprezzo. 


Razionalmente, non dovrebbe essere tanto difficile accettare il fatto che quella canzone è uno splendido, riuscitissimo esempio di canzone country anche se l’interprete non è un cantante country. Ma emotivamente i due piani vengono spesso confusi, per una ragione piuttosto evidente: in questo caso l’interprete 
è la canzone. Senza di essa, John Denver così come lo conosciamo non sarebbe mai esistito. Non a caso l’autobiografia che pubblicherà nel 1994, tre anni prima di morire in un incidente aereo, si intitolerà proprio Take Me Home.

Quanto alla Country Music Association: nel 2016 ha si è fatta perdonare quell’episodio increscioso scegliendo proprio Take Me Home, Country Roads, assieme a On the Road Again di Willie Nelson e a I Will Always Love You di Dolly Parton, per un mashup interpretato da trenta star di Nashville, per celebrare il proprio cinquantennale.


C’è poi un paradosso nel paradosso: Take Me Home, Country Roads è di gran lunga la più celebre canzone a parlare dello Stato del West Virginia (ammesso che ne esistano altre), ma in realtà i suoi autori, pur avendo scritto quella che sembra essere una dichiarazione d’amore per quei luoghi, non vi avevano mai messo piede.
Come detto, l’ispirazione era venuta a Danoff e Niver durante un viaggio in Maryland; ma le tre sillabe di Ma-ry-Land non calzavano perché la metrica della canzone ne richiedeva quattro. Danoff in un primo momento aveva pensato di scrivere “Massachusetts”, lo Stato dove era cresciuto, ma alla fine la scelta era caduta sul West Virginia solo perché suonava meglio (“per quanto ne sapevo poteva anche essere in Europa”, ammetterà molti anni dopo). Lo stesso John Denver all’epoca non aveva alcuna esperienza del West Virginia: il suo luogo del cuore elettivo era invece duemila chilometri più a ovest, in Colorado (in omaggio alla cui capitale si era scelto “Denver” come cognome d’arte, essendo pressoché impronunciabile quello vero, Deutschendorf).
La canzone quindi non nacque da un’esperienza autentica del luogo che menziona; e in fin dei conti, a dispetto dell’incipit che contiene due riferimenti geografici virginiani ben precisi (il fiume Shenendoah e i Monti Blue Ridge), essa parla in realtà di un luogo immaginario. Forse anche da qui deriva il suo successo planetario: ben pochi sanno dov’è e com’è fatto il West Virginia, ma ognuno di noi si porta dentro la nostalgia di un qualche “altrove” lontano dalla città, un po’ sperduto, che ama come fosse “quasi un paradiso” e dove anela tornare per potersi “sentire a casa”. 

Uscito su Rolling Stone

lunedì 14 dicembre 2020

L'ERA BIDEN E IL FATTORE T

 

E così, nel bel mezzo della più grave pandemia dell’ultimo secolo, è accaduto ciò che a gennaio sembrava a dir poco improbabilee che non accadeva dai tempi di Jimmy Carter (cioè da 40 anni): la Casa Bianca ha cambiato colore politico dopo soli quattro anniIl voto di del Collegio elettorale verrà ratificato dal Congresso solo il 6 gennaio, ma da oggi Joe Biden è ufficialmente il vincitore di questa elezione. Finiti gli scrutini, terminati i riconteggi, concluse le dozzine di cause nei tribunali di ogni rango, possiamo finalmente osservare in controluce questa elezione, sulla base di numeri definitivi e di dati certi.

Nelle urne Biden ha ricevuto ben 81.284.716 voti popolari, divenendo il presidente più votato della storia; anche Trump ne ha ricevuti moltissimi, 74.223.367, divenendo il secondo candidato più votato della storia dopo Biden (nonché lo sconfitto più votato della storia). Il voto popolare, però, rileva esclusivamente in funzione del passaggio successivo, cioè quello nel Collegio elettorale, e lì l’elezione di Biden è avvenuta esattamente con gli stessi voti rispetto a quella di Trump quattro anni fa (306 contro 232). 

È vero che Trump nel 2016 ottenne quella vittoria pur avendo perso di quasi tre milioni nel voto popolare, mentre Biden ora ha ottenuto gli stessi 306 voti elettorali avendo battuto Trump di oltre sette milioni di voti. Se ci fermassimo a questo, potremmo dire che a parità di voti nel Collegio elettorale la vittoria di Biden è stata molto più ampia. Ma il sistema del Collegio fa sì che i voti siano rilevanti soprattutto in base a dove (in quale dei 50 stati) li si riceve: ha poca importanza il voto negli stati che si considerano già vinti (o persi) a priori, ed è invece cruciale il voto negli stati più in bilico, che fanno da ago della bilancia.

Ecco perché tre settimane fa il Washington Post titolava “Gli elettori che hanno consegnato la vittoria a Biden negli stati chiave non basterebbero per riempire il Rose Bowl, e questo influenzerà il suo modo di governare” (il Rose Bowl è lo stadio di Pasadena, che ha poco più di 90mila posti). La ragione di questa lettura è la medesima che quattro anni fa portava a evidenziare che Trump andava alla Casa Bianca “grazie a 80mila voti in tre stati”.

Le tre vittorie con margine più esiguo (meno di un punto percentuale di vantaggio) Trump le aveva conseguite in Michigan per 10.704 voti (con un margine dello 0,22%), in Pennsylvania per 44.284 voti (+0,72%), e in Wisconsin per 22.748 (+0,76%). Analogamente, Biden non avrebbe vinto senza i voti elettorali di Arizona, Georgia e Wisconsin, nei quali l’ha spuntata, rispettivamente, per 10.457, 11.779 e 20.682 voti popolari (con margine, rispettivamente, dello 0,31%, dello 0,24% del 0,63%). Politicamente la vittoria di un candidato democratico è eclatante in stati come la Georgia e l’Arizona, nei quali la vittoria dei repubblicani era la imperturbabile normalità ormai da decenni; ma sul piano quantitativo si tratta di vittorie fragilissime: nel complesso in quei tre stati 42.918 voti in tutto, poco più della metà di quelli grazie ai quali Trump vinse nel 2016. Sedendovi solo quegli elettori, lo stadio di Pasadena sarebbe mezzo vuoto: li si potrebbe accomodare anche ora, in tempo di distanziamento sociale.

(via The Washington Post)

Vi sono poi altri risultati che potrebbero influenzare ancor di più il modo in cui Biden governerà. Quello più importante non è ancora deciso: si tratta della maggioranza al Senato, che i democratici potrebbero non aver espugnato. Dipende tutto da come andrà il ballottaggio che si concluderà il 5 gennaio per entrambi i seggi senatoriali in Georgia: se i candidati del suo partito non la spuntassero Biden si troverebbe sotto scacco da parte di Mitch McConnell, attuale leader repubblicano al Senato, abile e spregiudicato stratega. Alla Camera invece il partito di Biden la maggioranza l’aveva e l’ha mantenuta, ma perdendo molto terreno: alle ultime elezioni (quelle del 2018) i democratici avevano ottenuto 235 seggi su 435, ora invece ne avranno non più di 224: cioè una maggioranza di appena 6, perdendone una dozzina rispetto a 2 anni fa (qui i sondaggi hanno fallito miseramente: pronosticavano che ne avrebbero guadagnati una buona quindicina).

fra appena due anni si rivota: per le elezioni di metà mandato, che tendono a premiare quasi sempre il partito di opposizione ma ultimamente lo hanno premiato di più quando si trattava del Partito repubblicano. Quando Obama si insediò nel 2009 i democratici avevano 59 senatori e 256 deputati, e i repubblicani venivano descritti come sull’orlo dell’estinzione (memorabile la cover story di Time sul tema); ma appena due anni dopo, alle Midterm del 2010, i repubblicani realizzarono la loro più grande vittoria elettorale parlamentare dell’ultimo secolo, strappando ai democratici la bellezza di 66 seggi, perdendone tre quindi con un vantaggio netto di 63. I democratici in quell’occasione tennero al Senato; ma lo persero alle successive Midterm, quelle del 2014, nelle quali persero anche ulteriore terreno alla Camera (i repubblicani vinsero 247 seggi, un guadagno netto di 13). Con questi precedenti, può Biden aspettarsi qualcosa di buono dalle Midterm del 2022?

(via Forbes)

A questo si aggiunge un problema senza precedenti: il fattore T

Trump non ne vuole sapere di seguire la consuetudine che vede uscire di scena lo sconfitto alle presidenziali. Sta facendo di tutto per non abbandonare la ribalta. Dopo il 20 gennaio, quando non potrà più farlo dalla Casa Bianca, potrà inventarsi qualcos’altro; magari rimettendo in cantiere il progetto, al quale si dice lavori da anni, di una media company tutta sua che faccia concorrenza da destra a Fox News. In ogni caso, sembra puntare a una campagna elettorale permanente per costruirsi un inedito ruolo di leader dell’opposizione che mai nessuno sconfitto aveva rivestito nella storia degli Stati Uniti. Difficile dire fino a che punto ci riuscirà; ma ancora più difficile è prevedere quanto questo potrà nuocere a Biden (posto che è stando all’opposizione, senza il peso di responsabilità di governo, che un personaggio come Trump riscuote più consensi), e quanto invece gli potrà giovare. Dopotutto ci siamo ripetuti mille volte che questa elezione è stata un referendum su Trump, e che il voto per Biden è stato soprattutto un voto contro Trump; il fatto che Biden sia andato meglio rispetto a come il suo partito è andato nell’elezione al Congresso (e simmetricamente Trump sia andato peggio del Partito repubblicano) non sembra certo smentire questa lettura. Chissà, forse avere ancora lo spauracchio Trump in scena nei prossimi mesi e nei prossimi anni potrebbe paradossalmente servirgli da sponda.

Infine c’è un problema che è sotto gli occhi di tutti, ma del quale si parla poco e sottovoce, probabilmente perché non c’è un modo elegante per dirlo: Biden ha 78 anni suonati, sono tanti e li dimostra tutti.  Quando nel 2008 John McCain veniva accusato dall’entourage Barack Obama di essere troppo anziano per diventare presidente, ne aveva 72.  Nessuno è disposto a credere che nel 2024 si potrà candidare per quel secondo mandato che normalmente sarebbe fisiologico. La sua rischia perciò di essere una presidenza zoppa sin dal primo giorno; a meno che non se la giochi facendosi forte del fatto che, proprio perché è a un passo dalla pensione, non ha più niente da perdere.  

Trump invece ne compirà 78 proprio nel 2024, ed essendo stato alla Casa Bianca per un solo quadriennio avrebbe il diritto di ricandidarsi per un secondo, come già indica di voler fareSempre che prima torni a candidarsi alle primarie del Partito repubblicano, e riesca nuovamente a vincerle. Per ora sta raccogliendo un sacco di soldi, che è una cosa che nella vita ha imparato a fare benino. Poi si vedrà.

uscito su Wired

giovedì 20 agosto 2020

THE WEST WING - LEGGERE ATTENTAMENTE LE AVVERTENZE

 


"In America non abbiamo governi ombra o governi di opposizione in attesa di subentro. Quello che abbiamo invece è The West Wing, la serie della Nbc sullo staff della Casa Bianca”. Così 18 anni fa un pezzo uscito sul New Yorker definiva il rapporto quasi ossessivo della politica americana nei confronti della più idolatrata e mitizzata serie televisiva a essa dedicata.

Era una serie ambientata in quegli anni, ma “in un universo semi-contemporaneo nel quale il World Trade Center non è mai crollato” e nel quale alla Casa Bianca al posto di George W. Bush sedeva la sua perfetta, geometrica antitesi. Jed Bartlet, il presidente democratico che Bill Clinton non era stato, il presidente degli Stati Uniti perfetto secondo l’immaginario collettivo tradizionale: intelligentissimo, di un’intelligenza non da Principe di Machiavelli ma da filosofo platonico (prima ancora di divenire presidente ha vinto il Nobel per l’Economia); non solo scevro da ipocrisie, ma ancorato a un’integrità morale iperbolica al limite della santità, esente da vizi e scandali, e per di più segretamente afflitto dalla sclerosi multipla.

Un soggetto del genere sarebbe facilmente risultato oleografico e melenso se realizzato da una mente meno che geniale; uscì invece un capolavoro grazie al talento impressionante di quell’Aaron Sorkin che aveva debuttato appena ventottenne scrivendo (sui tovagliolini di un bar, narra la leggenda) l’opera teatrale A Few Good Men, poi trasfusa nell’omonimo film di Bob Reiner del 1992 con Tom Cruise, Demi Moore e Jack Nicholson (in Italia Codice d’onore), ma che proprio grazie a The West Wing, in un’epoca nella quale la tv era ancora considerata un campionato di serie B, si sarebbe fatto conoscere come uno degli sceneggiatori più dotati della sua generazione.

Sorkin, che come cavallo di battaglia vanta dialoghi ipnotici quanto verbosi (“mi avevano chiesto di iscrivermi a Twitter, come fanno molti sceneggiatori, ma non mi va: non credo di essere capace di scrivere nulla in 140 caratteri”, ha detto una volta), scrisse solo le prime quattro stagioni della serie, per poi passare la mano a uno staff di suoi surrogati e tornare a dedicarsi al cinema, sul quale all’epoca le produzioni televisive non avevano ancora avuto il sopravvento (nel 2007 firmò La guerra di Charlie Wilson di Mike Nichols, con Tom Hanks e Julia Roberts; nel 2010 The Social Network di David Fincher, il film sull’invenzione di Facebook che gli valse un meritato Oscar).

The West Wing aveva esordito sul piccolo schermo contestualmente all’elezione di Bush e sarebbe andata in onda per sette anni sino al 2006, cioè immediatamente prima dell’ascesa di Barack Obama (alla cui presidenza avrebbe invece fatto da contrappunto la ben diversa House of Cards, un coagulo di disillusione e cinismo, ferocia sanguinaria e spregiudicatezza luciferina, il trionfo di quella carogna di Frank Underwood che è l’antitesi di Bartlet e incarna lo smascheramento della pia illusione della sua West Wing). E a proposito di Barack Obama: proprio nella settima e ultima serie di The West Wing al presidente Bartlet subentra un successore molto giovane, palesemente ricalcato a sua immagine e somiglianza, che sembra veramente anticipare la realtà; l’unica differenza è che anziché essere afroamericano è latino (si chiama Matt Santos) – e anche questo è tipico della serie, i latinoamericani avevano da poco sorpassato gli afroamericani, quindi in teoria aveva più senso un Obama latinoamericano.

Ed ecco un altro elemento fondamentale di The West Wingl’attitudine profetica, ma anche i suoi limiti (che talvolta i suoi fan trascurano). La giornalista e scrittrice Guia Soncini ha recentemente scritto che in quella serie “c’era già tutto, da «troveremo la cura per il cancro» detto in un comizio alle assunzioni degli insegnanti al timore d’una pandemia ai vaccini alla predisposizione dell’elettorato a offendersi alla smania dell’internet di dir la sua”. C’è del vero, ma è altrettanto vero che nulla in The West Wing ha mai suggerito, né agli addetti ai lavori né ai semplici appassionati, la eventualità dell’elezione di un presidente come Donald Trump. Che, scusate, non è un dettaglio di poco conto.

Anzi: chissà che proprio l’influenza dei canoni tramandati didascalicamente dal culto pagano di The West Wing non abbia contribuito a fuorviare le nostre analisi. Caro Aaron Sorkin, forse in fondo è anche un po’ colpa di quel tuo maledetto capolavoro se in tanti quattro anni fa abbiamo miseramente fallito nella previsione: guarda caso, spesso chi ha fallito con maggior ardire apparteneva proprio alla setta dei westwingers italici.

In Italia la serie non ha mai fatto grandi numeri, forse perché presuppone una comprensione della politica americana che mal si concilia con il rozzissimo luogocomunismo al quale la vulgata nostrana ci ha purtroppo abituati quando si parla di politica a stelle e strisce. Inoltre dopo essere stata inizialmente trasmessa da Rete 4, migrò per un po’ su Sky (canale Fox), per poi finire nella nicchia di canali secondari come Steel e Arturo, e infine definitivamente fuori dai canali legali, nella catacomba dei download pirata, senza più il doppiaggio e quindi a uso e consumo dei quattro gatti che padroneggiavano a sufficienza la comprensione della lingua inglese. Da cui una fisiologica acutizzazione della sindrome da setta di iniziati, a volte persino un po’ snob, che aveva finito per caratterizzare la esigua comunità dei suoi pochi ma raffinatissimi spettatori italiani. Con il tempo la chiusura in una bolla, in una echo chamber, è stata fatale, portando alla miopia i fortunati che potevano essere destinati a vedere più lungo degli altri.

Ben venga quindi il colpo di scena: quando ormai avevamo perduto ogni speranza, in una stagione in cui l’elitarismo non paga, The West Wing in versione comodamente e pigramente doppiata è salita alla ribalta della visione per tutti, libera e mainstream, grazie ad Amazon Prime Video.

Approfittatene. Con l’approssimarsi delle elezioni presidenziali americane, guardatela. Gustatevela. Usatela. Anche se non aveva previsto Trump. Basta tener presente che si tratta di una narrazione che spiega, e persino insegna, la politica americana non come era un tempo e purtroppo non è più, bensì semmai come dovrebbe essere in teoria (ma forse non è mai stata realmente – non compiutamente, non del tutto). Basta saperlo, e non scordarlo mai. Buona visione.

Uscito su Wired

LEGGI ANCHE

mercoledì 4 marzo 2020

JOE BIDEN STRIKES BACK

 


Sindaco Bloomberg, Lei con tutti i suoi soldi non riuscirà mai a creare l’entusiasmo e l’energia di cui abbiamo bisogno per avere l’affluenza elettorale necessaria a sconfiggere Donald Trump”. È stato facile profeta Bernie Sanders due settimane fa, nel puntare il dito contro l’ex sindaco di New York City, il quale ha speso mezzo miliardo di dollari (cifra folle e record storico, senza precedenti)  per la sua candidatura alle primarie presidenziali democratiche basata totalmente sull’entrata tardiva “direttamente al Super Tuesday”, cioè ieri. 

Si è trattato di un esperimento a dir poco spregiudicato, al limite del gioco d’azzardo: senza partecipare né ai caucus dell’Iowa, né alle primarie del New Hampshire, né ai caucus del Nevada né alle primarie del South Carolina, Bloomberg ha puntato tutto su una sua vittoria nel voto che si è tenuto simultaneamente nelle scorse ore in 14 stati (Alabama, Arkansas, California, Colorado, Maine, Massachusetts, Minnesota, North Carolina, Oklahoma, Tennessee, Texas, Utah, Vermont e Virginia). E invece ha perso pressoché ovunque: l’unica votazione da lui vinta risulta essere quella alle isole Samoa (che assegnano 6 delegati su 3979). Con gli spiccioli raggranellati nei tre o quattro stati nei quali, pur perdendo, ha comunque superato la soglia di sbarramento del 15%, dovrebbe attestarsi sulla quarantina di delegati – e quindi, a buon senso, dovrebbe por fine alla sua impresa nei prossimi giorni, se non già nelle prossime ore. 

Ritirandosi, Bloomberg sgombrerà ulteriormente il campo alla candidatura di Joe Biden, il quale ieri ha già beneficiato dell’avvenuto ritiro, subito dopo il voto di sabato in South Carolina e proprio alla vigilia di questo del Super martedì, di Pete Buttigieg e di Amy Klobuchar, i quali gli hanno dato pubblicamente il loro endorsement durante un apposito comizio, ben orchestrato lunedì sera a Dallas.

Di fatto Biden rimarrà a questo punto l’unico candidato moderato in campo, ma soprattutto si confermerà il candidato sul quale punta l’establishment del Partito democratico, che forse sta riuscendo ad attuare contro la candidatura anti-establishment di Sanders ciò che il Partito repubblicano non riuscì a fare quattro anni fa contro la simmetrica scalata di Donald Trump.

Sanders, che fino a una settimana fa sembrava improvvisamente in testa in queste primarie, stanotte ha prevalso solo in Colorado, Utah, Vermont e California. Inoltre da alcuni stati giungono numeri ben inferiori a quelli delle primarie del 2016, che erano state un duello fra Sanders e Hillary Clinton, infine vinto da quest’ultima: in Minnesota quattro anni fa Sanders aveva vinto con il 61%, stanotte ha perso con il 30%; in Oklahoma aveva vinto con il 52%, e stanotte ha perso con il 25%; persino in California, uno dei pochi stati nei quali stanotte Sanders ha vinto, i primi dati parziali lasciano pensare che la sua percentuale risulterà inferiore di almeno dieci punti rispetto a quella del 46% con la quale aveva perso nel 2016.

Dati come questi mal si conciliano con l’affermazione, spesso circolata nelle scorse settimane, che Sanders avesse allargato la propria base. Presumibilmente una parte del suo problema è la competizione a sinistra con Liz Warren; il che però non chiude certo il discorso, dato che ad oggi pare che Warren, nonostante i risultati decisamente deludenti rispetto alle attese iniziali, per il momento non si ritirerà.

Tutto quindi al momento arride a Joe Biden, il quale ha vinto in Alabama, Arkansas, Massachusetts, Minnesota, North Carolina, Oklahoma, Tennessee e Virginia, e soprattutto in Texas, che oltre ad essere il secondo stato per dimensione elettorale (e quindi per numero di delegati) comincia anche a essere considerato un possibile fronte di conquista nell’elezione generale a novembre (contrariamente alla California, che è in assoluto lo stato più grande, ma nell’elezione generale conta poco, essendo lì del tutto scontata la vittoria dei democratici, chiunque sia il candidato).

Insomma, Biden stanotte è improvvisamente tornato a essere il frontrunner. Certo, la partita è tutt’altro che chiusa, ma è pur vero che tra le prossime votazioni quella di maggior peso numerico (248 delegati, poco meno di quelli assegnati in Texas) ma anche la più cruciale politicamente (lo stato è spesso un ago della bilancia nell’elezione generale) è rappresentata dalle primarie della Florida, fra due settimane. E in Florida, si sa, conta moltissimo il voto degli anziani, che attualmente sembra molto più orientato verso Biden che verso Sanders.

Uscito su Wired

mercoledì 8 gennaio 2020

QUANTE PROBABILITA' CI SONO CHE TRUMP VENGA RIELETTO?



 La notte del 6 novembre 2012 mi trovavo negli studi di SkyTg24 a commentare in diretta, assieme ad altri ben più qualificati analisti, lo spoglio dell’elezione del presidente degli Stati UnitiPoiché regnava grande incertezza sull’esito, trovai giusto osservare che, qualunque esso fosse stato, quella suspense era già di per sé un fatto eclatante: la rielezione di un presidente al termine del suo primo mandato – qual era Barack Obama in quel momento – è infatti un evento del tutto fisiologico che rappresenta la pura e semplice normalità.

Tanto che, da almeno un secolo a questa parte, il solo ed unico caso di un presidente licenziato dopo soli quattro anni pur essendo stato inizialmente eletto in discontinuità con il suo predecessore (senza, quindi, che la sua mancata rielezione sia giustificabile con la naturale oscillazione del pendolo dell’alternanza fra i due partiti) è rappresentato dalla presidenza di Jimmy Carter, che non a caso è considerata la presidenza fallimentare per antonomasia: la sua mancata rielezione nel 1980 si può veramente considerare come un classico caso di eccezione che conferma la regola.

In questo senso, dissi, era un fatto notevole quello di trovarci a seguire lo scrutinio della sfida elettorale fra Obama e Mitt Romney con il fiato sospeso, anziché sbadigliando per la prevedibilità dell’esito (e non solo per la tarda ora). Non appena ebbi terminato di esporre queste considerazioni, vi fu un collegamento con un insigne professore di un’illustre università, il quale, con tono piccato, mi riprese – come solo un professore sa fare – facendo presente che Obama era sì al termine di un primo mandato presidenziale conferito con discontinuità politica rispetto al suo predecessore, ma era anche alle prese con un tasso di disoccupazione del 7,9%: e dai tempi di Franklin Delano Roosevelt nessun presidente uscente era più riuscito a ottenere la rielezione con un tasso di disoccupazione superiore così alto.

Beh, quel professore aveva ragione – e la sua ragione torna buona per parlare della principale corsa politica del 2020: quella per la Casa Bianca. È molto difficile stabilire fino a che punto la rielezione di Obama si dovette alla inadeguatezza del suo antagonista, e quanto fu invece aiutata dal fatto che quel tasso di disoccupazione, per quanto ancora molto alto, fosse pur sempre in calo rispetto al drammatico 9,5% del 2010. Sta di fatto che la rielezione di Obama fu al tempo stesso una conferma della regola cui accennavo prima, ma anche una storica smentita della presunzione di non rieleggibilità con disoccupazione superiore prossima all’8%.

A undici mesi dalla prossima elezione presidenziale, mi accade sempre più spesso di ripensare a quel confronto; e più ci ripenso, più stento a immaginare come Donald Trump possa mancare la propria rielezione il prossimo 3 novembre. Se infatti nel 2012 la disoccupazione al 7,9% non impedì la rielezione di Obama, cosa mai potrebbe trasformare Trump nella versione di destra di Jimmy Carter? 

La vulgata, quando si parla dell’elezione presidenziale del 1980, individua solitamente il fattore determinante nella crisi degli ostaggi in Iran; ma di certo Carter non fu aiutato nemmeno dalla disoccupazione al 6,9% e in crescita (fattore, quest’ultimo, da non trascurare: Reagan quattro anni più tardi sarebbe stato rieletto proclamando che era “di nuovo mattina in America” con il tasso di disoccupazione a 7,7%, ma in calo). 

Ebbene: per quanto riguarda Trump, il fattore occupazionale non potrebbe essere più favorevole alla rielezione. Da settembre il tasso di disoccupazione è infatti sceso al 3,5%, il livello più basso registrato nell’ultimo mezzo secolo, cioè dai tempi dello sbarco sulla Luna e del festival di Woodstock. In cinque stati in particolare (Alabama, California, Illinois, New Jersey e South Carolina) la disoccupazione è scesa al livello più basso mai rilevato.

Secondo un recente sondaggio della Cnn, la percentuale degli americani che attualmente danno un giudizio positivo della situazione economica ha raggiunto il 75%: il dato più alto dal 2001

Ora, anche se la storia non si fa con i se, trovo che non sarebbe fuori luogo chiedere di alzare la mano chi non ritiene che anche Carter nel 1980 con dati simili sarebbe stato rieletto, crisi degli ostaggi o no. Che la rielezione di Trump appaia auspicabile o meno, forse prima di azzardare pronostici e ipotizzare scenari toccherebbe partire da qui.

Uscito su Wired